giovedì, Novembre 21, 2024

Wire – s/t: la recensione

La formazione inglese, ormai autrice di un album ogni biennio, sforna un prodotto in linea con le sue ultime uscite, dignitoso ma manierato e senz’anima
Arrivare a sessant’anni e sentirli, almeno un po’. Tanti ne ha fatti Colin Newman da meno di un anno e che abbia diritto a un po’ di relax è fuori discussione: entro certi limiti, però. Questa è l’impressione che desta l’ascolto dell’ultimo, omonimo album della band inglese, ormai tornata, dopo la reunion del 2004, su ritmi “ordinari” di produzione. La new wave cavernosa di 35 anni fa si è definitivamente tramutata in un pop decisamente rilassato, scritto con eleganza da buona borghesia britannica, ma mai sconvolgente.

Il sound si è attestato da tempo su consolidatissimi standard. 4/4 e via andare, batteria regolarissima con charleston onnipresente con decisamente poca fantasia, tastiere di tappeto mai invadenti, una spruzzata di chorus sulle chitarre, pochi sussulti melodici: il tutto, dunque, immediatamente riconoscibile, ma anche, oramai, di avanzato manierismo. In Wire prevale un clima da leggero entertainment sin dall’andamento à la Depeche Mode di Blogging o Shifting (quasi un Sylvian con un goccio di acceleratore) fino a brani dal minutaggio più contenuto quali High e Joust & Jostle, più riempitivi che altro. Non a caso, i pezzi più riusciti sono quelli dalle atmosfere meno sospese e più solari, come Burning Bridges e Swallow, talmente nelle loro corde da costituire due citazioni quasi letterali di altrettanti brani di Red Barked Tree, ossia Please Take e Clay (ascoltare per credere, Newman e soci nemmeno si sono sforzati di cambiare la tonalità…). Ma se quell’album era decisamente più compatto, dalla scrittura molto più efficace e di classe, come eravamo abituati ad ascoltare da pezzi di storia quali sono gli Wire, quest’omonimo, senza prendersi alcun rischio, viaggia esclusivamente su velocità da crociera, il che sarà anche piacevole ma certamente molto meno avvincente.

Stupisce, comunque, che in tanto conformismo si siano voluti aggiungere due lunghi brani di insolita cupezza (Sleep Walking e Harpooned) che, però, non possiedono la forza distruttrice necessaria per spostare gli equilibri di un disco fin troppo moderato e conformista, dignitoso ma senz’anima, come ritrovarsi a degustare cosmopolitan dopo anni passati a birra e whiskey.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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