Quando Jack White arruolò Alison Mosshart come frontwoman e voce dei suoi barbarici Dead Weather, l’idea apparve azzeccata e diede fin da subito i suoi frutti, pena lo scoppio temporaneo di una coppia artistica in perfetta simbiosi. Jamie Hince senza la sua VV poteva sembrare un po’ defraudato della sua metà creativa ribollente, mentre Alison sperimentava appieno la dimensione totalizzante della full-band e le potenzialità della sua voce, prendendosi una pausa da quell’overdose di drum machine che l’ultimo disco del 2008, Midnight Boom, dispiegava a più non posso. Con quell’album il duo isolava in alcuni brani la ruvidità congenita al loro sound fin dagli inizi, per indulgere in irresistibili vagheggiamenti punk-pop a metà tra il genio e il facilone, facendo storcere il naso ulteriormente a chi si appigliava alla loro immagine sapientemente glamour per etichettarli come strategici ribelli senza sostanza. Blood Pressures, registrato ai Key Club Studios di Benton Harbor, Michigan, come di consueto viene alla luce a metà tra il perfezionismo tutto inglese di Jamie e la spontaneità tutta americana di Alison, riportando il suono in più di un episodio alle vischiosità garage del sempreverde disco di debutto Keep On Your Mean Side, sulle quali viene innestata qualche sporadica novità ad arricchire il piatto. A un suono elementare, primordiale nella sua ruvidità, si accosta un’attenzione ossessiva per il treatment delle percussioni, in buona parte dell’album affilate a servizio delle distorsioni. La traccia di apertura, Future Starts Slow sembra un outtake dal documentario di accompagnamento di No Wow e con il suo testo liberatorio (“You can holler, you can wail / You can swing, you can flail,”) rapisce dal primo istante. La fascinazione di Jamie per altri generi quali il reggae e derivati (tra i nuovi ascolti cita persino Grace Jones) si riflette nel primo singolo Satellite, che si apre con una sferzata brutale, prodotto di un esperimento con sette amplificatori a diversa frequenza, piazzati in stanze diverse dello studio di registrazione, per poi diventare un cadenzato agita-folle con tanto di cori gospel a spezzare l’intimità di coppia. I cori ritornano anche nella minacciosa quanto poppettara DNA, a detta dei nostri contraltare della fugace ballata Wild Charms per il comune riferimento all’immagine di un fuoco carbonizzante, esemplificativa del loro rapporto di quasi violenta compenetrazione d’idee. Heart is A Beating Drum calca le prodezze di Midnight Boom: chi aveva girato per casa cantando a squarciagola Tape Song avrà di che gioire. Nail In My Coffin scaraventa le loro radici blues in un’atmosfera da quasi rave un po’ techno-rock, un po’ galoppante a tutti i costi. La sensazione che sia la personalità e l’interpretazione quasi da dominatrix di Alison a salvare il tutto è forte, un po’ come in Baby Says o Damned If She Do in cui, a tutti gli effetti, si sente agire un freno pop che nei primi due album veniva usato solo di striscio. Due veri gioielli la conclusiva Pots and Pans, che come ormai è tradizione sfuma l’album con un loop mesto, quasi desertico e l’imprevista ballad The Last Goodbye: un piano imbavagliato conduce a un waltz di credibile intensità, asservito alle spietate parole di Alison (“How can I rely on my heart/if I break it with my own two hands”). Incuriosisce senza dubbio l’ipotesi di un disco acustico o di una virata verso sperimentazioni ancora più sensibili. Dall’altra parte è con un po’ di nostalgia che si guarda all’acerbità dei primi due dischi e a quel blues ridotto all’osso da cui era possibile percepire perfino il loro adorato Beefheart. Tutto quello che viene in mezzo per ora convince e diverte sopra la media. Speriamo che col tempo non diventi una cattiva abitudine.