martedì, Novembre 5, 2024

The Go Betweens – uno speciale in 4 capitoli – Parte 3

The Go Betweens // Parte 3: “London no longer exists” (1985-1989)

“La luce che brucia con più intensità

è sempre quella al centro della fiamma”

(In the core of a flame, Grant McLennan)

“Potrai ottenere sempre quello che vuoi
se brucerai di un fuoco bastante”

(I just get caught out, Robert Forster)

La Storia -si sa- non è fatta di ‘se’ e di ‘ma’; eppure verrebbe da chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se a questo punto della vicenda le cose fossero andate diversamente. Se una major avesse creduto (e per davvero) nei Go-Betweens. Se avesse dato loro la chance di spendere settimane in libertà in uno studio di registrazione per affinare al meglio le loro canzoni invece ritagliarsi il tempo per un album nelle pause di mesi spesi a fare e cercare date per concerti (che permettevano loro di tirare avanti o poco più, ché Forster dovette aspettare gli anni 2000 per potersi permettere di acquistare una casa). Forse allora avremmo potuto avere più LP come “Liberty Belle And The Black Diamond express”, per esempio. Ad ogni modo, quarto album e quarta casa discografica: Beggars Banquet (che mantenne con Forster e McLennan contatti per tutti gli anni ’80 e ’90).

the-go-betweens-liberty-belle“Liberty Belle And The Black Diamond express” si avvicina ad essere l’album perfetto dei Go-Betweens, ed è considerato da molti (tra fans e critici) il loro miglior lavoro. Frutto infatti di un buon investimento per le sessions di registrazione (a cui contribuirono -sia detto chiaramente- sia la casa discografica sia la band stessa), “Liberty Belle…” rappresenta la realizzazione della promessa espressa (ma non mantenuta) col precedente “Spring Hill Fair”: realizzare un album di musica pop di alta qualità, ricco, intelligente, ed ambizioso, senza alienarsi né i fan di vecchia data né un pubblico (teoricamente) più vasto.

L’LP è aperto dalla strana coppia Spring rain + The ghost and the black hat. Spring rain, la canzone à la Prince (“vestito con un cardigan” come ebbe a dire a riguardo McLennan nel DVD “That Striped Sunlight Sound”) di Robert Forster dà inizio alle musiche con un’esplosione di colori, facendosi notare come uno dei pezzi più solari della band di Brisbane, con la sua strofa fatta di basso e chitarra solista che salgono e scendono da una melodicissima scala, e dal bridge che -con scatti nervosi- introduce il ritornello call-and-response da gospel pop.

Di tutt’altro umore è The ghost…, con il suo verso iniziale (“A widow’s life’s no life at all”, in cui è difficile non vedere l’ennesimo accenno di McLennan alla propria storia familiare), posto subito dopo l’assolvenza mesmerica iniziale (una chitarra acustica che fa da sottofondo ad un unico arpeggio ripetuto all’elettrica e ad una fisarmonica che segue il basso su un tempo vagamente folk dal sapore dolceamaro), riesce a non essere né allegra, né triste, né rock, né folk, nei suoi due minuti e poco più, evitando ogni cliché tanto musicale quanto letterario (guardando dentro la vita silenziosa di una donna lasciata sola dal marito defunto). A seguire solo pezzi notevoli, tra cui: la veloce In the core of the flame, la ballata forsteriana Bow Down, e Palm Sunday (con una strofa scorbutica con riff di organo che entrano come colpi di tosse, ed un refrain leggero con un intreccio di chitarre gioioso). Ma soprattutto quel capolavoro che va sotto il nome di Twin layers of lightning. Twin layers…entra nel disco con un passo lento, notturno, sottolineato da una batteria con un leggero delay (da sinistra a destra), da un basso laconico, e da una chitarra che sparge note con parsimonia, per poi accompagnare con un riff schematico l’attacco della voce di Forster (mentre un vibrafono entra e rende l’atmosfera, se possibile, persino più sospesa), la quale sussurra mozziconi di frasi che accompagnano con discrezione l’ascoltatore. Il ritornello è poi un crescendo di strumenti ed intensità nel quale il canto insiste a procedere a scatti, lasciando il compito della delineazione di un orizzonte melodico agli strumenti che solitamente fanno il lavoro armonico (gli arpeggi dell’elettrica, un pianoforte che appare e scompare dal mix). Il resto lo fa il testo che, anche autoironicamente, prende in giro la fama ed i cliché del r’n’r (“I buttafuori non hanno cervello/mi dice voi non potete entrare/Ho dovuto raddrizzarlo/Senti Jack, ma non lo sai?, io sono una star”).

A degna conclusione una Apology accepted sorretta da una interpretazione di McLennan tutta nervi (tesi); la cui ragione è comprensibile soprattutto se si prende per buona la storia legata ad essa supportata dalla stessa Morrison: la canzone sarebbe stata cioè scritta nell’attesa di un telegramma di risposta dopo una lettera di scuse di McLennan ad una donna che al momento viveva lontano da lui. Il telegramma di lei (che proclamava che le scuse dell’australiano erano state in effetti accettate) finalmente arrivò in tempo per la session di Apology accepted, cantata di getto con le lacrime agli occhi. E’ stata, non a torto, definita come una canzone pre-grunge da David Nichols nella biografia della band1, proprio per il forte carico emotivo che porta sé.

Sembra lapalissiano ormai, ma anche con “Liberty Belle” i GoBs mancarono l’approdo nelle classifiche. Non bastarono né un album prodotto con praticamente ogni crisma (quartetto d’archi, vibrafoni, oboi, e persino la backing vocal di Tracey Thorn in Head full of steam e Apology accepted), né servirono i video dei singoli Spring Rain e Head full of steam.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=dkRNjqIMpPM[/youtube]

I quattro, ormai soffrivano la permanenza in una Londra che era loro quasi sempre apparsa tetra (“Una fogna”, ebbe a dire una volta McLennan in un impeto di rabbia), e soffrivano di apparire sempre come l’eterna promessa disattesa del rock. E gli effetti iniziarono a vedersi: Morrison e Forster si lasciarono (seppure continuando a suonare sera dopo sera assieme…), e Forster diede sempre più spazio alle sue eccentricità: si veda il video di Head full of steam, o si sappia dei concerti dove Bobby aveva preso ormai l’abitudine di rimanere quasi immobile per metà concerto per poi lanciarsi in improbabili balletti (lui, l’uomo più allampanato e meno black del mondo).

Non è difficile allora comprendere perché col nuovo anno stessero vagliando la possibilità di ri-trasfersi in Australia. Quella decisione fu rimandata di qualche mese (anche per via della ragazza newyorchese di Vickers, cui l’idea non aggradava non molto), mentre un’altra venne presa all’istante, dopo solo un paio di concerti di prova: sarebbero diventati un quintetto. Il nome del quinto membro era Amanda.

tallulah-the-go-betweensAmanda Brown -nativa di Sydney a differenza degli altri GoBs- era una musicista di estrazione classica, in grado di suonare sia violino che oboe (oltre alla chitarra). Quello che successe poi (e che inevitabilmente contribuì a cementare l’idea che quella dei Go-Betweens fosse un po’ una soap-opera rock à la Fleetwood Mac) fu che la bella Amanda (al primo tour) si innamorò di Grant. Da questa line-up allargata nacquero un approccio live rinnovato, ed un nuovo album, un po’ raffazzonato, e probabilmente ideato (o terminato) con in mente le classifiche che non li avevano voluti nemmeno dopo il loro album migliore e più accessibile. Conseguentemente “Tallulah” risultò un album con una produzione che reclama vendetta, e con l’ulteriore peccato (per nulla veniale) di un lotto di canzoni che anche oggi, a molti anni di distanza, pare ad anni luce dai migliori Go-Betweens. Perché se i pezzi di Forster non scendono mai sotto un certo livello (ed anzi, The Clarke sisters fa alzare più di un sopracciglio, per il suo fascino drammatico), quelli di McLennan (al di là delle due canzoni-gemelle Bye bye pride e Right here, quest’ultima però massacrata dal co-produttore nella pia speranza di farne un hit) si inabissano in profondità sconosciute…arrivando a toccare il punto più basso dell’intera discografia dei GoBs col singolo (!) Cut it out. Intesa da Grant come qualcosa di ispirato a pezzi come Kiss e Sign o’ the times di Prince che avevano fatto dello studio e della tecnologia anni ’80 il motore di canzoni di successo, ne venne fuori un funky che al massimo potrebbe appartenere ad una cattiva cover band dei T-Rex senza groove (che poi i Go-Betweens siano stati definiti da Alan Horne della Postcard come “la più bianca delle band bianche”2 non è un caso).

Schivato per l’ennesima volta, anche questa volta, il successo di pubblico, con la decisione di tornare definitivamente in Australia persero però un membro: Robert Vickers, il bassista che era stato in molte occasione l’ago della bilancia (che scelse il cuore e si trasferì definitivamente a New York con la sua bella). Fu così che comparve l’ultimo Go-Between degli anni ’80. John.

John Willsteed entrò nella band perché era uno del giro, un altro di Brisbane, “un loro amico”. Che poi non fosse un grande fan della band (mai aveva ascoltato un loro album), e che non dimostrasse particolare interesse per nessuna delle loro canzoni, bè, tutto questo non pesò nel giudizio che la band diede per decidere se Willsteed potesse essere uno di loro. Che poi finì per dimostrarsi un semi-alcolizzato che alla prima occasione metteva McLennan contro Forster (e viceversa), e che approfittava degli showcase nei negozi per fregarsi i dischi dimostra soltanto l’incredibile naiveté dei Go-Betweens. Questo però non impedì loro di dare vita a “16 Lovers Lane”.

16loverslaneLe canzoni del sesto LP dei GoBs nacquero perlopiù con un’acustica in braccio, mentre Forster e McLennan suonavano l’uno all’altro su una veranda di una casa-palafitta nel quartiere Woolloomooloo di Sydney. Per la prima volta da molto tempo erano solo Robert e Grant ed un paio di chitarre, (di nuovo) nel caldo sole australiano. Per spiegare come tutto ciò si sviluppò fino a diventare “16 Lovers Lane”, un album che -come pochi altri nella storia della musica- si avvicina a definire più di un’ipotesi su cosa sia la “perfetta canzone pop”, è impossibile se non si crede che un gruppo di amici, complici, amanti sappiano racchiudere gran parte delle loro pulsioni e passioni in dieci canzoni fatte di un immaginario “suono di sole che filtra dalle finestre” (come citato nel loro DVD “That striped sunlight sound”).

Un suono presente fin dall’iniziale Love goes on!, prima di una serie di canzoni di McLennan che Forster non tardò a definire come tra le sue migliori in assoluto, e che apre l’LP con una semplicità tutta McLennaniana, e che dipinge storie di innamorati (che “vogliono la luna”); o in Quiet heart, con quell’incipit chitarra acustica + violino che da il senso del respiro di un essere umano (e che è nata da alcune settimane di lontananza di Amanda da Grant), e che continua con un assolo di armonica d’un languore tutto dylaniano, o nella The devil’s eye (di cui Amanda è ancora la musa) che in poco più di due minuti miscela malinconia e dolcezza in un ¾ sognante. Ma se “16 Lovers Lane” è non solo uno dei loro lavori migliori, è anche il punto di arrivo di una carriera: lo si vede nella difficoltà che, da ascoltatore, si fa nel riconoscere chi ha scritto cosa. Perché: possibile che sia del Forster maestro di canzoni sghembe quella Clouds che pare uscita dal 1965, con il suo jingle-jangle iniziale, una batteria saltellante, e con quella melodia cantata assieme alla Brown (ma soltanto dopo essersi seduti in mezzo ad un cerchio di candele accese)? E non tanto lontana è Love is a sign, che, seppure nella sua solita bizzarria (colta appieno in un testo che inizia dicendo “Sono dieci piedi sott’acqua/in piedi su una canoa affondata/che guardo su verso le ninfee”) vede comunque Forster ancora alle prese con materiale pop (che qui, come in molte altri parti dell’album, viene supportato da una seconda chitarra che richiama fioriture, spesso provenienti dalle mani di un Willsteed in questo davvero utilissimo). Ed ancora: unica traccia dell’album nata in absentia di Forster, e canzone con la parola “singolo!” scritta addosso, la Streets of your town di McLennan viene portata in studio praticamente finita e rappresenta (oltre al solito tentativo fallito di entrare nelle chart) uno strano caso col suo miscuglio di raffinatezza e cantabilità tutte pop uniti ad un testo che -tra tutto il rifrangersi di fasci dorati di luce solare e di chitarre in maggiore- parla di “macellai che affilano i coltelli” e di una città piena di “mogli picchiate”.

Come raccontare a questo punto la conclusione della storia di “16 Lovers Lane” (e di questi Go-Betweens) se non con una canzone? O meglio ancora: con la canzone che chiude “16 Lovers Lane”.

Dive for your memory si basa su di una sequenza di accordi tanto semplice quanto fascinosa (con una seconda chitarra che, come sempre in”16LL”, abbellisce ed arricchisce l’intero brano), e su di una storia che nasce da quella di Robert e Lindy: in una delle -ennesime- liti lei gli aveva rinfacciato che (per colpa della band -che non funziona …) loro due non avevano mai avuto una chance; al che Robert le aveva risposto -seppure la loro relazione fosse ormai chiusa- che non era stato così, che loro quella chance ce l’avevano avuta, e che avrebbe cercato nel loro passato assieme (dive for your memory, appunto) e alla fine le avrebbe mostrato tutto ciò che avevano fatto assieme.

Tra le ultime sessions per l’album, Dive for your memory è cara a Forster anche perché, presentatosi negli studi 301 della EMI di Sydney per incidere la traccia vocale, non trovando nulla di pronto si voltò verso il produttore Wallis, il quale gli disse: “Sul tetto.”

Fu così che l’ultima canzone dell’ultimo album di questi Go-Betweens venne conclusa con Robert Forster che cantava da sopra un tetto mentre il sole tramontava su Sydney.

Il 27 Dicembre 1989, a più di un anno dall’uscita del loro ultimo LP (data che ad oggi Lindy Morrison ancora ricorda con mestizia ed un certo livore), McLennan e Forster diedero notizia rispettivamente a Brown e Morrison (Willsteed era già stato licenziato) che il gruppo si sarebbe sciolto. (3/4 Continua…)

1 David Nichols, “The Go-Betweens”. Ed. Libera Publishing, pag. 172

2 Klaus Walter, “The Go-Betweens Songbook”. Schott Music, pag. 40.

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