Nel 1986 per la promozione dell’album Electric Cafe, i Kraftwerk si affidano a Rebecca Allen, tra le prime ad indagare l’interazione tra movimento umano e le possibili simulazioni dello stesso in termini di modellazione grafica. Prima ancora che si parlasse in modo estensivo di realtà aumentata e di Intelligenze Artificiali, a partire dalla metà degli anni settanta, Allen ha sperimentato con la grafica computerizzata, applicando la sua ricerca in ambiti che spaziano dalle installazioni alle simulazioni live, fino a progetti di realtà aumentata su larga scala. Spesso interessata a superare limiti imposti dai confini di genere, trova nella collaborazione con la band tedesca l’occasione per sperimentare quello che allora poteva essere considerato come lo stato dell’arte dell’animazione facciale via software. Lo scopo è portare in vita i manichini che già facevano parte dell’iconografia Kraftwerk, cercando di elaborare una controparte visuale del loro lavoro con i suoni computerizzati. Il video estende e sviluppa con modalità più avanzate un concetto visuale che aveva già immerso i Kraftwerk in un simulacro di luci e rifrazioni virtuali; ci riferiamo al video meno conosciuto realizzato per il brano Neon Licht, dove le teste della band galleggiano in uno spazio luminoso fatto di insegne al neon.
Ispirato alla grafica suprematista di El Lissitzky come l’artwork dell’album “Man Machine“, The Robots recupera quei colori, gli stessi outfit, e prospettive geometriche simili. Girato negli studi Kling Klang di proprietà dei Kraftwerk, ancora una volta mette al centro la messa in abisso della propria immagine, fino ad operare una sostituzione definitiva, già introdotta dallo svuotamento e dalla robotizzazione di Showroom Dummies. La performance video per ZDF, recupererà proprio il setting di quel video, fondendolo con le idee desunte dal costruttivismo.
I manichini modellati sulla band stessa saranno utilizzati anche nel successivo Computer World, e qui vengono sovrapposti a lip-sync “reali”, contatori digitali, in uno scambio continuo tra originale e copia. La meccanizzazione del gesto, diventa immagine della prassi lavorativa, un’invasione di ultracorpi robotizzati che sostituiscono l’azione umana, occupando i mezzi di produzione musicale come se fossero gli strumenti di una fabbrica.
Il testo di Showroom Dummies, secondo estratto da Trans Europa Express, sembra precorrere in modo sorprendente l’esplosione della videomusica industriale, con una feroce parodia delle sue caratteristiche più demenziali. La sequenza di pose e attitudini che alimentano la macchina promozionale, vengono irrise dal rovesciamento grottesco dei video performativi, in un doppio giocoso e inquietante che sostituisce i Kraftwerk con un gruppo di manichini e viceversa. Straordinariamente fotografato, tanto da generare una moltiplicazione di idee per artwork futuri nella discografia dei nostri, assolve un doppio ruolo, come capita sovente nella videografia della band tedesca. Attivare un dispositivo di promozione, che in linea con i video prodotti alla vigilia dei codici espressivi imposti da MTV, sintetizzasse l’impollinazione incrociata tra audiovisivo e artwork, creando un continuum visuale nella creazione dell’immagine complessiva che gravitava intorno alla vendita di un prodotto discografico. Ma anche disinnescare quel sistema di codici, introducendo un punto di vista critico, in grado di mettere a nudo la meccanizzazione alienante del processo promozionale stesso. I Dummies del video, molto simili agli scemi che si muovono in una nota canzone di Battiato, replicano l’allineamento industriale del movimento, della danza, del suono e dell’immagine, dove gli artisti sono parte di una macchina che li riproduce in serie e il balletto, in linea con altre suggestioni legate all’amore dei nostri per le avanguardie storiche, diventa mécanique.
Il video, avrà un’influenza definitiva per l’immaginario videografico degli anni ottanta e anticipa il bellissimo Rock It di Herbie Hancock, diretto da Godley & Creme, straordinari alchimisti di immagini seriali.
Trans-Europe Express è il primo video dei Kraftwerk ad assumere la statura di un classico. Siamo nel 1977 e il riferimento iconografico al cinema noir diventerà costante nella ri-codificazione di quell’immaginario per moltissimi videoclip degli anni ottanta. Paranoia, guerra fredda, città nude e ostili, contamineranno di nuovo l’immagine di consumo, fino alla fine del decennio successivo.
Il tentativo dei Kraftwerk, nel video impegnati in un viaggio a bordo treno, è quello di combinare l’estetica futuristica degli anni 30 con un’idea di tecnologia radicata nel tempo. Tra i treni che passano in rassegna spicca infatti lo Schienenzeppelin, un rotabile sperimentale che sfruttava la propulsione areonautica ad elica e le cui immagini, combinate con altre più contemporanee, ricorreranno nei live della band. Come accade spesso nei loro mondi sonori, anche quelli visuali risentono dell’avvitamento tra tecnologia e tempo, alla ricerca di una dimensione intermedia che solleciti da una parte la trasmutazione della coscienza in macchina, ma allo stesso tempo ne mostri una parodia inquietante con una metodologia combinatoria, quella che consente di assumere la distanza necessaria per creare un punto di vista interstiziale tra presente, passato e futuro. Lo Schienenzeppelin del video è un esempio magniloquente di un’alta velocità ante-litteram che si schianta su se stessa e diventa macchina celibe.
Il continente post-bellico immaginato senza alcun confine grazie alle connessioni della rete ferroviaria che attraversa l’Europa degli anni cinquanta è al centro della loro riflessione. I nostri ne fanno la parodia mimando uno stile cosmopolita, come se fossero nel pieno di un viaggio d’affari.
Stazione dopo stazione, incontrano Bowie e Iggy Pop, immortalati da uno scatto di un paio di secondi allo scalo di Düsseldorf, mentre il duca bianco si trova in Germania durante il corso del suo tour Europeo. Il viaggio, che è trasversale in termini musicali perché trapassa l’Europa, arriva a sedurre sul dancefloor i giovani clubber di Detroit, mentre nel vecchio continente unificherà suoni e influenze, precorrendo Depeche Mode, New Order, ma anche alcune propaggini industrial tedesche, basta pensare all’influenza sugli Einstürzende Neubauten di una traccia come “Metal on Metal””, contenuta nello stesso album.
Il video, rispetto alla capacità transnazionale dei Kraftwerk di influenzare molte generazioni creative a venire, trattiene maggiormente una posizione ondivaga tra i sogni revisionisti di un propellente tecnologico capace di unificare il continente, e il suo opposto inquietante.
Il recupero dell’automotrice progettata da Franz Kruckenberg nel 1929 e smantellata dieci anni dopo, contiene questa doppia valenza. Da una parte il sogno dell’alta velocità alla vigilia dell’ascesa del potere Nazista, illusione che ancora trattiene i semi dell’avanguardia, con quell’avveniristico arredamento Bauhaus che decora e struttura gli interni del veicolo, destinati ad accogliere 40 passeggeri. Dall’altra, la fine del treno, destinato a diventare strumento bellico, dopo la svendita a pezzi destinata all’esercito tedesco ormai impegnato nel secondo conflitto mondiale.
I Kraftwerk, replicano quell’ambivalenza segnica tra comunicazione e morte che anima Radioactivity, cavalcando il vettore del futuro, che porta con se i detriti e i mostri di un passato senza speranza.
Filmato con una session in lip-sync identica a quella di Radioactivity, il video di Antenna esce nel 1976 e vede i Kraftwerk in un setting più basico e con alcuni inserti visuali che hanno la qualità, visuale e discorsiva, del found footage: un radiotelescopio di proporzioni giganti, il dettaglio di un segnale individuato dallo schermo di un oscilloscopio, la grafica dell’album che viene incorporata nel ritratto di gruppo degli stessi Kraftwerk, inserito con modalità simili a quelle che possiamo vedere nel video di Radioactivity, ed infine l’etere che accoglie la diffusione delle onde radio, in un gioco visuale sulla trasmissione di informazioni che fa da elemento complementare alle sollecitazioni nucleari del video precedente.
Ancora una volta la semplicità della messa in scena si allinea ai promo video della fine degli anni settanta, precorrendo l’esplosione catodica dei video musicali.
Si definisce già una dimensione visuale fatta di oggetti, interfacce, tecnologie, nel passaggio da analogico e digitale, che proiettano i Kraftwerk verso scenari futuribili.
Il trattino differisce tra “Radio-activity” e “Radioactivity/Radioaktivität“. Rispettivamente, album e singolo innescano una creazione del senso aperta, che può alludere alle onde radio, ma anche a tutto quello che si lega, nel bene e nel male, all’impiego dell’energia nucleare. Su questa ambiguità semantica i Kraftwerk realizzano il primo album radicalmente elettronico della loro carriera, sperimentando sul Vako Orchestron per simulare addizioni corali e combinando i suoni di radiofrequenze con quelli di un contatore Geiger. Senza cedere a interpretazioni etiche e morali, confondono i piani di lettura e contribuiscono ad accendere gli animi di chi cerca una posizione politica a tutti i costi, con un servizio fotografico realizzato nei pressi di una centrale e diffuso durante il periodo di promozione dell’album. Al di là delle revisioni storiche e degli aggiustamenti, tra cui l’inserimento di immagini che si riferiscono agli incidenti di Three Mile Island e al disastro di Chernobyl, a partire dai live del 1991, il videoclip ufficiale, quello promosso nel 1976 unitamente al solo singolo estratto, precede il lettering della band con il simbolo rossogiallo dell’allerta da radiazioni nucleari, limitando quell’indicazione nell’area di una sollecitazione creativa.
Sono le mani di un Kraftwerker a tagliare l’emissione di uno spot luminoso, mentre la segnaletica visuale delle mani procede in sincrono con la scansione aurale del contatore Geiger. Il dispositivo successivo che stampa visualmente la sequenza morse inclusa nel brano si alterna ai dettagli della band girati nella penombra dello studio, con i dettagli tipici dei promo-video performativi di quegli anni, ma con un’idea visuale alla base che scompone su più piani simboli, elementi, oggetti, tesi alla creazione di una sinestesia tra figurazione visuale e impulso sonoro.
Si tratta di un campionario che diventerà specifico nel codice visivo dei Kraftwerk e che arricchirà nel tempo l’aspetto visual dei loro concerti.
On my paper è il secondo singolo dei Double Syd, composto pensando al Britpop anni novanta, ma con un piede ben piantato in quei territori psichedelici che caratterizzano il suono del duo ravennate. Adelmo Ravaglia (voce, chitarra ed organi) e da Enrico Liverani (voce, chitarre, basso e batteria) tornano dopo My Sun del 2022 e anticipano il loro atteso full lenght “My Lonely Sun“, costituito da undici tracce cantate in lingua inglese e previsto per il prossimo 14 aprile su etichetta Urtovox Records.
Il video che accompagna la seconda uscita del duo, cerca di creare una dimensione aumentata per fare il paio con il brano. Tutto è immerso in uno spazio mnestico, legato al ricordo sentimentale, dove il ritorno all’infanzia sembra suggerire un racconto di formazione che procede al contrario, confondendo nel caleidoscopio del tempo, sogno e realtà, gioco e memoria.
Ideato e montato dagli stessi Liverani e Ravaglia, il video è uno stock footage che sfrutta le library Creative Commons diffuse in rete.
In questi casi, la creatività è legata al modo in cui motivi, textures, frammenti visuali, vengono ricontestualizzati in fase di montaggio, per cercare connessioni inedite e sempre nuove tra quello che può apparire tra le immagini e nelle immagini stesse.
Barrettiani come lo erano i Darkside di Pete Bassman, quindi con il filtro minimal e allo stesso tempo pop di quell’esperienza, i Double Syd con il video di di On My Paper esplorano il lato nascosto della memoria, immergendoci in uno spaziotempo parallelo, dove la terra vista dalla luna è sempre uno strano frattale: follow my mind in the film of this morning
Il video viene presentato in anteprima esclusiva su Indie-eye Videoclip, la prima testata giornalistica italiana con un portale interamente dedicato ai Videoclip, dalla parte di chi li produce e li realizza.
Antonio Stea dirige il videoclip di Moby Dick per Narova, cantautore pugliese al suo primo EP intitolato “La fine del gran casino“, lavoro introspettivo che mette al centro l’esperienza berlinese che ha caratterizzato la sua vita per diversi anni. Stea ha girato tra la città “povera, ma sexy” e Rostock, declinando la sua personale poetica di ombre, sagome, interferenze ed ectoplasmi in quel contesto urbano, cercando sempre il limite tra città e natura. Una silhouette con i flutti del mare incorporati, attraversa strade, viaggia sull’U-Bahn, dialoga con il folk cantautorale di Novara che sull’incedere di una ballad dolente, popolaresca e vicina tanto alla tradizione italiana, quanto ad una trasfigurazione apolide tra Will Oldham e un sapore tutto europeo, racconta di tempeste interiori e una città ricca di umanità, ma distante.
Indie-eye presenta in anteprima esclusiva il videoclip di Moby Dick, prodotto da Stand Alone Complex
Per il nuovo singolo estratto dal suo esordio sulla lunga distanza, Ricccardo Morandini si è affidato a UOLLI per la parte visuale. Al secolo Tomas Marcuzzi, il regista udinese che ha già lavorato con artisti del calibro di Brunori, Lo Stato Sociale, Dente, Franco Battiato, Bowland, solo per citarne alcuni, ha cercato di individuare il contrasto tra azione e trascendenza che “Sole dei sensi” in qualche modo suggerisce, attraverso l’alternanza di un setting metadiscorsivo, dove si vede una troupe al lavoro su un centro indefinito, mentre il soggetto è impegnato a liberarsi di tutte le scorie prodotte dall’ego.
“L’idea alla base del video – ci ha detto Uolli – è emersa ascoltando attentamente il testo della canzone di Morandini. E’ stato il perpetuarsi della frase “sparire nel fare” ad aver innescato l’intuizione di realizzare una sorta di meta-video, in cui il centro e il focus dello sguardo della camera (apparentemente) non è mai concentrato sul protagonista, che anzi, addirittura non è presente nei vari set volutamente svelati dalla regia. Lui è sempre altrove, intento a compiere azioni slegate dal contesto del video, azioni quotidiane e di “cura”. Vediamo infatti la troupe intenta ad inquadrare, truccare e illuminare un soggetto evanescente, così come gli onnipresente droni continuano a ruotare attorno alla troupe e al soggetto che però non c’è. Lo svelamento dell’altrove di Morandini è concesso solo allo spettatore, grazie ad una regia che improvvisamente sposta lo sguardo dalla crew per compiere dei viaggi, a volte brevissimi e a volte più lunghi per scovarlo. In un mondo oramai abituato alla ricerca ossessiva di un obiettivo da guardare, di un contenuto da condividere e dalla preoccupante esigenza di fare per dimostrare, questo video vuole raccontare l’alienazione dei giorni nostri, in cui concedersi un atto privato, senza aspettative e senza essere rivolto a nessuno se noi a noi stessi, è così raro che “è un po’ come morire”.
“Sole dei sensi”, è uno dei singoli tratti da “Il leone verde“, primo album di Riccardo Morandini pubblicato nel 2022 e registrato presso lo studio analogico L’Amor Mio Non Muore, coprodotto con Franco Naddei.
Scritto dal frontman della band Mario ‘Dust’ La Porta, Isolation è direttamente ispirato al lockdown del 2020. Per la band campana, era necessario soffermarsi sul senso che la gestione del tempo ha assunto dopo una condizione coatta. E da qui verificare quali fossero gli aspetti positivi per una nuova resilienza.
Il brano, prodotto da Giuseppe Fontanella (già con 24 Grana) e anticipo del nuovo lavoro in studio per gli Psychopathic Romantics è anche un videoclip diretto da Stefano Poletti, acclamato e premiato regista che ha già lavorato per artisti come Tre Allegri Ragazzi Morti, Baustelle, Zen Circus, Nek, Motta e moltissimi altri e che proprio qui su Indie-eye ha presentato in anteprima esclusiva alcuni episodi del suo format Videomaker around the world.
“Quando ho ascoltato la canzone, dai tratti così intimisti – ci ha detto Stefano – ho pensato di girare il video negli scenari legati al background della band, individuando location suggestive vicino a Caserta vecchia. Il pezzo è una ballad, che evoca sensazioni eteree e sacralizza la concezione di stare da soli; ecco quindi che i personaggi del video partono in solitaria, sperando in una catarsi agoratica che però non avviene, restituendo un senso di compiutezza solamente ritrovando il proprio ego a contatto con la natura. Il linguaggio del videoclip/cortometraggio si sposava bene a questo tipo di storytelling e all’incalzare della canzone“
Oltre alla band, il video è interpretato da Giorgia Maria d’Isa e Sabrina Nastri.