Tra il 1980 e l’anno successivo, i Fratelli La Bionda promuovono I Wanna Be Your lover nei presidi televisivi italiani disponibili, tra contenitori generalisti e segmenti dedicati. Insieme alla loro presenza fisica in studio, dove è concesso, presentano un vero e proprio videoclip animato da Guido Manuli, straordinario illustratore, disegnatore, animatore e regista cresciuto nella factory di Bruno Bozzetto e successivamente autore di numerosi cortometraggi, sigle televisive e videoclip, quando realizzare forme brevi dedicate alla promozione della musica non era ancora una dimensione produttiva frequente.
Alcune sigle di Manuli possono essere considerate come veri e propri videoclip, nell’accezione di sintesi e convergenza di numerosi elementi creativi, che si farà strada dagli anni ottanta in poi. Citiamo in particolare Primo Amore, combinazione tra performance live, animazione e riprese in truka, realizzata sul singolo di Elisabetta Virgili per introdurre “Chi?“, il programma condotto da Pippo Baudo e abbinato alla lotteria Italia del 1976.
I Wanna be You lover passa per l’edizione 1981 di Discoring condotta da Jocelyn, viene incluso nelle selezioni di Mister Fantasy, il programma creato da Paolo Giaccio e condotto da Carlo Massarini inaugurato nel maggio del 1981, ed infine per altre vie della programmazione difficili da documentare in questa sede, se consideriamo la lunga permanenza del singolo nelle classifiche italiane.
Il video è una fiaba crudele di ambientazione fantascientifica, nello stile postmoderno di Manuli, capace di incorporare sconfinamenti narrativi, stilistici e tecnici. Prodotto come se fosse uno dei suoi corti, elabora tutte le corrispondenze necessarie, tra liriche e groove, per definire uno spazio visuale in sinergia con l’electro-pop dei La Bionda. La chimera astrale di forma femminile che seduce i due viaggiatori interstellari rilegge La Regina delle Nevi con quelle modalità che caratterizzano altre incursioni di Manuli nel mondo delle fiabe popolari, tra tutti il bellissimo e violentissimo Solo un Bacio, dove lo sguardo sessualizzato dell’autore viene punito con ludica ferocia.
Del resto, le liriche del brano sono tutt’altro rispetto all’edonismo danzereccio che circondava quella stagione musicale, e Manuli traduce quasi alla lettera il terrore di un viaggio verso l’ignoto dove forme non identificate di vita aliena, disturbano la quiete del silenzio siderale. Il mantra perentorio, Wanna be your lover / Not just be your friend, affidato nel brano ad una voce femminile processata, viene quindi attribuito da Manuli a questa fata morgana che si materializza tra le stelle, mentre i due La Bionda combattono contro mecha robot che alludono in modo esplicito all’invasione formale e sostanziale della Toei e dei prodotti televisivi basati sui manga di Gō Nagai. L’animatore e regista cervese rielabora quelle forme con il suo stile, contaminando mostri dell’immaginario fiabesco, scuola dell’illustrazione italiana e le geometrie di un disegno più tecnico. Un prodromo del lavoro che svolgerà per il Rondò Veneziano dal 1981 in poi, dove fantascienza e storia, convergeranno verso la creazione immaginale di Venezia, nonluogo possibile.
Radio Free Europe esce come singolo nel 1981 grazie alla Hib-Tone di Jonny Hibbert, studente di legge. La piccola etichetta di Atlanta, in Georgia, chiude presto i battenti, ma il brano ha un successo sufficiente per garantire ai R.E.M. un contratto con la I.R.S. Records. Sarà registrato nuovamente nel 1983 come singolo per veicolare Murmur, il primo album della band di Athens. Rispetto al grammelot della versione originale, la I.R.S. cercherà di spingere Michael Stipe a scrivere un nuovo testo. Per quanto ci siano delle differenze sensibili, il brano punta ancora alla vocalizzazione e ad una difficile decifrabilità. Radio Free Europe del resto, non nasce a scopi celebrativi, perché più del riferimento all’emittente finanziata dagli Stati Uniti per contrastare i regimi del blocco comunista, a Stipe interessa definire il linguaggio della propaganda tout court e le insidie della disinformazione, scegliendo la confusione linguistica come veicolo di protesta.
Radio Free Europe, il video trasmesso da MTV, diverso dalla versione pensata originariamente da Michael Stipe insieme ad Arthur Pierson
Le scelte legate alla realizzazione del videoclip non sono così distanti dalle intenzioni del brano. Da una parte le pressioni di MTV affinché venga realizzato, dall’altra una via radicale che sarà successivamente mitigata dall’inserimento di alcune immagini live della band, totalmente assenti dalla prima versione voluta dai R.E.M. in accordo con Arthur Pierson.
Più di Pierson, regista che in seguito si dedicherà a forme più tradizionali con Lucky Star per Madonna, è il reverendo Howard Finster il centro ideale ed effettivo del video. Pastore evangelico votato all’arte dopo una visione mistica che lo spinge a mettere al servizio di Dio il proprio talento creativo, costruisce intorno ad un giardino di un ettaro, un vero e proprio eden sviluppato con in mente il connubio tra arte e natura. Da una parte il terreno acquistato nel 1961, dopo un lungo periodo di evangelizzazione a partire dagli anni quaranta, sulle tracce di un qualsiasi personaggio ideato da Flannery O’Connor, dall’altra l’officina per la riparazione di biciclette, che in termini alimentari gli fornisce per anni il principale reddito, quando abdicherà l’esortazione predicatoria a bordo di auto di fortuna, per una vita più stanziale in un terreno della Georgia rurale da recuperare con interventi di bonifica.
Intorno al Paradise Garden di Summerville, si sdipana un percorso visuale fatto di oggetti ritrovati, materiali deperibili, supporti riciclati, sculture combinatorie. Una definizione dell’effimero rispetto alla narrazione biblica, costruita intorno a questo spazio fecondo, invaso da numerose falde acquifere che Finster convoglierà al meglio durante gli anni, fino a sviluppare una fauna rigogliosa e inusuale. Testo e forme visuali realizzate in tecnica mista, offrono quindi ai visitatori una vera e propria esperienza dell’anima, oltre ad un laboratorio all’aperto dalle possibilità combinatorie. Il giardino diventa quindi un enclave artistica e un contesto frequentato da altri creativi, dove i confini museali vengono sostituti da uno scambio vitale tra natura e manufatto. Il secondo rivela irrimediabilmente la sua natura deperibile rispetto ad una concettualizzazione che si sbarazza dell’ego ed eleva lo spirito. Ciò che si poteva trovare nel giardino di Finster era la tradizione evangelica orale sudista, trasformata in un mondo di immagini dipinte e scolpite.
Chi ha visitato Paradise Garden negli anni novanta, racconta un’esperienza irripetibile. Assaltato dalle persone e da chi come Finster amava collezionare e riciclare scarti, convergeva verso l’energia e il carisma del reverendo, in virtù della sua stessa generosità. Un rituale di passaggio capace di trasformare le persone provenienti da diversi ceti sociali. Questo valore essenziale indirizzato verso i visitatori, torna indietro a Finster con la forza di una vera e propria comunità che gli sarà riconoscente anche dopo la morte.
Radio Free Europe, la versione originale del video come da concept di Michael Stipe
Il video di Radio Free Europe, più volte bollato da una critica musicale con il respiro cortissimo come una bizzarria difficilmente interpretabile , è in realtà un vero e proprio pellegrinaggio verso il paradiso creato da Finster, oltre che un gesto fondativo che lega l’attitudine DIY dei R.E.M. alla cultura degli Stati Uniti del sud, ma al di fuori dei soliti stereotipi. Michael Stipe, sin dagli studi d’arte presso l’Università della Georgia, è assiduo visitatore del Paradise Garden. Questo perché lo spirito di Finster rappresenta un crocevia tra radicamento al territorio e la capacità di generare da quelle stesse radici un pensiero artistico originale, lontano dalle lusinghe commerciali e dall’accademia, e quindi fuori dai percorsi di fruizione dell’arte, sospesi tra mainstream e cultura istituzionale.
I videoclip, troppo spesso associati al linguaggio cinematografico, sono al contrario veri e propri territori di convergenza dove l’aspetto artistico-performativo assume un valore endogeno ed esogeno alla scrittura stessa. Nel caso di Radio Free Europe, il viaggio dei R.E.M. verso i luoghi dove Finster ha sviluppato la sua idea d’arte, è un vero e proprio atto di resistenza che si oppone alle logiche di MTV con i mezzi di una performance artistica. Non sono da considerarsi secondari gli inserti aggiuntivi di cui abbiamo già parlato, come tentativo di spezzare negativamente questa resilienza geografica, culturale e creativa.
Le sculture meccaniche e cultuali che infestano il Paradise Garden introducono il video, tra queste un assemblaggio di biciclette smontate e altri dispositivi realizzati con le stesse parti meccaniche. Le sostituiscono improvvisamente le luci di un’ambientazione oppressiva descritta con la sintesi televisiva di quell’espressionismo illuminotecnico desunto dal cinema noir degli anni 40, che attraverserà molte produzioni video degli anni ottanta. Quello che sembra l’ufficio di un burocrate, vede Jefferson Holt, manager dei R.E.M., consegnare un misterioso pacchetto a Bill Berry. Berry entrerà nel giardino di Finster passando a lato del Serpent’s Mound, il piccolo promontorio artificiale costituito da un intrico di serpenti e parte del percorso biblico e scultoreo creato dall’artista americano. Prima e durante il percorso viene alternata una soggettiva ipercinetica con i valori di crominanza completamente sballati e in linea con l’effettistica video di quegli anni, voluta per il secondo montaggio forzato dalle richieste perentorie di MTV; la corsa frenetica è in mezzo alla vegetazione locale e richiama il kudzu che occupa anche la copertina di Murmur. Da una parte si cerca la consueta unità comunicativa tra artwork e video, soprattutto in un contesto dove l’eccentricità domina rispetto ai video coevi, quasi sempre costituiti da un’alta percentuale di sequenze in lip sync, qui totalmente assenti. Dall’altra si sottolinea le caratteristiche di un’erba infestante nociva e invadente che caratterizza le terre del sud e che serve ulteriormente per definire alcuni aspetti di appartenenza identitaria.
Questo aspetto e il duplice significato assunto dalla presenza del kudzu è chiarissimo se si guarda con attenzione la versione originale del video. Le immagini in mezzo alla vegetazione infestante non sono pesantemente modificate come nel video per MTV e si fondono in modo preciso con il viaggio tra le piante del Paradise Garden e soprattutto, vengono allineate alla grande scultura caratterizzata da scarti meccanici, confermando la duplice accezione assegnata al kudzu, pianta selvatica, ma anche segno di un radicamento culturale che viene paragonato all’arte povera di Finster, labirinto in cui perdersi come in un ambiente vegetale autoctono. La versione originale del video senza le inutili e dannose aggiunte volute da MTV, occorre ricordarlo, sarà inserita nella VHS pubblicata nel 1987 e intitolata “Succumbs”
Il pacchetto misterioso passa di mano in mano, fino a raccogliere tutti i componenti della band lungo il cammino verso la Bible House dove lavora lo stesso Finster, sul quale si conclude la performance dei R.E.M. Quando il pacchetto verrà aperto, una piccola bambola fatta con materiale di riciclo capitolerà su un’asse inclinata tenuta in mano dell’artista americano.
Più del messaggio evangelico, ai R.E.M. interessa probabilmente l’autonomia di Finster e il legame con le radici da una prospettiva individualista e indipendente.
Un anno prima di lavorare all’artwork di Little Creatures per i Talking Heads, Howard Finster tornerà ad incrociare la propria arte con la musica dei R.E.M. disegnando la copertina di Reckoning con uno dei suoi serpenti, assegnando ulteriori stratificazioni al significato della parola, tra predestinazione, espiazione e la visione dell’Eden cara all’artista del Paradise Garden.
I R.E.M. individueranno altre intersezioni con la scena artistica del sud, per esempio producendo la misconosciuta long form che uscì insieme al secondo album, intitolata Left of Reckoning, questa volta immersi nell’arte folk di Ruben Miller. Ma il video di ben 21 minuti, girato da James Herbert, professore d’arte di Stipe durante gli anni dell’università, non trattiene la flagranza di Radio Free Europe, con la pretesa di collocarsi in termini concettuali nell’area degli home movies così vicini allo spirito del New American Cinema di Mekas, Clarke, Brakhage, Breer.
Russell Mulcahy si era da poco trasferito in Inghilterra dalla nativa Australia quando collaborò con gli XTC per la promozione di Drums and Wires, il terzo album della band britannica pubblicato dalla Virgin. Il suo apprendistato era costituito dall’esperienza con le band locali, spesso inseguite dal vivo a bordo di un furgone e con un equipaggiamento 16mm, oppure al centro delle performance in studio filmate per Countdown, il programma televisivo prodotto dalla Australian Broadcasting Corporation che aveva aperto i battenti nel 1974. In questo contesto pioneristico che ereditava la lunga stagione dei promo video, aveva provato a sperimentare linguaggi ibridi rispetto all’aderenza o alla ricostruzione del contesto performativo tout court ed era riuscito a lavorare per AC/DC, The Saints e per gli statunitensi The Tubes, con i quali aveva realizzato l’oltraggioso Mondo Bondage, video totalmente sconosciuto dalle nostre parti, ma che mandò in tilt la programmazione australiana e che tutt’ora, su YouTube, è sottoposto ai filtri per la verifica anagrafica. Parte di quel video, dove un gruppo di ragazze in abiti BDSM torturano in cucina il lead vocalist della band, è un anticipo delle modalità selvagge e creative con cui Mulcahy affronterà il set negli anni a venire, trasponendo le possibilità performative su un altro piano e investendo lo spazio con idee centrifughe.
L’Inghilterra gli consente di fare il salto e con una percezione ancora ingenua e avventurosa del mezzo, alla vigilia dell’esplosione MTV, produce una serie di video che si collocano a metà tra la replica performativa in studio e l’innesto di effettistica elettronica, mondi trasposti grazie alle tecniche bluscreen, moltiplicazioni picture-in-picture consentite dai mixer video e dalla tecnologia del tempo. Sono video molto simili quelli girati da Mulcahy fino a Video Killed the radio star, e rispondono ad una formula produttiva che consentiva la realizzazione in serie, spesso utilizzando lo stesso set, modificato dalle prime contaminazioni di grafica elettronica.
Per gli XTC dirigerà due video nella stessa giornata, il 10 luglio del 1979. Oltre a Making Plans for Nigel viene infatti girato il meno visto Life Begins at the Hop, prodotto in minor tempo, utilizzando lo stesso setting e le medesime comparse.
Making Plans for Nigel è in linea con i promo di quegli anni, dove allusioni grafiche, scelte cromatiche e il design stesso del set, recuperano gli elementi costitutivi degli artwork ufficiali. Uno degli esempi più tipici è Hanging on a Telephone di David Mallet, dove i Blondie vengono immersi in un setting che riprende le linee geometriche presenti nell’artwork di Parallel Lines.
Mulcahy però va oltre e cerca di ampliare lo studio limbo moltiplicando gli schermi, scomponendo la performance e stratificando il punto di vista con un’elettronica ancora selvaggia e un impiego del bluescreen tanto impreciso quanto emozionale. L’immagine della performance viene letteralmente corrosa dagli innesti in post e incorpora per certi versi gli sfondi e gli effetti più visionari che già erano transitati all’interno di programmi come Top of the pops.
La storia di repressione che ispira Colin Moulding per una canzone sulla difficoltà di trovare la propria identità nel contesto parentale, diventa l’occasione per costruire un ambiente simile alla stanza di una clinica psichiatrica, elaborarne la descrizione con una narrazione minimale, introdurre alcuni personaggi insieme alla band che suona, sfruttare alcuni props ed elementi di scena che diventeranno sempre più ingombranti e caratteristici nei video di Mulchahy a venire, prima di esplodere con una concezione più cinematica grazie ai video per i Duran Duran, realizzati lungo il corso degli anni ottanta.
Nello spazio contratto della videomusica catodica prima delle TV tematiche, Making Plans for Nigel è ancora un video laboratoriale che non si allontana dal ventre dello studio televisivo, ma che in qualche modo codifica un linguaggio in via di sviluppo, tra centralità dei performer e virtualità dei set.
Quando Samuel Bayer dirige tutti i video per il debutto dei Garbage è già un artista affermato da circa quattro anni. Smells Like Teen Spirit dei Nirvana è del 1991 e da quel momento in poi l’estetica del regista americano si consolida seguendo un tracciato ben definito che sembra guidato dalla necessità di tradurre in termini visuali le sollecitazioni dirette suggerite dalle liriche dei brani. Ma oltre a questo aspetto, che ha un valore relativo, diventa centrale la posizione del performer come azione di resistenza che si oppone alla messa in scena.
Dal video realizzato per i Nirvana, dove le difficoltà di lavorazione avevano consentito di elaborare un contrasto viscerale tra le esigenze di regia e il corpo irregimentabile di Kurt Cobain, Bayer esaspera il gioco al massacro, rivelando di volta in volta la presenza del dispositivo anche con interventi precisi in post-produzione, oppure allestendo ripetuti sabotaggi del set, la cui flagranza ovviamente non è più quella casuale del noto video diretto per la band di Seattle.
Il 1995 rappresenta un anno fondamentale per Bayer, perché è l’anno in cui realizza oltre ai video per i Garbage, due clip per David Bowie durante la promozione di Outside e Bullet with Butterfly Wings per gli Smashing Pumpkins, codificando una delle tendenze visuali del decennio per quanto riguarda saturazione e sporcizia dei colori, grazie anche al contributo di Beau Leon, colorist formidabile che ha donato tono e luce a video come Losing My Religion, The Hearts Filthy Lesson e lo stesso Only Happy When it Rains.
Alla distanza tra dispositivo e performance operata con le clip di Stupid Girl e Vow, attraverso due declinazioni del concetto di schermo, nel terzo video per i Garbage, Bayer incorpora tutte le tendenze videopittoriche, gli interventi di grattage digitalizzato e la retorica della performance in studio osservata da un dispositivo disincarnato, nell’uso esasperato e simbolico del colore. Più dei gesti che agganciano il significato della parola con un processo denotativo, è l’universo pittorico dove vengono immersi i Garbage a definire l’andamento della clip, tra outfit, sfondi, illuminazione e i relitti di un’officina dismessa non così distante da quella dove verrà allestito il balletto macabro e meccanico di The Hearts Filthy Lesson.
Il gioco autoironico di Shirley Manson, che irride il proprio songwriting e allo stesso modo tutta la teenage angst di quegli anni, viene riletto da Bayer con una parodia vera e propria del video dei Nirvana. La distruzione furibonda del set, la furia dei performer che si accanisce sugli strumenti, sembra più una performance artistica o la traduzione delle stratificazioni noise nel corpo pop del brano, attraverso l’utilizzo di trapani, seghe e altri attrezzi. Bayer segue il rimario sonoro e costruisce un video più attento agli aspetti sinestetici.
Ma soprattutto, c’è Shirley Manson, icona ibrida capace di tradurre l’energia sessuale delle liriche (Pour your misery down on me) attraverso un’indolente presenza che oscilla tra centralità e marginalità, fisicità ed evanescenza.
Bayer affronta tutto come se fosse una sessione di dripping post-pittorico. Interpreta quindi gli elementi di uno dei brani più erotici del decennio con un procedimento sensoriale che si affida al gesto, al movimento e al colore, passando in rassegna voyeurismo, penetrazione di corpi meccanici, decadenza e gioco infantile, gioia e l’improvvisa esplosione orgasmica di una pioggia argentata.
Sfiorano il fondo di Malkuth, due delle tre bizzarre figure ecclesiastiche che officiano il corteo funebre al centro di Ashes to Ashes, il video. Un sacerdote, una ragazza vestita a festa, due suore e un clown turchese, procedono solennemente sulla spiaggia vicino ad Hastings, seguiti da un escavatore. Di chi sono le esequie e soprattutto, dov’è il corpo? Comparsa sul bagnasciuga, la madre del clown ripete un monito della tradizione orale inglese dedicata ai bambini “My mother said I never should play with the gypsies in the wood“. Al posto degli zingari, nello spazio occupato dall’ignoto, c’è l’astronauta di una vecchia canzone la cui deriva sembra confinata nella cornice del sogno. Una stanza imbottita dove un folle vede ciò che gli altri non possono. Altrove, il sedile della navicella pronta al viaggio interstellare, lo inchioda al centro di una cucina. La pira funeraria polverizza immagini e tracce mnestiche. Engrammi che costituiscono il dispositivo rappresentativo e che si sostituiscono all’esperienza. Il Maggiore Tom, subisce un vero e proprio accanimento terapeutico: appeso ad un mostruoso macchinario organico già tecnologizzato, quasi fosse uno degli esoscheletri alieni di Hans Ruedi Giger, sopravvive nel ventre della balena, poco dopo l’inabissamento del Pierrot/Pinocchio tra i flutti del mare. Che tipo di formazione attende il nostro clown/burattino? Riuscirà a recidere i fili che trattengono ogni possibilità di emancipazione dalla terra, rompendo i propri limiti? E soprattutto, nel gioco di schermi che ne racchiudono altri, qual è il sogno e chi è il sognatore?
Funerale nello spazio. Da Space Oddity a Ashes to Ashes
“Stavo pensando a come avrei collocato il maggiore Tom in questi 10 anni, e che forma avrebbe assunto la completa dissoluzione del grande sogno che si manifestava quando era stato spedito nello spazio. Se la grande tecnologia era stata in grado di inviarlo lassù, una volta raggiunto l’obiettivo non c’era sicurezza del motivo. Torniamo quindi da lui dieci anni dopo per scoprire che la faccenda è diventata più dura. Non essendoci un motivo per quella spedizione, la cosa più drammatica che sono riuscito a pensare era quella di un conforto trovato in una specie di droga come l’eroina. In realtà lo stesso spazio cosmico che lo alimenta: una forma di dipendenza. Vuole tornare nel grembo da cui proviene” (David Bowie, Scary Monsters – Promo disc – Interview – RCA – DJL1-3840 – USA 1980)
Il 31 dicembre del 1979, il Kenny Everett Show celebra la fine del decennio con una performance in studio di David Bowie, messa in scena da David Mallet. Per mezzi e attitudine visuale, il setting ricorda il lavoro svolto dal regista britannico con i precedenti video realizzati per la promozione di Lodger e segue l’approccio già sperimentato nel contenitore di Everett con Boys Keep Swinging. Le immagini, girate agli Ewart Studios di Wandsworth, il 18 settembre del 1979, mettono al centro una nuova versione di Space Oddity. La richiesta proviene da Mallet stesso, è la condizione per partecipare allo show della ITV. Bowie accetta, ma a patto di poter scarnificare la canzone, elaborando una nuova versione riscritta per tre strumenti e che in qualche modo anticiperà l’approccio produttivo condiviso con Tony Visconti per la realizzazione della colonna sonora di Bertolt Brecht’s Baal. Insieme ad Alabama Song, il brano anticiperà di due anni il lavoro fatto per l’originale televisivo di Alan Clarke e sarà pubblicato su 45 giri nel 1980, come frutto delle session registrate nel settembre del 1979 ai Good Earth Studios dello stesso Visconti, insieme a Zaine Griff al basso, Hans Zimmer al piano e Andy Duncan alla batteria.
Bowie decide in qualche modo di congedare gli anni settanta con il brano con cui li aveva introdotti, servendosi di una delle sue creature letterarie più trasversali come rilettura critica del decennio precedente. Generazionale, personale e mitopoietico si intrecciano, laddove la costruzione narrativa del mito assolve funzioni negative e positive allo stesso tempo, sospeso com’è tra disillusione e trasformazione. Tutti i motivi visuali del video confluiranno in quello di Ashes To Ashes, di cui questo rappresenta un vero e proprio banco di prova.
Ashes to Ashes: morfologia di Pierrot
Co-diretto insieme allo stesso Bowie in un contesto di reciproca collaborazione, il video di Ashes to Ashes viene girato a sei miglia dalle spiagge di Hastings per tre giorni e in parte nei soliti studios dove era stata realizzata la clip per la nuova versione di Space Oddity. 35.000 sterline è l’impegno economico complessivo dell’operazione, tra le più costose del tempo. Concept, stile e alcune suggestioni culturali provengono dalla ricerca di Bowie, che fornirà a Mallet uno storyboard dettagliato. Suo il Pierrot, la cui codifica proviene da lontano e dall’esperienza con Lindsay Kemp nel Pierrot in Turquoise. Come scrivevamo nel 2016 in questa lunga disamina iconologica, ci convincono fino a un certo punto le associazioni biunivoche con il Pierrot Lunaire di Giraud/Schönberg, tanto verificabili quanto pretestuose se inserite nel solco di una rilettura pedissequa dell’espressionismo tedesco, questo perché il processo di stilizzazione del costume principale, ideato e realizzato insieme a Natasha Korniloff è frutto di un’ibridazione che si riferisce ad altre maschere. Tra queste non sfugge la morfologia geometrica di Pinocchio, oltre all’automatismo motorio del personaggio, ma anche lo spirito macabro di Henri de Toulouse-Lautrec nella foto “en pierrot” del 1894, ritratto mascherato che emerge dall’ombra e che assorbe le caratteristiche allucinatorie della sua arte. Nel costume di Ashes to Ashes, contro il nero del cielo, predomina il bianco, mantenendo apparentemente una relazione filologica con le primissime origini della maschera, in realtà scomposta tra profilmico e virtuale, nei personaggi di contorno e nel paesaggio. Il doppio e l’ombra che accompagnano la storia delle rappresentazioni legate a Pierrot per tutto l’ottocento viene quindi disseminato tra i set allestiti a Beachy Head e ad Hastings e le manipolazioni consentite dal dispositivo della britannica Quantel utilizzato da Mallet per l’effettistica del video.
Ashes to Ashes: Paintboxed?
Tra gli errori più frequenti che ormai si sono diffusi come un virus con gli articoli dedicati al making of di Ashes to Ashes, c’è l’ipotesi che la crew tecnica si sia servita di alcuni effetti di solarizzazione dell’immagine per ottenere i risultati più contrastati. Mallet in realtà si porta dietro la sperimentazione fatta con gli Hot Gossip, sempre per i video performativi realizzati in seno al Kenny Everett Show, e in particolare per la clip relativa a Supernature.
Le similitudini tra questo e il video di Bowie sono evidenti e riguardano le modalità con cui i valori cromatici del paesaggio vengono trasformati, grazie alle capacità del mixer video utilizzato dal regista inglese e diffuso in quegli anni. Niente a che vedere con le tecniche di solarizzazione.
L’altro errore è che il lavoro sia stato svolto con il Paintbox, dispositivo lanciato dalla Quantel nel 1981 e adottato dal broadcast britannico nel 1982, un anno dopo le sperimentazioni con il Flair, workstation pionieristica sviluppata grazie ad una collaborazione della Logica e del dipartimento tecnico della BBC situato a Kingswood Warren. Il Paintbox consentirà una modifica delle immagini televisive direttamente sullo schermo grazie ad un sistema hardware/software integrato totalmente autonomo. I sistemi integrabili della Quantel precedenti al Paintbox consentivano già, con minore versatilità, di creare e colorare il cielo di un’immagine pre-esistente mediante una palette, oppure di alterarne completamente i valori cromatici, mantenendo inalterati quelli di luminanza. Un esempio estensivo dell’utilizzo del Paintbox è tutta la produzione grafica di Max Headroom, la serie prodotta da BBC. Solo di un anno dopo gli esperimenti di videopittura che “Painting with light“, la serie televisiva prodotta dalla Griffin Productions e trasmessa da BBC 2 nel 1986, affiderà agli artisti Richard Hamilton, Howard Hodgkin, Larry Rivers, Sidney Nolan, Jennifer Bartlett e David Hockney. Il Paintbox si presenta come workstation completa, che integra un tablet touchpen per agire su segni e colori. Le capacità metamorfiche del sistema oltre a consentire la combinazione di sorgenti grafiche eterogenee adatte ad interagire con la tecnica del bluescreen, permettono di cambiare i colori illimitatamente basandosi sui principi luminosi e puntando alla saturazione del colore per oscurare l’immagine più che per esaltarne la brillantezza. Il Paintbox consente in quegli anni di intervenire “al volo” sulle immagini, anticipando la prassi del disegno su tablet e consentendo la gestione di una maggiore o minore opacità dell’immagine in relazione alla pressione della penna. La cornice tecnologica è ovviamente diversa dalle possibilità attuali, ma interpreta già l’evoluzione dell’immagine digitale in termini performativi. Il Paintbox consentiva inoltre la memorizzazione di effetti e l’accesso ad una libreria di preset con modalità per quegli anni del tutto innovative.
Come si evince da questo reel realizzato come demo per la prima generazione del Paintbox, quella degli anni ottanta, le caratteristiche del dispositivo orientano la grafica video verso un’esaltazione delle funzioni di compositing, aspetto che è presente in modo molto minimale nel video di Ashes to Ashes, più orientato al lavoro sul colore e la luce.
Tutti questi aspetti sono comunque chiarissimi nel video ideato da Bowie-Mallet sei anni prima di “Painting with light” e concorrono a creare quel surrealismo pop che dominerà nei video musicali degli anni successivi prima che questi sostituiscano la giustapposizione di immagini illogiche con una tendenza più marcatamente narrativa. Proprio in questi termini il video di Ashes to Ashes rigetta l’uso mainstream della trasparenza televisiva servendosi di contrasti stridenti, effetti di video pittura consentiti dalla tecnologia del tempo, movimento e astrazione.
Anticipa certamente la rivoluzione che il Paintbox opererà nell’intersezione tra grafica e video, soprattutto nel campo dell’advertising, ma i risultati tecnici del lavoro di Bowie/Mallet sono probabilmente dovuti a prototipi e mixer della Quantel precedenti ad un dispositivo che fu presentato per la prima volta al NAB show nella primavera del 1980, e che sarà utilizzato pubblicamente solo a partire dall’anno successivo. Non ci sono indicazioni e testimonianze dirette che documentano l’adozione del prototipo da parte di Mallet, che avrebbe dovuto essere immediata e in esclusiva, considerati i tempi di lavorazione del video, il cui set fu allestito pochi mesi dopo. Nonostante questo, alcune fonti accreditano il Paintbox come dispositivo utilizzato per la post produzione. Secondo un tecnico della Quantel con cui ho avuto l’opportunità di parlare, l’utilizzo della workstation da parte di David Mallet non è probabile.
Cenere alla cenere: entropie
La totale rielaborazione delle sequenze contenute nel video di Space Oddity realizzato da Mallet l’anno precedente, servono per costruire una temporalità orizzontale, legata non solo al viaggio cosmico ma anche allo scambio tra autore e personaggio e alla discontinuità tra i due.
Il medium per il passaggio dimensionale sono le fotografie-finestra che Pierrot-Pinocchio/Bowie/Major Tom mostrano durante il video e che provengono da un’idea dello stesso Bowie. Il primo rispecchiamento è già un’ipermediazione, incorporamento e discontinuità con lo schermo mostrato dal Pierrot-Pinocchio contenente un paesaggio simile a quello dove agisce il Pierrot con Major Tom seduto sugli scogli. Il secondo investe simmetricamente Major Tom del ruolo di narratore, aprendo una finestra-schermo dello stesso tipo, ma sull’immagine bowiana del periodo discografico precedente, un personaggio circondato dalle pareti imbottite di quella che potrebbe essere la stanza di un ospedale psichiatrico, tra riferimenti biografici e risonanze mitopoietiche con le liriche del brano e la stessa parabola astrale del Maggiore Tom. La collocazione è ancora una volta quella del narratore. Al netto delle considerazioni biografiche ampiamente privilegiate, invece che analizzate come testo tra altri testi, utilizzando la parola “Junkie” come connettore, è interessante il modo in cui viene frammentato il racconto all’interno di una sequenza temporale palindroma. Non solo quindi la metavisione o la rimediazione del passato, con uno schermo-finestra che guarda al passato mitopoietico di Bowie, ma anche una seconda metavisione incorporata che volge lo sguardo nell’altra direzione, dove Major Tom dal passato osserva il futuro di Bowie.
È lo stesso artista inglese che nello spazio di una sola intervista concessa ad Angus MacKinnon per NME il 13 settembre del 1980, rivela questo doppio sguardo fantascientifico in due momenti diversi e come chiave di lettura dell’intero video: “Ci sono moltissimi stereotipi nel video, ma penso di averli ricombinati in modo da non farli apparire come tali, almeno nella misura in cui come sensibilità generale, emerge un certo sentimento di nostalgia per il futuro“. Verso la fine della stessa intervista Bowie, interrogato sulla presenza di Major Tom nella canzone parla al contrario di una certa nostalgia per un passato irrecuperabile: “davvero si tratta di un ode all’infanzia o se preferisci, di una filastrocca popolare“.
Quella nursery rhyme che ha ispirato anche Sally di Fabrizio De Andrè, e che nel già citato vinile intervista di Scary Monsters, pubblicato dalla RCA come strumento informativo per le radio, consente a Bowie di connettere la tradizione britannica tardo ottocentesca con il cautionary tale dedicato al destino del Maggiore Tom, gli permette anche di rilevare un sentimento del tempo sollecitato dalla permutazione numerica delle date: 1890 / 1980: “Credo che le filastrocche del 1980 abbiano molto a che fare con quelle del 1890, che erano davvero orrorifiche, con questi ragazzini a cui vengono mozzate le orecchie. Ci stiamo nuovamente avvicinando a questo e credo che le filastrocche sullo stile di Sesame Street siano ormai datate, sfortunatamente“
Tempo, spazio e follia. Ashes to ashes come racconto di fantascienza
Eppure c’è un gioco, tra tempo, spazio e follia che Bowie desume dalla fantascienza quando si diverte a compiere questi viaggi dimensionali. La centralità della quadrilogia di Michael Moorcock dedicata a Jerry Cornelius è indiscutibile nella creazione dell’universo narrativo Bowiano per lo meno a partire da Ziggy Stardust, soprattutto se si considerano le caratteristiche androgine e bisessuali del personaggio creato dallo scrittore inglese, la sua passione per la moda, il fatto che oltre all’attività di agente segreto ne porti avanti una parallela come rock star, il tutto sullo sfondo di una swinging London descritta con toni apocalittici e nel contesto di quella rivoluzione letteraria del genere introdotta da New Worlds, la rivista fondata da Moorcock stesso nel 1964, territorio di sperimentazione linguistica e narrativa e che nel momento in cui Bowie farà nascere il Maggiore Tom, sarà già una delle realtà consolidate della nuova fantascienza. Meno note le connessioni con il Maggiore Newman, l’astronauta americano che in The Final Programme, avrebbe documentato aspetti sconosciuti del cosmo dopo una rovinosa missione aerospaziale e il cui diario si troverebbe in una cava di Lapland. Colin Greenland, nel fondamentale Entropy Exhibition (Routledge Revivals): Michael Moorcock and the British ‘New Wave’ in Science Fiction, inserisce il Major Tom Bowiano nella linea di sviluppo dell’astronauta pazzo, vero e proprio anti-eroe introdotto dagli autori della New Wave fantascientifica britannica, da Moorcock stesso (Ryan e Newman) fino a Ballard, Trabert e Malzbeg.
Inoltre, la presenza del Pierrot in alcuni romanzi del Quartet (The Final programme, The English Assassin, The Condition of Muzak) indica connessioni mai rilevate né analizzate. Il primo romanzo della quadrilogia viene pubblicato nel 1968, dopo il Pierrot in Turquoise di Kemp/Bowie anche se una versione incompleta era uscita a puntate dal 1965 in poi su New Worlds. Se l’ispirazione comune è quella della commedia dell’arte, le cui caratteristiche improvvisative interessano a Moorcock per lavorare sullo slittamento di senso dei personaggi e sui salti della scrittura, il riferimento a “The English assassin“ diventa quasi obbligatorio. Scritto da Moorcock nel 1972, vede a un certo punto Jerry Cornelius ri-emergere dalle acque del mare come Pierrot per incontrare sulla spiaggia la sorella Catherine. Ed è probabile che la passione abbia spinto Bowie a recuperare questa iconografia, anche attraverso l’elaborazione visuale di Robert Fuest nella versione cinematografica di The Final Programme del 1973
Da Cloud al Pierrot di Ashes to Ashes
Sulla figura del narratore Pierrot-Pinocchio che inquadra e in qualche modo fa da dispositivo-cornice per i personaggi di Ashes to Ashes è necessario fare una breve digressione. Nel Pierrot in Turquoise di Kemp, filmato nel ’69 dalla televisione scozzese e mandato in onda il luglio dell’anno successivo, Bowie interpreta Cloud: cantastorie, performer e connettore per tutti gli elementi emozionali che dai personaggi arrivano al pubblico. Nella piece di Kemp esegue alcuni brani da lui scritti come interludi per la vicenda che vede Pierrot uccidere l’amata Colombina dopo che questa l’ha tradito con Arlecchino. In Ashes to Ashes replica il ruolo di Cloud ma incorporandolo nel personaggio di Pierrot-Pinocchio, anch’esso rimediato dal dispositivo, con il fotografo che lo inquadra e lo scatto che ferisce, quasi ad indicare una relazione con i media ad un livello diverso rispetto alle logiche che intrecciano le narrazioni di /personaggio/discografia/biografia.
Sono altrettanto lucide due dichiarazioni di Bowie concesse durante alcune interviste tra il 71 e il 76, spesso tirate in ballo semplicemente per chiarire quanto la figura del Pierrot abbia attraversato il suo mondo creativo, o al limite per ribadire il solito logoro binomio arte-vita di ascendenza romantica che è in verità solo una piccola parte dell’intera questione: In “Waiting for Bowie – and finding a genius who insists he’s really a clown” titolo che già da solo ci dice quali sono le facoltà cognitive di un giornalista, Bowie risponde a Jean Rook del Daily Express in un’intervista del 5 maggio 1976: “Sono Pierrot. Sono Chiunque. Faccio teatro, solamente teatro. […..] Ciò che vedi sul palco non è sinistro. E’ semplicemente clownerie. Sono come una tela e cerco di dipingerci la verità del nostro tempo. Viso bianco, pantaloni larghi, Pierrot appunto, l’eterno clown che presenta la grande tristezza del 1976“.
Prima ancora di questa dichiarazione, Bowie aveva detto in un’intervista dell’aprile 1971 a Rolling Stone: “Ciò che la esprime può essere serio […] ma come medium la musica non dovrebbe essere indagata, analizzata o presa così seriamente. Credo che debba essere agghindata come una prostituta, una parodia di se stessa. Dovrebbe essere il clown, il medium-Pierrot. La musica è la maschera indossata dal messaggio. La musica è il Pierrot e io, il performer, sono il messaggio“
Ashes to Ashes, incubatore di mode e tendenze
Come è noto, il cast di Ashes To Ashes mette insieme una serie di artisti tutti orbitanti intorno al Blitz Cub di Covent Garden e associati al delinearsi della sottocultura New Romantic. Tra questi l’artista gallese Steve Strange, agitatore culturale della nightlife e fondatore della band Visage, la designer Judith Frankland e due amiche di Strange, la stilista Darla-Jane Gilroy che sarà un talento seminale per la moda britannica tra gli ottanta e i novante ed Elise Brazier, che nel video è la ballerina vestita a festa. “Senza alcun preavviso Bowie si è presentato [al Blitz] – racconta Strange nell’autobiografia intitolata “Blitzed” – con altre due persone e il suo agente, Corinne ‘Coco’ Schwab, che non mi è sembrata particolarmente gentile“. Gli altri due a cui Strange fa riferimento, da altre testimonianze tra cui quelle di Andy Polaris, sono la figlia del comico Des O’Connor, Karen, e il fotografo e pittore Edward Bell che realizzerà l’artwork di Scary Monsters.
Bowie chiede a Strange un truccatore per il video di Ashes to Ashes e gli viene suggerito Richard Sharah, iconico make-up artist, tra i più importanti del decennio a venire. Lascia quindi completa libertà a Strange per la scelta dei costumi e delle tre persone che dovranno seguirlo in questa avventura.
Judith Frankland, laureata a Ravensbourne e stilista per l’outfit di Steve Strange nel video di Fade To Grey, contribuisce ai due costumi da suora per il video di Bowie, parte di una ricerca cominciata con la sua tesi di laurea e come ha dichiarato in alcune interviste, ispirati alle domenicane di Tutti Insieme appassionatamente. Il vestito del front leader dei Visage sarà quello della sposa in nero, ideato dalla stessa Frankland, ma con il copricapo velato di Stephen Jones, il creatore di cappelli più importante del Regno Unito e che aprì la sua prima boutique proprio nel 1980.
Il luogo è inizialmente segreto e una volta sulla spiaggia, il cast viene brevemente istruito sul da farsi, dai movimenti principali alle liriche da mimare. È il tre luglio del 1980, la spiaggia quella di Pett Level, sei miglia ad est di Hastings nell’East Sussex, luogo d’infanzia per lo stesso David Mallet.
Se il costume di Bowie, come abbiamo detto viene affidato alle mani esperte e fidate della Korniloff ed il trucco a quelle di Richard Sarah, Gretchen Fenston, rinomata stilista e creatrice di cappelli con base a New York, si occuperà di quello per il Pierrot bowiano. Mentre l’abito sacro in velluto della Gilroy è una sua crezione, il cappello per la ballerina impersonata dalla futura modella Elise Brazier, è invece un contributo degli stilisti Fiona Dealey e Richard Ostell.
La paga per le quattro comparse sarà di 50 sterline ciascuno.
Catarsi
David Bowie subisce il fascino, l’influenza e la seduzione della cultura dada/surrealista tanto quanto quella di altre stratificazioni che ispirano la transmedialità della sua arte, a partire dalle tecniche creative e combinatorie utilizzate per la composizione delle musiche e la scrittura delle liriche, fino agli artwork dei suoi album, i videoclip, le performance televisive, le modalità con cui interpreta le suggestioni della moda. I video rappresentano ovviamente il medium più logico per stabilire connessioni con il mondo delle arti visuali, codificando d’altra parte una tendenza specifica del videoclip stesso all’alba delle televisioni tematiche, che sarà capitalizzata solo in parte dall’esplosione del formato, ormai indirizzato verso una dimensione narrativa più superficiale e inevitabile. Ashes to Ashes in questo senso, nella combinazione tra sperimentazione visuale ancora al suo stadio empirico e una vicinanza flagrante all’incandescenza dell’evento performativo, come testimonia il reclutamento “vivo” del cast entro una scena in ebollizione, diventa melodramma postmoderno, nell’accezione combinatoria di più generi popolari che in qualche modo spingono verso un’esperienza catartica.
Non è solo la costruzione del brano e la relazione tra melodia e parola, in questa sede fuori dai nostri scopi analitici, ma anche la messa a morte di una tradizione generazionale che a differenza del bel film di Eva Ionesco sugli anni del Le Palace, quello che possiamo considerare il Blitz Club di Parigi, nega il post-punk come estetica e come filosofia proprio al momento del suo innesco. I relitti e le carcasse sacrificati sulla pira funeraria, non sono legati esclusivamente al passato dell’artista inglese e alle sue progressive mises en abyme, ma pongono una pietra tombale su tutte le posture a venire, confinando l’esperienza della musica pop nell’ambito incerto e abissale dell’esperienza psichica, fuori dal controllo delle varie chiese di riferimento.
Anticipato dal nuovo singolo “La fuga“, il tour estivo dei Marlene Kuntz è cominciato lo scorso giugno e procederà fino a settembre inoltrato. Da non perdere la data del primo settembre a Sesto Fiorentino, nell’ambito dell’annuale concerto gratuito in Piazza Vittorio Veneto, parte della kermesse Liberi tutti programmata dal 29 agosto al 4 settembre 2022.
“La fuga”, unitamente al bel videoclip diretto dal talentuoso Marco Jeannin (I dolori del Giovane Walter, Frah Quintale, Federico Albanese), è il primo estratto dal prossimo album di inediti della band cuneese, che vedrà la luce a settembre, a sei anni di distanza da “Lunga attesa”, il precedente full lenght e a tre da “Bella ciao“, il canto per la libertà reinterpretato dai Marlene insieme a Skin, l’interprete di Brixton, principale voce degli Skunk Anansie dal 2001 al 2009.
“Karma Clima Experience” è il nome del tour e si inscrive in un discorso legato alla questione ambientale, alla sostenibilità e all’arte, processo creativo e politico inaugurato da tre residenze aperte anche alla partecipazione esterna, allestite tra ottobre e dicembre 2021 tra Monviso di Ostana, Piozzo e nella borgata Paraloup a Rittana, dove la band, tra laboratori e l’input delle comunità locali, hanno dato vita alle registrazioni dell’album insieme al produttore Taketo Gohara e all’impiego di uno studio mobile.
L’esperienza in itinere è diventata un tour, che oltre ai classici della band, propone alcune anticipazioni del nuovo disco, incluso “La Fuga”, brano che sposta l’asse sonoro dei Marlene Kuntz verso un’elettronica che loro stessi definiscono “suonata” e che non perde identità e potenza, rispetto alle sonorità noise che hanno caratterizzato parte della loro carriera artistica.
I concerti vengono definiti dagli stessi Marlene come “esperienziali”, ovvero innestati in contesti storico-artistici specifici, come la Mole Antonelliana, le borgate di montagna di Ostana in Piemonte e altri luoghi peculiari, dove “sperimentazioni sonore e soluzioni visive [moltiplicheranno] l’emozione di ritrovarsi altrove, lontani dagli stress di questo mondo complesso, spesso brutto, a tratti alieno: pensate a… una fuga“
Le setlist di questi mesi, fino al concerto dello scorso 5 agosto, hanno incluso una carrellata molto ampia di brani che comprende quasi integralmente la discografia del Marlene, dall’esordio del 1994 con Catartica, fino a Nella tua luce del 2013.
A questi brani si sono aggiunti anticipazioni del nuovo album, tra cui il primo singolo La fuga e l’ancora inedito L’aria era l’anima (qui eseguito ad Ostana, lo scorso marzo). In tutte le date, la band ha eseguito anche la cover della PFM Impressioni di settembre.
Ecco gli altri brani della setlist, qui indicati in base alla pubblicazione cronologica degli album:
“Catartica” (1994) (Nuotando nell’aria; Sonica; Lieve) “Il vile” (1996) (Come Stavamo ieri) “Ho ucciso paranoia” (1999) (Ineluttabile) “Che cosa vedi” (2000) (la canzone che scrivo per te) “Senza peso” (2003) (A fior di pelle; Schiele, lei e me; L’uscita di scena ) “Bianco Sporco” (2005) (Mondo Cattivo; Bellezza) “Uno” (2007) (Uno; Musa) “Ricoveri Virtuali E Sexy Solitudini” (2010) (Io e me) “Nella tua luce” (2013) (Il genio (L’importanza di essere Oscar Wilde)
Night Crawling, con la definizione urbana del termine, indica l’esplorazione notturna dei meandri cittadini, quelli più oscuri e proibiti, dove creature che usualmente dormono di giorno occupano una soglia altrimenti invisibile, individuata nel cono d’ombra della vita comunitaria. Una suggestione più antica rispetto a quella che sostanzialmente circoscrive i confini della città post-moderna è la pratica giapponese del Yobai, attiva prima dell’era Meiji, dove un uomo ancora slegato dal vincolo matrimoniale, scivolava nella casa di una donna di pari condizioni durante le ore notturne, e con il suo eventuale consenso, ci dormiva insieme. Una vera e propria iniziazione sessuale che nelle metropoli degli anni settanta, individua i bagliori di una nuova aurora non binaria, quella della promiscuità selvaggia e della fluidità dei generi.
Nella nuova canzone di John Cale, diffusa attraverso un video d’animazione realizzato dall’illustratore Mickey Miles, l’artista gallese racconta le scorribande notturne condivise con David Bowie nella New York degli anni settanta, riferendosi attraverso le liriche ad un gioco sul bordo che diventa improvvisamente moltiplicazione di un limite. Dopo i primi versi, la ripetizione Rileyana di una frase, occupa la quasi interezza del brano tra le tastiere e una bassline ossessiva, molto vicine all’elettronica di HoboSapiens, in quella scomposizione cubista delle influenze Jazz che hanno attraversato alcuni capitoli della produzione dell’ex Velvet Underground
Il verso I can’t even tell when you’re putting me on / We played that game before ci racconta la continua reverie del trascinamento urbano. Quel movimento sempre uguale, sempre sul limite, ma ogni notte introduzione ad una nuova metamorfosi. Il ripetersi di questa immagine riflessa nelle liriche, individua uno stimolo potenziale, uno sviluppo interrotto, ma all’interno della ripetibilità degli eventi intrappolati nel tracciato temporale. Lo stesso video coglie questa dimensione e costruisce un vero e proprio Nastro di Möbius, con alcuni motivi narrativi che ogni notte sembrano riproporre lo stesso gioco, gli stessi titoli di testa come se si trattasse di un serial, di una situation comedy agganciata alla propria coazione a ripetere. Del resto, nel geniale video di Mickey Miles, tutto promana da una nuvola di fumo, dalle insegne luminose, dall’iridescenza dei colori pop, per poi spegnersi dentro il segnale elettrostatico di uno schermo catodico.
“Ad un certo punto, intorno alla metà degli anni settanta – racconta Cale congiuntamente al lancio del brano – io e David Bowie ci siamo incontrati a New York. Mentre discutevamo molto sulla possibilità di portare a termine un lavoro condiviso, finivamo per vagare lungo le strade della città, fino a non essere più in grado di formulare un pensiero, figuriamoci una canzone!“
La New York di Night Crawling è allora il vero centro della riflessione di Cale, un incubatore allora ancora capace di produrre arte, tra sicurezze e pericolo. Il vagare sul lato selvaggio su cui il video insiste è un congelamento, tenero e sofferto, di quel continuo trovarsi fuori binario, rispetto alla realtà quotidiana: “Ho sempre pensato che avremmo avuto un’altra possibilità per registrare qualcosa insieme – aggiunge Cale – questa volta senza l’interferenza del nostro essere perennemente fuori di testa“
Ma cos’è la dimensione creativa, se non la capacità di uscire dal mondo? “Creare musica – dice ancora Cale – è la capacità di indovinare un pensiero ed un sentimento, anche quando la realtà dice che non è possibile in termini logici“
Night Crawling coglie allora uno stato di transito che non si risolve mai, sul sentiero di una creazione potenziale che si perde nella flagranza dell’istante, nel divertimento pre-formale.
C’è un non detto, recuperabile attraverso alcune testimonianze raccolte negli anni, tra cui un’intervista concessa da Cale nel 2008 ad Uncut dove l’artista gallese cita le session ai Ciarbis studios di NY registrate insieme a Bowie nel 1978, una jam furibonda dove i brani sono spunti, abbozzi folgoranti, idee da sviluppare ancora immerse nel gioco aurorale dell’improvvisazione e che saranno diffuse solo attraverso alcuni bootleg nello spazio cultuale delle fandom di riferimento.
“Quando abbiamo registrato quelle session, […] era un periodo di divertimento estremo per noi. È stato emozionante lavorare con lui, perché c’erano molte possibilità nell’aria, ma in quel momento eravamo i nostri peggiori nemici… Avrei mai desiderato produrre Bowie? Dopo aver passato del tempo con lui, ho capito che la risposta era no. Il modo in cui eravamo allora l’avrebbe reso troppo pericoloso” (Uncut, Giugno 2008, intervista curata da Stephen Troussé)
David e Cale si erano incontrati in città qualche anno dopo la produzione di Horses curata dall’artista gallese. La session, come attestano le sue parole, diventa una festa, un gioco quasi distruttivo che non può svilupparsi in una collaborazione compiuta. Era il 5 ottobre del 1979 e una versione parziale di quell’esperienza vede la luce grazie ad un bootleg pubblicato qualche anno dopo in vinile 7 pollici, intitolato Two Gentlemen in New York. I brani contenuti, con titoli “inventati” dalla clandestinità, sono “Velvet Couch” e “Piano-La“, il primo dei quali ha la struttura più definita, con la voce di Bowie che sembra amalgamare liriche e melodia sulla traccia pianistica impostata da Cale, mentre il secondo brano si ferma al livello di un mormorio cantilenante.
Qualche mese dopo, John Cale insegnerà a David Bowie una parte di viola allo scopo di fargliela suonare durante l’esecuzione di Sabotage alla Carnegie Hall di NY, per un concerto che andrà in scena il primo aprile 1979, all’interno di un contenitore complessivo curato da Steve Reich e Philip Glass, profeticamente intitolato “The First Concert of the Eighties“. Durante l’evento Bowie indosserà un Kimono nero, ma non esistono registrazioni video dell’evento.
Nel lungo tracciato d’amore che lega David Bowie ai Velvet Underground, avvicinamento che avviene in varie forme, creative (Il brano Andy Wharol contenuto in Hunky Dory), celebrative (l’esecuzione live di White light/White heat e di I’m Waiting for the man) e produttive (la seminale collaborazione con Lou Reed), la relazione con John Cale fa parte di quelle occasioni perdute che avrebbe messo davanti allo specchio la genialità proteiforme e in ebollizione di due artisti sospesi tra disciplina e anarchia. Che Bowie lo abbia osservato da vicino in più di un’occasione non è scritto, ma riconducibile ad alcune scelte estetiche. Introdurre Pablo Picasso dei Modern Lovers nella tracklist di Reality, è un modo per indirizzare la paternità del punk al lavoro di John Cale tra il 1975 e il 1978, ma anche un imprimatur per quello che può esser considerato l’album di Bowie più introspettivo e influenzato da alchimie eterogenee.
Di nuovo il Nastro di Möbius, nella continua potenzialità di un incontro mai effettivamente avvenuto.
L’uscita di John Lombardo non crea alcun contraccolpo nella musica dei 10.000 Maniacs, fatta eccezione per gli ultimi residui post-punk presenti in The Wishing Chair, completamente abbandonati nell’amalgama sonoro di In my tribe. Lo slittamento è a favore di una musica delle radici che rielabora la tradizione americana, incluse alcune lievissime influenze tex-mex, all’interno di una cornice pop più solida. L’esperienza di Peter Asher, produttore che aveva lavorato con alcuni dei maggiori interpreti della musica popolare statunitense e britannica, esalta la voce di Natalie Merchant, lasciando sullo sfondo il contributo di Dennis Drew, Steve Gustafson e Jerry Augustyniak. Nel solco di un alternative rock che esce dal contesto dei college, In my tribe si inserisce a pieno diritto in quella mutazione fine decennio del rock americano pronto a scalare le classifiche e che includeva anche il progressivo cambiamento dei R.E.M. alla vigilia della pubblicazione di Document.
In my tribe esce il 27 luglio del 1987 e la scelta di veicolare il nuovo corso della band, viene affidata a Peace Train, cover da un brano di Cat Stevens del 1971, contenuto in Teaser and the Firecat, forse la traccia più prodotta, in termini anche negativi, dell’intero In my Tribe. Al brano è associata una controversia sulle posizioni di Stevens, Yusuf Islam già da dieci anni, e al supposto sostegno nei confronti della fatwa emessa contro Salman Rushide dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Al netto dei palleggi successivi tra stampa e Yusuf, per definire in che modo e se l’artista cresciuto in Inghilterra si fosse effettivamente espresso rispetto all’accusa di blasfemia dei Versi Satanici, i 10.000 Maniacs decidono, in accordo con la Elektra, di rimuovere la traccia dalle edizioni statunitensi dell’album, sopravvissuta solo nelle stampe europee.
Le note a margine della vicenda vengono perfezionate negli anni successivi e sostanzialmente si legano ad una decisione mai recriminata, ma per la qualità del brano stesso, non molto amato dai Maniacs, per impostazioni sonore e produttive e sostanzialmente poco rappresentativo del nuovo sound della band.
Ma c’è un’effettiva differenza tra le dichiarazioni di Dennis Drew, concesse a The Star il 19 settembre del 2014 e quelle pubblicate il primo luglio del 1987 sul Jamestown Post Journal, dove la stessa Merchant ammette l’approccio più radio friendly dell’album e il fatto che Peace Train fosse “il modo migliore per introdurre la band ad un nuovo pubblico“.
Nello stesso articolo, si fa cenno al videoclip ancora da girare. La Merchant parla delle imminenti location a Jamestown, in particolare in luoghi come l’Allegany State Park e il Kinzua Dam. In realtà il video sarà filmato nel Connecticut, ma uscirà presto dalla heavy rotation, per poi scomparire in tempi più recenti anche dal profilo Youtube ufficiale della stessa Natalie Merchant.
Disponibile in forma trapelata da un broadcasting di VH1, il video di Peace Train tiene al centro la performance della Merchant, collocata su una zattera insieme alla band e che gioca a fare il pifferaio di Hamelin per una folla crescente di ragazzini che provengono dalla campagna circostante al principale corso d’acqua. La fisicità della cantante americana, fondamentale nelle performance dal vivo e nella clip di Scorpio Rising, singolo del precedente album, mantiene centralità ribelle nella lotta indomita con i capelli e con un incedere tra punk e tradizione country-western, che nell’urgenza della danza è assimilabile alla fulminea presenza di Maria MacKee dei Lone Justice nei live tra il 1985 e il 1986. Questo contrasto, quasi disturbante, tra la malia di Natalie, la qualità ecumenica delle liriche di Stevens, cura pacifista per i mali del paese, e una turba di adolescenti sorpresi e atterriti dal passaggio della buona novella, fanno di questo piccolo video rimosso, un prodromo interessante della qualità stridente percepita nelle clip successive della band, sempre sospese tra apparente disimpegno pop e la feroce, amara e malinconica introspezione sollecitata dal songwriting di Natalie Merchant.
Qualche anno dopo aver formato la fake-band heavy metal dei Bad News ed aver girato il videoclip di Fiesta per i Pogues, il comico e regista Adrian Edmondson, firma il video per il secondo singolo di In my Tribe. Like The Weather risente della progettata anarchia nell’organizzazione del set, tipica dei video di Edmondson e se appare diverso dalle parodie guascone di Prime Mover per gli Zodiac Mindwarp e di Bohemian Rapsody, per il già citato progetto Bad News, è identica l’energia che investe il set di improvvise trasformazioni a vista, sfondamenti della quarta parete, innesti tra elettronica e una qualità ancora fisica del videomaking. Oltre a questo, l’ambiente casalingo in cui si muove Natalie, è infestato dall’astrattismo di linee, colori e forme desunte dall’anti-naturalismo musicale di Vassili Kandinskij. Un’assenza di logica rappresentativa che si connette maggiormente allo spirito cromatico dei suoni e allo spleen delle liriche. Persino i vestiti indossati da Natalie, la sua danza nevrotica e ribelle, disegnano una relazione mutevole tra geometria e colori. Un tentativo che Edmondson, tra l’altro, ripeterà con il video di Hourglass, dove gli Squeeze vengono calati nelle aberrazioni spazio temporali di Magritte e Dalì. Se quest’ultimo gli valse il premio come miglior video agli MTV Music Video Awards, Like the weather ci sembra molto più riuscito, per l’equilibrio positivamente vivo e instabile tra l’azione di Natalie e la casa che non riesce a contenere il suo umore cangiante. Mentre Hourglass è un esempio più didascalico, gli innesti e i riferimenti alla storia dell’arte figurativa non inghiottono il video dei Maniacs, ma al contrario rilanciano continuamente la gerarchia tra performer e spazio, facendo esplodere il secondo e lasciando fuoriuscire il liquido dall’acquario televisivo.
And instead of love and the feel of warmth You’ve given him these cuts and sores That don’t heal with time or with age
Uno degli esempi più forti del contrasto tra solarità dell’ordito pop e il lavoro di Natalie Merchant sulle liriche è proprio What’s the Matter here? Il terzo e ultimo singolo estratto da In my tribe è una dolorosa anti-elegia sull’abuso infantile, che l’artista di Jamestown scrive ispirandosi alle vicende di una famiglia del suo stesso quartiere, intraviste, supposte e in parte immaginate. Una genesi molto simile a quella di Luka, il brano pubblicato lo stesso anno da Suzanne Vega e dedicato ad un bambino vittima di abusi.
Scritta insieme a Robert Buck, la canzone viene sviluppata in autonomia per quanto riguarda il contenuto del testo, rimasto per lo più segreto fino al giorno delle registrazioni. Un procedimento che in qualche modo non turba la qualità aperta e possibile dell’impianto sonoro.
Il videoclip viene affidato a Matt Mahurin, fotografo dal grande talento, che a partire dalla fine degli anni ottanta, dirige un numero notevole di video musicali. Con un segno distintivo tra street photography e videoritratto che caratterizza i suoi video più belli realizzati per artisti come Metallica, Lou Reed, Cowboy Junkies, Peter Gabriel, sviluppa un’apparente elegia dell’infanzia. Apparente perché l’utilizzo esasperato dello slow motion, contiene il gesto e la dimensione del gioco entro un’area che potrebbe dischiudere le forme stesse della violenza. Da una parte il comune impatto tra corpi che giocano e vivono l’energia migliore dell’infanzia, dall’altra una serie di segni di collocazione ambigua, tra cui la formidabile sovrapposizione tra il fascio di stelle filanti tenuto in mano da una bambina, precedentemente utilizzato come un oggetto di punizione da Natalie Merchant, durante uno dei suoi splendidi movimenti di danza. Tutta la violenza più esplicita è in effetti concentrata nei gesti della performer. La cintura, la sedia della punizione, investono gli oggetti quotidiani di un senso terribile, mentre Natalie chiude gli occhi con le proprie mani e non osa denunciare. Tutto il video allora è sospeso sul crinale del non detto, sull’ambiguità di oggetti, movimenti e segni dalla collocazione incerta. Se c’è una traccia di felicità, questa è nel trucco del tempo visivo, raggelato nello spazio impossibile e negato del ricordo.
Dopo una pausa di alcuni anni dall’industria musicale, passata ad inseguire l’ambiente della formula 1, George Harrison celebra la sua antica passione sportiva con un promo video, primo estratto dal suo nuovo, omonimo album pubblicato nel 1979.
“Faster“, le cui liriche sono in parte ispirate alla vita al limite di Niki Lauda, sospeso tra rinunce e improvvisi ritorni di fiamma dopo l’incidente del Nürburgring, si riferisce in modo più generico al costrutto di resilienza degli individui e per lo stesso musicista inglese è rivolta a chiunque si trovi a dover resistere all’interno della contrapposizione tra velocità creativa e le pressioni, anche negative, della società circostante.
Il riferimento all’industria discografica è servito lateralmente. Questa amara elegia del movimento, coincide quindi con la ritrovata energia di Harrison per la scrittura. L’amicizia stabilita nei tardi anni settanta con Jackie Stewart, tre volte campione del mondo, gli consente di frequentare l’ambiente della formula 1, amato sin dall’adolescenza, finalmente dietro le quinte delle principali scuderie e di assimilare il senso di vite al limite, che possano offrirgli un’esperienza estrema, oltre i confini della quotidianità.
Il promo viene filmato tra il 4 e l’8 aprile del 1979 dallo stesso Harrison, come vero e proprio videodiario registrato durante alcune gare automobilistiche. Tra i footage ci sono sicuramente i Grand Prix di San Palo in Brasile, quello di Kyalami in Sudafrica e quello di Long Beach negli Stati Uniti.
Presenti altri frammenti non facilmente identificabili, tra cui uno filmato con molta probabilità a Milano.
Dopo una carrellata di piloti, i cui sguardi restituiscono il senso di sospensione prima di lanciarsi in velocità, le immagini aggregano false partenze, difficili assestamenti, tenute labili, soggettive all’interno dell’abitacolo, con uno stile lontano da ciò che sarebbe diventata l’immagine della Formula 1 in televisione, più vicina quindi agli scarti tra velocità e disinnesco della stessa.
Anche l’approssimazione del montaggio, gli zoom amatoriali, l’approccio diaristico, testimoniano questa immersione soggettiva che smonta la macchina competitiva in una serie di frammenti di intima fragilità, dove l’errore, il difetto, la festa, la folla, sembrano restituire un senso incombente di precarietà.
Il montaggio stesso, abbozza alcune idee legate per lo più all’attacco tra verso e immagine, cercando nel frammento analogie tra senso e sintassi del ritmo. L’esempio più chiaro è quel “Faster than a bullet from a gun” o il successivo “Quicker than the blinking of an eye“, dove l’inserto visuale, forse memore della dimensione slapstick del cinema di Richard Lester, diventa esso stesso suono. Eppure si ha la sensazione che tutto sia incredibilmente e prodigiosamente fuori tempo, sempre un momento prima oppure successivo, come il cantato di Harrison, emozionale proprio perché nell’abbozzo di uno “scat” rallentato, la scansione dell’inciso sembra incespicare e andare ad una velocità diversa rispetto alla cronometria delle chitarre; vivo, bellissimo, è un mondo sonoro e visuale che procede ad una diversa velocità.
Alternate, le immagini in lipsync dello stesso Harrison, seduto con la sua acustica sul sedile posteriore di un veicolo, con Stewart nei panni del suo chaffeur personale.
Mentre il singolo uscì il 31 luglio 1979, il video fu trasmesso come premiere durante il mese di agosto dalla francese TF1 e successivamente, nel format sportivo World of Sport, dalla britannica ITV, a conferma di una rotazione atipica e generalista, prima ancora dell’avventura delle televisioni tematiche dedicate alla videomusica.
La frequentazione assidua con il mondo dei videoclip, per i Metallica comincia con il “Black album” del 1991. I primi lavori della band losangelina non si servono del formato a scopi promozionali, anche quando passeranno dalla Megaforce alla Elektra per la realizzazione di Master of Puppets. Il videoclip di debutto sarà “One“, brano tratto da …And Justice for all. Scelta del tutto atipica se si considera la durata del brano, vicina agli otto minuti e l’utilizzo di una performance filmata in un bianco e nero molto contrastato, montata quasi fosse la rimusicazione di un film muto. Ma le immagini non sono quelle del cinema delle origini, anche se il risultato va in quella direzione, perché provengono da E Johnny prese il fucile, l’unico film diretto dallo sceneggiatore statunitense Dalton Trumbo nel 1971, di cui saranno utilizzate per buona parte le sequenze girate in bianco e nero, esaltandone la qualità aurorale e vicina al cinema prima dell’avventura sonora. La clip fu realizzata da Bill Pope e Michael Salomon, ma originariamente fu chiesto a Wayne Isham di dirigerla.
Isham, attivo dalla seconda metà degli anni ottanta e assiduo collaboratore di Bon Jovi e Mötley Crüe, è il classico e onesto artigiano di era catodica che sfrutta spesso footage live o la ricostruzione di set ispirati all’esperienza dal vivo, con qualche brillante eccezione, come il video di Heat of the Night diretto per Bryan Adams. Quando i Metallica si rivolgeranno a lui per “One”, Isham, fan assoluto della band, non si sentirà pronto e rifiuterà l’offerta. L’occasione si ripresenterà per “Enter Sandman“, primo estratto dal “Black Album” del 1991 e primo capitolo di un lungo sodalizio tra il regista e i Metallica.
Now I lay me down to sleep, I pray the Lord my Soul to keep If i die before I ‘wake, I pray the Lord my Soul to take.
La genesi del brano, soprattutto per quanto riguarda l’ispirazione letteraria e lo sviluppo delle liriche, è una combinazione di elementi culturali che pur riferendosi direttamente alla rilettura Hoffmanniana de “L’uomo della Sabbia”, traspone quelle suggestioni dalle parti del racconto a veglia o della filastrocca per bambini di tradizione anglofona. Sicuramente il riferimento a “Now i lay me down to sleep“, nenia del diciottesimo secolo e topos ricorrente nella cultura letteraria e cinematografica statunitense, Wes Craven incluso, ma anche lo stesso video di Isham, dove la connessione esplicita con Dream Angus, figura del folk scozzese ispirata al Mago Sabbiolino che sparge granelli iridescenti sul sonno dell’infanzia, diventa l’innesco visuale per tutta la dimensione onirica della clip. Una versione apparentemente più morbida rispetto al traumatico carosello di accecamenti che attraversa il racconto dell’autore di Königsberg. Lo stesso testo scritto da James Hetfield, sarà luogo di una disputa accesa con il produttore Bob Rock e il batterista Lars Ulrich, che costringeranno l’autore ad ammorbidire l’idea originaria, legata inizialmente alla cosiddetta morte in culla, ovvero la Sindrome della morte improvvisa del lattante. Meno diretto e più astratto, “Enter Sandman” diventa un’elegia dell’oscurità, dove la genesi degli incubi infantili viene assorbita da una rappresentazione della morte associata al deperimento senile e assegnata al volto dolente di Robert Golden Armstrong Jr, caratterista americano, noto per aver interpretato figure inquietanti e violente in numerosi western dagli anni sessanta in poi e alla generazione catodica che divorava horror negli anni ottanta, per aver prestato il volto a Lewis Vendredi, nella serie televisiva ispirata a Venerdi 13.
Per realizzarlo, Isham chiede a ciascun componente della band di raccontare i loro incubi ricorrenti, le paure ancestrali, le ossessioni oniriche che si portano dietro dall’infanzia. Lo racconta anche in uno degli episodi di Video Killed the Radio star, la serie televisiva dedicata al making of dei video musicali “classici”, prodotta da Sky a partire dal 2009.
Girato nello stesso palco dove i Metallica stavano ultimando il missaggio dell’album, recupera in un certo senso lo stile di “One” per quanto riguarda la registrazione della performance, rendendola ancora più simbolica ed “espressionista”, e soprattutto collocandola nella stessa posizione narrativa rispetto all’immaginario del video. I Metallica diventano storytellers, come accadeva per esempio con la presenza costante dell’artista all’interno della narrazione nei video di Tom Petty, e dispiegano la sequenza di incubi infantili che promanano, come le loro sagome, dall’oscurità. Da “One” e dalla scansione onirica del film di Trumbo, “Enter Sandman” preleva molte suggestioni: il letto, il sogno di una vita mai stata, l’incubo della realtà, la visione della propria morte.
L’utilizzo intensivo dell’illuminazione strobo, nient’affatto rara nei video degli anni novanta, viene sfruttato per infondere una qualità transitoria alla stessa performance della band. Aspetto che serve ad esaltare l’incedere tribale del brano, ma che trasforma la presenza stessa degli artisti in un elemento puramente visuale di natura ritmica e allo stesso tempo, psichica. Del resto, i colori, le forme che si disintegrano all’interno dell’evento luminoso, i contorni che sembrano lasciare una traccia nel buio dopo la loro dissoluzione, ben si inseriscono, con mezzi diversi, in quegli sconfinamenti tra video-arte e videomusica che già erano stati al centro degli esperimenti di videopittura con il Paintbox della Quantel oppure in video seminali come Ashes To Ashes, clip tra le preferite dallo stesso Isham.
Isham è un videasta più tradizionale e lontano dalla videopittura elettronica, ma il “drop” dei fotogrammi che crea un movimento simile allo stop motion, si riflette sulle immagini narrative del video, creando un piccolo saggio, involontario o meno, sulla qualità labile dell’immagine televisiva. L’immaginario è quello cinematografico che parte dal decennio precedente, in un digest “di genere” esplicito, ma che riesce a stilizzare nel formato breve, l’essenza puramente illuminotecnica e ritmica di una fata morgana inquietante. Lo stesso volto dell’allora settantaquatrenne Robert Golden Armstrong Jr., “mostrificato” da una prostetica che accelera il tempo biologico, si sostituisce ai villain mascherati e impalpabili del cinema horror, con una riappropriazione identitaria ed esplicitamente fisica del concetto di paura, legata in fondo al deperimento fisico e mentale. Fortunatamente, non è chiaro nel video chi sia il sognatore e chi l’attore del sogno; se un bimbo che vede la propria morte, o un anziano che osserva a distanza l’infanzia di un tempo.