domenica, Novembre 17, 2024

The Baseball Project – 3rd: la recensione

The Baseball Project, ovvero un’americanata di tutto rispetto. Una di quelle costruttive, da far proprie. Steve Wynn (Dream Syndicate, Gutterball), Linda Pitmon (Zuzu’s Petals), Scott McCaughey (Minus 5, The Young Fresh Fellows, R.E.M.), Mike Mills e Peter Buck (R.E.M.) si sono riuniti per regalarci un nuovo concept album su uno degli sport americani più seguiti di tutti i tempi. Il logo del supergruppo – tra le formazioni eterogenee più interessanti del rock degli ultimi decenni – raffigura un battitore che brandisce una chitarra al posto della mazza da baseball. Un’associazione d’idee geniale, ma non del tutto originale. Tanto per cominciare, nel 1941 la squadra dei Chicago Cubs introdusse la figura dell’organista da stadio a Wrigley Field. Da quel momento in avanti, tutti i ball game americani ne hanno avuto uno. Un modo, divenuto poi una tradizione negli Stati Uniti e una moda all’estero, di musicare il periodico agonismo a stelle e strisce che gli stessi Baseball Project, come da tradizione, hanno ripreso. Difatti, in questo nuovo album l’organista ufficiale è quello dei Boston Red Sox, Josh Kantor. E gli stacchetti di organo servono a enfatizzare la narrazione.
Probabilmente, nel 2007 i riuniti giganti del rock nonché tifosi accaniti decisero casualmente di formare un’unica band senza alcuna pretesa se non quella di divertirsi e sfruttare la propria fama per ottenere ingressi omaggio allo stadio in cambio della propria dedica musicale al baseball. Certamente, oggi, sei anni e quattro album dopo, l’idea alla base del progetto è quella di fare una musica che abbia come unico tema il ball game nazionale, mentre l’obiettivo specifico di questo nuovo disco è quello di celebrare lo sport più amato attraverso la sua storia e gli aneddoti più mitizzati di sempre. Dunque, con la voce di Steve Wynn, le chitarre e il basso dei compianti R.E.M. e la batteria di Linda Pitmon, la grande storia del baseball è ora accessibile e appassionante anche per chi non conoscesse le regole del gioco.

La prima traccia, Stats, è un breve pezzo quasi strumentale in cui una voce computerizzata enuncia una serie di numeri che il vero tifoso traduce simultaneamente in nomi di giocatori e relativi risultati ottenuti. Attualmente c’è anche un contest, attivo sul sito ufficiale della band, mediante il quale chi azzecca tutte le corrispondenze tra questi numeri e i rispettivi giocatori/partite vince un viaggio e un ingresso al Triple-A all-star game a Durham, in North Carolina.  Buon divertimento. 
Dalla traccia numero due in poi, sedetevi pure comodi e preparatevi a prendere una sbandata per uno sport che, per lo più, da questa parte dell’oceano è sempre stato troppo poco coinvolgente – o forse solo incomprensibile. Larry Yount, per citare la traccia numero quindici, è il nome del lanciatore più sfigato della storia del baseball, ovvero colui che in occasione della sua unica partita in Major League, nel 1971, non riuscì ad affrontare neanche un battitore perché si infortunò prima di lanciare, durante il riscaldamento. Sarebbe finito poi nel dimenticatoio se non fosse stato per questo suo incredibile primato e per il fratello minore, Robin Yount, che invece entrò nella Hall of Fame: “My name is Larry Yount/ And my story doesn’t rise/ Like a ripple on the tide/ Late at night I think what might have been/ What might have been”. Un pezzo country che ricorda Johnny Cash – volutamente molto rievocato anche in altre canzoni, come A Boy Named Cy e The Baseball Card Song – quest’ultima praticamente identica a A Boy Named SuePascual On the Perimeter e 13 sono le due canzoni migliori del disco. La prima, cantata eccezionalmente da Linda Pitmon, celebra ragionevolmente i gloriosi tempi del Paisley underground e dei migliori R.E.M. La storia è quella di Pascual Perez, meglio noto come “Perimeter Pascual”, che quando giocava con gli Atlanta Braves arrivò in ritardo sul campo dopo essersi perso alla guida per le strade circostanti lo stadio. 13 è semplicemente un capolavoro e narra in tono decisamente meno cameratesco le vicende di doping che segnarono per sempre la carriera di Alex Rodriguez. Anche qui, come in Pascual On the Perimeter, è impossibile non cogliere l’impronta indelebile dei superstiti della più famosa rock band di Atlanta, GA. The Day Dock Went Hunting Heads appartiene invece a Steve Wynn e Scott McCaughey. Molta enfasi è posta sulla metrica, sull’utilizzo dell’organo e sulle chitarre distorte. “And if you think taking LSD/ Might help you throw a no-hit game/ You might consult a good drug counsellor/ In fact that’s what Dock became”: questa è la storia di Dock Phillip Ellis, Jr., lanciatore dei Pittsburgh Pirates e autore del fantasmagorico no-hitter ai danni dei San Diego Padres nel 1970, in occasione del quale lui stesso affermò di essere sotto effetto dell’LSD – sostanza di cui faceva abitualmente uso. Quando si ritirò dal baseball, Ellis era malato di fegato e decise di trascorrere gli ultimi anni della propria vita adoperandosi per il recupero dei tossicodipendenti. Su Dock Ellis è uscito un documentario, dal titolo No No: A Dockumentary che è stato presentato al Sundance Film Festival 2014 e vanta una colonna sonora originale composta dal Beastie Boy Adam Horovitz. L’ultimissima traccia è nascosta in coda alla diciassettesima ed è una cover in stile punk della celebre Take Me Out To the Ball Game. Perfetta per il centesimo anniversario di Wrigley Field.

Un album concettuale inevitabilmente culture-bound – ma quasi impeccabile, se non fosse per un paio di pezzi mediocri, tra cui Extra Inning Of Love. I Baseball Project – non lo si può negare – sono senza dubbio tra i supergruppi rock più brillanti ai quali si possa pensare, mentre il filo conduttore è uno sport grandioso come il baseball e tutto ciò che ne consegue, come l’idea di raccontarlo con una discografia. Chissà se da questa parte dell’oceano avremo mai la fortuna di vederli suonare dal vivo. Sicuramente, non in uno stadio di baseball gremito. Però è più probabile che, se succede, avremo del pollo fritto in mano.

Flora Strocchia
Flora Strocchia
Flora scrive, è traduttrice, ascolta molta musica e non si perde un concerto.

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