The Go-Betweens.
Parte 1: Brisbane, Australia (1977-1980).
“[…] quella era la cosa più importante riguardo al suonare con Grant. Anche se all’epoca non sapeva suonare niente io sapevo che era una persona intelligente ed arrogante, e che era anche una persona creativa. Suonavo con lui allo scopo di stare assieme a lui ed allo scopo di avere qualcuno che suonasse il basso. Avevo bisogno di qualcuno in cui potessi credere e a cui piacessero le stesse cose che piacevano a me. E’ per questo che non ho preso un qualsiasi fesso che non facesse altro che presentarsi e suonare il basso. Sapevo che Grant era una persona dinamica e che prima o poi si sarebbe messo a scrivere canzoni. Sapevo che sarebbe successo.”
(Robert Forster)
La storia dei Go-Betweens è una storia che si è svolta per tre decadi, ha toccato la vita di molte persone, e ci sono probabilmente molti modi per raccontarla: è la storia di un’amicizia durata trent’anni, è la storia delle canzoni e dei musicisti che hanno contribuito a rendere grandi quelle canzoni, è una storia di amori fioriti e sfioriti, è una storia di nascita, rinascita, e morte. Ognuna di queste vie è percorribile e corretta, ma quello che ci preme di più fare qui, adesso, è scostare per un attimo le veneziane, e lasciare che le strisce di luce facciano spazio alla luce diretta del sole:
Brisbane, 1977.
Capitale della regione del Queensland, fine anni ’70. La città è retta da uno dei governi più reazionari della storia del paese (quello guidato per 18 anni da Joh Bjelke-Petersen), talmente repressivo da usare spesso e volentieri la mano pesante per quelli che all’occhio del partito di destra dovevano apparire episodi particolarmente pericolosi, e che, oggi, appaiono come scuse per dare mano libera a palesi violazioni dei diritti civili dei cittadini del Queensland: in pratica, i luoghi di ritrovo dei giovani dell’epoca (un esempio su tutti: i locali dei concerti) finivano spesso nel mirino della sbrigativa polizia locale. I raid delle forze dell’ordine erano tanto frequenti da scoraggiare più di un (volenteroso) giovane ascoltatore di musica, figurarsi i proprietari dei locali.
Risultato di queste politiche è una città che agli occhi di un giovane non deve sembrare molto diversa da come doveva essere sembrata Manchester per Ian Curtis o Cleveland per i Pere Ubu: un luogo squallido da cui fuggire.
Non è quindi un caso se fin dai primi passi i giovani Go-Betweens (Robert Forster, Grant McLennan e una lista di batteristi che si avvicendavano di settimana in settimana) avessero in mente un viaggio verso lidi più felici: certo, Londra nel ’77-78 era la Mecca, la culla del Punk (e la città conquistata dai concittadini Saints), ma nelle fantasie era l’altra cttà a fare più volte capolino: New York. New York per loro significava: Television, Patti Smith, Richard Hell & The Voidoids. Perché quando lo studente di cinema in erba Grant McLennan e lo studente con la testa tra le nuvole (e nelle sue nuvole c’era tanta musica…) Robert Forster non si esercitavano sulle nuove composizioni di quest’ultimo amavano fantasticare, e non poco: sarebbero andati nelle Grande Mela e Richard Hell si sarebbe unito alla loro band!, si dicevano. E se quello non si poteva ancora fare che almeno gli riuscisse il loro desiderio numero due: una batterista donna. Come i Velvet Underground. Avrebbero suonato le loro canzoni stupende (o almeno così sicuramente pensava il longilineo Forster), e tutti sarebbero rimasti in estasi osservando una donna dietro i tamburi. Wow, meglio di Tina Weymouth coi Talking Heads.
Nel frattempo fecero ciò che poterono con i loro (poveri) mezzi, che così bene si adattavano al “do it yourself” tanto in voga nell’1977, ovvero fondarono un’etichetta (di fatto un negozio di dischi di un conoscente), e incisero due 45 giri. Il primo (Lee Remick + Karen) contiene le due prime canzoni composte da Forster, ed è un piccolo sfoggio di naiveté e senso pop: in Lee Remick (tre-accordi-tre) si risentono persino gli amati Monkees (ma -come con una fotografia- virati dal sole australiano), nella seconda (due accordi + riff stavolta) è un Jonathan Richaman schietto ed ingenuo, come nei suoi momenti migliori, che si impossessa della voce del giovane Robert. Il secondo 45 (People Say + Don’t let him come back) contiene invece una People say che, come gli stessi Go-Betweens ameranno presentarla nei loro concerti anche di 20 anni dopo, è stata “scritta da Bob Dylan quando è passato da Brisbane nel 1966”, mentre la seconda traccia è un discreto tentativo di ritrovare (ancora) lo spirito degli amati anni ’60, con un ritornello da cantare a squarciagola con tanto di arpeggio semplice-semplice ed assolo di armonica.
Ma Brisbane sta stretta al gruppo fin dall’inizio, ed ecco che quindi alla prima opportunità i due prendono volo verso…Londra. E’ il 1980 e la visita dovrebbe essere una gita, ma fortuna vuole che Alan Horne della neonata Postcard Records (che stava dando alle stampe Orange Juice e Aztec Camera), sapendo dalla ragazza dietro al bancone di Rough Trade che Forster e McLennan erano a Londra (nel negozio aveva comprato import proprio Lee Remick), li contattasse. Quello che successe fu: i due giovani australiani in gita per la Londra in piena onda Post-Punk (Raincoats, Slits, Wire, Magazine…) girano per la città con due chitarre acustiche come due hippies centrifugati lì da una macchina del tempo, e vengono intercettati da una etichetta scozzese che promuove nuovi gruppi scozzesi dediti all’ascolto dei dischi motown, ma che vorrebbero tanto suonare più funky dei Talking Heads. Risultato: un nuovo 45 giri (con Steven Daly degli OJ ai tamburi), I need two heads + Stop before you say it, che marca un netto cambiamento di rotta e prepara gli animi per le loro prossime registrazione in formato LP. Entrambe le canzoni calano infatti la scrittura frastagliata e nervosa di Forster in un territorio non troppo lontano dalla New Wave che imperava nel Regno Unito: se la chitarra non era forse tagliente come nei Gang Of Four (o nei Banshees), di certo il basso prendeva più corpo (non fungendo più da solo sostegno alla chitarra), e si spostava nettamente in avanti nel mix, arrivando, se non a dettare, comunque a seminare melodie lungo la strada. Le due canzoni non risultano particolarmente memorabili, e quello che guadagnano in cura del suono (lontanissimi sono i suoni semiamatoriali delle registrazioni australiane) lo perdono in spigliatezza e personalità.
Ma quando i due tornano in Australia ci tornano con un carico di esperienze e (soprattutto) di contatti nuovi che si ripromettono di far fruttare al più presto. In più hanno trovato finalmente la persona giusta da mettere dietro alla batteria. Il suo nome è Lindy. [1/4 continua…]