mercoledì, Dicembre 18, 2024

Zola Jesus @ indie-eye.it: la foto intervista, Roma – 8 Dicembre 2011

L’arte di essere cool, indie, underground e di liberarsi di tutte le etichette al contempo. Nika Roza Danilova arriva a Roma per il tour europeo in supporto all’ultimo disco Conatus, un album decisivo, con cui l’artista ventiduenne ha confermato le spasmodiche aspettative electro-pop degli amanti di Stridulum II, osannata raccolta di due EP che solo l’anno scorso creavano da una parte e dall’altra dell’Atlantico un vero e proprio fenomeno. Arriviamo dopo il soundcheck e Nika è occupata in un servizio fotografico: si aggira, piccola piccola e biondissima, nella semioscurità. Sguardi decisi, qualche sorriso, un piglio risoluto e professionale. Ci spostiamo in cerca di uno spazio per chiacchierare e ci preoccupiamo che non prenda freddo, avvolta nel suo cappotto. Macché, è abituata alle passeggiate invernali nel Wisconsin. Incontrare Zola Jesus d’inverno, a giudicare dalle sue dichiarazioni e dall’elettronica gelida e tagliente dei suoi dischi, è un po’ come osservare un animale nel suo habitat naturale: non resta che sperare si senta a suo agio. Sul palco l’animaletto diventa feroce, la batteria e i synth prendono corpo (e tutto lo spazio che possono) con veeemenza. La musica di Zola non lascia niente in trasparenza, si deve percepire, concrete. Dopo l’antipasto intermittente della deliziosa Bachelorette, Nika piomba sul palco con un serrato set tutto diviso tra gli ultimi due dischi. L’omogeneità di Conatus dal vivo diventa un’eccitazione continua, una straordinaria scoperta. Energia da vendere, voce da regalare a pacchi: fin dalle prime note di Avalanche il pubblico del Circolo degli artisti è conquistato, nonostante un estemporaneo “Li mortacci tua!” che ci aiuta a umanizzare la creatura. Chi si aspettava qualche sperimentalismo d’annata (quanti saremo stati poi?) rimane a bocca asciutta, ma non importa, non c’è un pezzo fuori posto e la performance non cala mai in energia, ma va solo di bene in meglio. Menzione speciale per Seekir, il suo primo vero inno dance, in parte eseguita in mezzo al pubblico, e per la conclusiva Vessel, la cui esplosione industrial viene interpretata con una scatenato eccesso a metà tra una convulsione e una poetica follia. Genesi di una diva? Chiedetelo a lei.

Ciao Nika, come te la passi in Italia?

Uh, benissimo. Il riscontro del pubblico è ottimo. Ho saputo che ieri a Bologna è andato sold out!

Conatus ha segnato un evidente cambiamento nella tua musica, portando le morbidezze del tuo penultimo album Stridulum ancora più lontano dai tuoi primi esperimenti noise. Quando hai capito che dovevi liberarti di tutto quel rumore?

Credo il fattore “crescita” abbia avuto un ruolo primario. Sono cresciuta, ho imparato a fare la mia musica in modo più consapevole, non solo in quanto songwriter, ma anche in settori più tecnici come la programmazione e la produzione. L’idea di diventare una “musicista a tutto tondo” mi ha ispirato a fare musica… di migliore qualità. L’obiettivo di Conatus era mantenere il taglio profondamente personale, unico della mia musica unendolo a una dimensione in qualche modo più universale. Sono cresciuta, ecco tutto!

Per perseguire questo affinamento dei suoni hai tenuto tu il timone della produzione?

Decisamente. Brian Foote ha curato il missaggio, che era quello di cui avevo bisogno quando gli ho chiesto di darmi una mano. E poi è stato un grande supporto morale, sì, avevo proprio bisogno di un supporto morale, perché tendo a buttarmi giù spesso…

Come mai?

Ah, mi deprimo sempre. Non saprei da che parte cominciare. Non sono mai soddisfatta, questo potrebbe bastare.

Potevo arrivarci dai tuoi testi.

[Ride]

Parliamone un po’. Anche in questa nuova veste pop rimangono immagini di reclusione, angoscia, privazione. Trovi più ispirazione dai momenti di crisi? Leggendo i tuoi testi ho l’impressione che il tuo nichilismo sia quasi un modo per uscire da quella crisi…

Non so se possiamo parlare di una vera e propria crisi. Nella mia musica c’è nichilismo, ma cerco sempre di sfruttarlo ai fini di un mio impulso, della mia esigenza di esprimere stati d’animo e capire meglio alcune cose. Sono una persona molto curiosa e mi pongo sempre un sacco di domande cui cerco di rispondere assecondando le mie idee. La mia musica è un modo di esprimere questa curiosità. Quindi, se mi permetti, a crisi sostituirei “un’opprimente curiosità”. [Ride]

… le consolazioni della filosofia…

Eh, sì. Mi sono interessata alla filosofia per lo stesso motivo, per la curiosità che mi contraddistingue. Musica e filosofia mi aiutano a capire meglio le cose, a esplorare le possibilità delle mie intuizioni. È tutta una questione di domande e risposte e di lottare con i dubbi che abbiamo fin dalla nascita.
E che continuano anche adesso che sei una diva. Ho letto un sacco di recensioni e questa parola usciva fuori spesso. Altro che buttarsi giù. Ti trovi a tuo agio con quest’immagine?
Innanzitutto non ho alcun problema a sentirmi chiamare una diva. [Fa una mossetta alla Christina Aguilera on stage e ridiamo] A parte gli scherzi, mi onora molto. Credo che, non importa se uomo o donna, si debba sempre essere o almeno tentare di essere forti e decisi, combattere la depressione. Non ragiono in termini femministi e credo che proiettare un’immagine forte sia anzitutto una responsabilità verso se stessi. Tendo ad ammirare persone che hanno la stessa qualità, sia che siano cantanti con una grande voce e passione o musicisti che usino il proprio strumento in modo virtuoso, o scrittori e pittori… forti. Devi essere forte e chiaro.
Il tuo messaggio è sempre stato forte, forse adesso è più chiaro. Sono rimasti i beats potenti, ma la coltre di rumore si è rarefatta. Non fraintendermi, ma ho notato una certa insofferenza da parte del tuo primo pubblico amante dell’industrial per questa svolta pop. Avevi di fatto in mente un’audience più allargata per questo disco o non hanno colto l’elemento di continuità?
Non credo di aver avuto in mente un target di pubblico, a dire il vero. So di aver perso molti fan per via del mio desiderio di… provare cose nuove e ripulire la mia musica. Adoro il noise, l’industrial e soprattutto la power electonics. È la musica che ascolto e sono i concerti che vado a vedere, è il mondo in cui mi immergo, sento di appartenervi e al contempo lo considero mio hobby e piacere personale. Quando si tratta della mia musica la cosa che viene prima di tutte è il tentativo di fare del mio meglio, il meglio che io possa fare. Al momento ciò non significa che non debba esserci più la componente noise del tutto. Non mi riferisco al noise generico, ma a elementi forse meno drastici, come ci sono nella power electronics o nella musica dei… Genocide Organ, per esempio. Deve essere aggressiva e potente, ma al contempo non devono esserci necessariamente distorsioni ovvie, continue tipo CHHHHHHHHHHHHHH [sguardo luciferino]. A volte cerco di fare qualcosa di meno potente e più rilassato, ma poi torno in territori che più mi appartengono e finisco per creare cose che rispondono alla mia natura. Non è saggio andare contro la mia natura. Quello che faccio deve essere potente e spaventoso. Forse è perché ho il complesso di Napoleone, visto che sono piccolina, quindi voglio creare qualcosa che sia più grande di quanto un essere umano possa concepire. [Ride] Credo non ci sia niente di male a creare una bella canzone pop con dentro un sacco di electro-beats. Nutre il mio cervello alla stessa maniera che ascoltare i Throbbing Gristle, Prurient, Hive Mind ecc.

Riascoltando la tua discografia mi è venuto spontaneo isolare due brani, Lightsick e Skin. Si distinguono dal resto per una più netta componente intimistica. Ti ritrovi spesso a suonare il piano?

Ehm, non so suonare il piano a dire il vero, faccio del mio meglio. In Lightsick e Skin ho avuto fortuna con il modo in cui le dita andavano per la loro strada sul pianoforte. Quindi diciamo che non ho una grande dimestichezza col piano, ma sto cercando di migliorarmi. Comunque sì, mi capita di scrivere un pezzo al piano e poi aggiungere i beats e tutto il resto. Sono combattuta al riguardo: a volte mi piace scrivere al piano perché è così intimo e profondo, ma poi penso… “Tutti scrivono pezzi piano-voce, voglio fare qualcosa di diverso”. Il suono del piano è così familiare e… radicato… nell’idea di che cosa sia la musica per noi che non mi spinge a sfruttarlo così tanto.
E invece per quanto riguarda la voce, stai ancora cercando di decostruire il tuo training nell’opera?
Uh, sono costantemente in guerra con la mia voce. Non sarà mai come vorrei che fosse. Quando è decostruita a volte mi sembra troppo decostruita, se suona operistica mi sembra troppo operistica. Non mi sento mai arrivata ad un punto in cui sono realmente soddisfatta di quello che esce dalla mia bocca. Per me la voce è la forma d’espressione più pura, essenziale, perché è da dove sono partita prima di ogni altra cosa. Sento che è una forza innata in me, ma al contempo è la mia più grande fonte di angoscia e credo sarà così ancora a lungo.
Tra le tue influenze ci sono nomi italiani, Maurizio Bianchi, il regista Giulio Paradisi, Marco Corbelli, tutti a loro modo outsiders…
Sì, sono attratta da queste figure. Non so se possiamo parlare di vere e proprie influenze… in quanto musicista ricevere stimoli da musica, film, autori è più parte di cosa sono e faccio, più che un’influenza esterna. È un tutt’uno. Adoro anche Pasolini e Sergio Martino. Che poi l’artista in questione abbia avuto risonanza oppure no a me non importa.
Whatevs.
[Ride] Appunto! Britney Spears ha molto da offrirmi tanto quanto i vostri Mauthausen Orchestra, un gruppo di power electronics straordinario.

Come è andata la registrazione dello split con Gary War qui in Italia? Non ho più trovato notizie a riguardo.
È stato fatto! Non sappiamo ancora quando verrà pubblicato, perché stiamo cercando di capire quale sarà il momento migliore, visto che è da poco uscito il mio disco. È stata un’esperienza molto divertente, eravamo in questo vecchissimo castello ad Itri. All’inizio la situazione era un po’ critica, perché sia io che Greg [Dalton] non facciamo quasi mai musica con altra gente, siamo abituati a operare da soli. Quando ci siamo ritrovati insieme all’inizio eravamo impacciati all’idea di creare un pezzo a due. Non sappiamo fare musica con altra gente, penso sia una cosa affascinante [Ride]. Verso la fine abbiamo trovato un modo adatto di lavorare insieme come una macchina e credo sia venuta fuori una buona cosa.
Un’ultima domanda. Sappiamo che il tuo pseudonimo Zola Jesus è nato con l’obiettivo di alienarti i coetanei fin dai tempi delle superiori. Senti ancora questo senso di estraneità dai tuoi peers?
Bella questa. Penso che dentro di me… nel profondo… non lo so. Mi sento nervosa in mezzo alla gente. Mi imbarazzo, mi innervosisco, è la mia natura. Poi certo, cerco di capire, mi incuriosisco e cerco di connettere con le altre persone, ma per me è sempre difficile, mi devo sforzare molto perché ciò accada. Vorrei solo essere come tutti gli altri.
Macché, sei una diva ormai.
Divaaaaaaaaaaaa! Penso che farò questa mossetta stasera.

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Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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