Trovarsi a scrivere la recensione del disco di un tipo che, fra le prime frasi pronunciate, infila un “ogni recensione o discorso sulla musica mi fa un male incredibile” è già di per sé paradossale. Se aggiungiamo poi che sugli Uochi Toki il sottoscritto ha già versato fiumi d’inchiostro in passato – cercando in ogni modo di sviscerarne la poetica espressiva – (ascolta anche la Conversazione con Rico e Napo) va da sé che le cose rimaste da dire al riguardo siano davvero poche. Anche perché, per chi è avvezzo agli exploit del gruppo, Il Limite Valicabile non riserverà grandi sorprese. Sì, è un disco doppio. Ma i nostri ci hanno abituato da sempre a un minutaggio che supera la sfera dell’umano. Sì, le basi musicali di Rico tendono vieppiù al destrutturato e all’astratto (ed essendo La Fine dell’Era della Comunicazione in buona parte strumentale, assurgono a tratti al ruolo di protagoniste assolute). Ma anche questa è una tendenza che, all’interno della produzione del duo, può essere tracciata almeno a partire da Cuore, Amore, Errore, Disintegrazione. E comunque qualche schiaffone ben assestato non manca nemmeno a ‘sto giro (ascoltatevi Un pezzo Rap, Krust and Curios, Urina Spray o Vai a FFT per essere spettinati a dovere). E sì, è a suo modo un concept. Ma del resto ci sembra che – eccettuata la parentesi di Idioti – Napo abbia orientato la sua scrittura in questo senso fin da Libro Audio, se non da La Chiave del 20. La recensione potrebbe anche chiudersi qui, ma permettetemi ancora un paio di precisazioni:
Constatare l’assenza di sostanziali novità non significa in alcun modo sminuire la proposta artistica degli Uochi Toki che, a parere di chi scrive, mantiene tutt’oggi una qualità altissima e se anche Il Limite Valicabile non evidenzia uno scarto violento nel percorso evolutivo del duo, l’album rimane una bestia rara nel contesto del panorama hip-hop e/o elettronico italiano. Non solo perché è di gran lunga superiore alla media delle produzioni contemporanee, ma anche e soprattutto perché dimostra di giocare secondo regole completamente differenti.
Gli esempi a riprova di quanto detto finora sarebbero molteplici e, se dovessimo analizzare ogni brano del disco con questa prospettiva, non ne usciremmo vivi. Lasciamo dunque da parte La Fine dell’Era della Comunicazione (sorta di mostruosa postilla che ha origine da quanto sentenziato da Napo al termine di Shake Your Assets) e concentriamoci sul più convenzionale (?) Un disco Rap. Disco che – come il titolo suggerisce – sembra prendere spunto da una serie di attività e situazioni connesse, in maniera più o meno diretta/più o meno stereotipata, con l’universo hip-hop. Stringiamo ulteriormente il campo e puntiamo i riflettori sul primo brano dell’album, Un Pezzo Rap. È sufficiente prestare attenzione al testo e alla musica di questa prima traccia per trarre tutte le conclusioni necessarie a inquadrare Il Limite Valicabile (e, con ogni probabilità, gli stessi Uochi Toki) nel contesto musicale attuale.
Per quel che concerne le parole. I detrattori degli Uochi Toki affermano che quello di Napo non è rap, perché il suddetto non sempre presta attenzione alle rime o alla metrica (almeno per come sono comunemente intese nel giro). Ma la verità, come detto poc’anzi, è che il nostro gioca semplicemente secondo regole diverse. I vari MC nostrani potrebbero, piuttosto, seguire il suo esempio e cercare di dare una scossa al genere (e comunque andate a raccontarla ai Last Poets o a Gil Scott-Heron questa storia delle rime; voglio vedere quale purista avrebbe il coraggio di affermare che quello non è rap). Perché, a giudicare da una rapida ricognizione, in Italia siamo ancora fermi a un’istantanea sbiadita dei ’90 americani. Il retroterra culturale, la velocità nell’esecuzione, l’abilità nell’improvvisare sono tutt’oggi i valori su cui si misura l’autenticità di un rapper (e sorvoliamo circa le mossette del cazzo davanti alla telecamera). Eppure, di fronte alla sostanziale incapacità che molti talenti nostrani dimostrano ogniqualvolta si tratta di utilizzare a dovere la propria lingua natia, tutti questi elementi non contano una beata ceppa. Perché, a dirla tutta, infarcendo le frasi di monosillabi anglo-derivati come cool, swag, flow, siamo tutti bravi a fare le rime. Ma c’è di peggio. Nell’ambiente alcuni arrivano persino a coniugare in italiano il frasario tipico dei rapper U.S.A., dando origine a mostruosità tipo “dissare”. Roba che al confronto quelli che usano il “piuttosto che” come “o” non avversativo sembrano adepti dell’Accademia della Crusca. A modesto parere di chi scrive, un rapper (individuo per cui si suppone che grammatica e semantica costituiscano il pane quotidiano) deve saper fare due cose: 1) usare la propria lingua in maniera corretta e (possibilmente) fantasiosa, e 2) dire qualcosa d’interessante. Quando Napo apre bocca, lascia fluire piccoli capolavori di narrativa, che mi tengono ogni volta incollato alla sedia. E, se proprio deve usare termini non rintracciabili sul vocabolario, se li inventa. Cosa che appare ben più virtuosa e sperimentale del ricorrere al tanto abusato inglese. Questo mi basta per considerarlo un rapper. Un rapper bravo.
Per quel che concerne le musiche. Al sottoscritto pare quantomeno curioso, ma evidentemente la cosa non disturba i rappresentanti dell’élite culturale: nel belpaese, ancora oggi, viene assegnata l’etichetta “sperimentale” a produzioni elettroniche che, se non quantizzano esattamente “campioni funk Roy Ayers sui 4/4 kick e clap”, poco ci manca. Ma, come osserva giustamente Napo, questi beat “sono crackers”, mentre in giro esistono sapori che vanno dalla “torta alla viennese, alla maionese, allo speck affumicato”; basterebbe prestare orecchio con attenzione per gustarsi “l’elettronica gourmet”. Rico, al contrario di molti, è un buon gustaio. Non a caso, l’ascolto elettronico definitivo menzionato all’interno del brano è Confield degli Autechre. Insomma, va bene che ormai uscirsene con qualcosa di totalmente originale è pressoché impossibile, ma se non altro questi sono riferimenti più avventurosi (e sicuramente meno abusati) rispetto a quelli di tanti altri (più blasonati) musicisti elettronici. E comunque Rico è uno dei pochi produttori sulla piazza che riesce a far suonare una cassa come una cassa, e non come una macchina da scrivere.
Conclusione: sarà pur vero che le nostre “teste e recchie sono atrofizzate e quindi facili da impressionare”; cionondimeno, mi sembra che gli Uochi Toki siano fra i pochi conterranei in grado di competere sul piano internazionale, per quel che riguarda coraggio e capacità di andare oltre. Quel che fanno, con tutte le dovute differenze, può essere assimilabile solo a quanto rappresentato ieri da Dalek e oggi da Death Grips e clipping. Che davvero non è poco.