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Low – A Lifetime of Temporary Relief, tutti i videoclip

Per celebrare dieci anni di carriera, nel 2004 i Low mettono insieme un box di rarità e b-sides selezionate in ordine cronologico e senza applicare un filtro formale. Al contrario, tra demo, tracce comparse in alcune compilation, b-sides e altro materiale ritrovato, decidono di includere tutto lo scibile, senza alcun criterio qualitativo e allo scopo di consegnare una documentazione completa ai margini della discografia ufficiale. Una vera e propria eccedenza, il cui scopo è lasciar scegliere all’ascoltatore lungo tre CD di musica e un quarto disco DVD che raccoglie tutti i video prodotti sino a quel momento, oltre a tre documentari realizzati da Marc Gartman.
Se il recente e “invisibile” Low: Movie – How to Quit Smoking, documenta la relazione ventennale tra la band di Parker/Sparhawk con il regista Philip Harder, veterano della videomusica e autore di gran parte dei loro videoclip, la raccolta di A Lifetime of tempory relief parte dalla parentesi di Secret Name, che si riferisce ai cinque video diretti da Kristin Grieve per la band di Duluth. Realizzati tutti nel 1999 durante la promozione del quarto album dei Low prodotto da Steve Albini, seguono in parte le scelte già delineate da Harder a partire dal 1994. Approccio minimale, l’impiego di pellicole a formato “ridotto”, la presenza della band in uno spazio performativo quasi sempre ellittico. In Weight of Water e Don’t understand si replica la fotografia still life dell’artwork dell’album, con la luce sparata su parete bianca.

Weight of Water – Low – Video by Kristin Grieve
Low – Secret Name, artwork

Mentre il primo video alterna alle immagini della band alcune sequenze di macrofotografia floreale, quasi a sottolineare la comunione con gli elementi sottesa dalle liriche del brano, Don’t Understand sceglie una via più sperimentale nella relazione tra immagine e suono. Apparentemente più tradizionale, è costituito da close up della band impegnata a suonare e catturata un momento prima oppure l’istante successivo, rispetto al rimario armonico o alla deflagrazione di un cluster chitarristico. Si sviluppa a poco a poco un’asincronia basata sulla sospensione del gesto e sulla potenzialità del suono espressa da un’immagine silente. Un piccolo saggio sull’immagine sonora, svuotata dalle caratteristiche narrative che sovente spingono i video musicali nello spazio di un cinema involontariamente muto, e quindi nuovamente investita di suono.

Low – Don’t Understand – Dir: Kristin Grieve

La Grieve manipola il tempo di un found footage famigliare e passa ai dettagli della band quando il loop trascolora nell’incedere marzialmente funebre della strumentazione elettrica. Ad eccezione di brevi frammenti in lipsync, l’immagine rivela il suono proprio laddove non lo mima.

Si tratta del video più bello tra quelli diretti dalla filmmaker americana, perché segnala un rigore che non abbandonerà mai la videografia dei Low, per il modo in cui tempi e spazi della videomusica, vengono riletti attraverso i codici del cinema delle origini e di quello delle avanguardie.

Se Immune si serve in modo meno convincente di alcune intuizioni già sperimentate in Don’t Understand, Will the Night gioca con la sovrimpressione tra found footage e performance usando ephemeral movie bellici che occuperanno tutto il video di Home. Irreperibile in rete, quest’ultimo, sfrutta le immagini della guerra di Corea, utilizzando la scansione temporale suggerita dai cluster chitarristici, per manipolare il tempo dell’immagine e definire il montaggio in una forma dilatata e rallentata.

Low -Home – Dir: Kristin Grieve

La raccolta del 2004 include l’unico videoclip diretto da Marc Gartman. Dinosaur Act contrae nello spazio del brano il lavoro documentaristico del suo “Closer than that“, film di sessanta minuti che segue il lavoro dei Low in tour, tra vita professionale e vita quotidiana, spiritualità e musica. Questo è incluso nel DVD insieme al making di Secret Name e un breve documento sulle session di In the fishtank, il progetto dell’olandese Konkurrent, che ospitò i Low a registrare insieme ai Dirty Three.

Ma è la collaborazione con Philip Harder a definire un linguaggio che si affinerà nel tempo. Filmmaker attivo sin dagli anni ottanta, innamorato del super 8 e vicino ad artisti come Sonic Youth, Big Black, The Afghan Whigs, solo per citarne alcuni, comincia a lavorare per i Low nel 1994 con il video di Words, tratto da I Could Live in Hope. Filmato in 16mm bianco e nero sul ghiacciatissimo Lake Superior, tra Stati Uniti e Canada, punta sulla presenza rumorosa della grana, quasi per spingere in una dimensione opaca e irraggiungibile, le immagini della band che trascinano una piccola imbarcazione sul ghiaccio. C’è un’epicità à la Flaherty che viene alternata alla collocazione dei Low in una grande ballroom vuota, contrastata e vicina alla fotografia di Anton Corbijn. Ma sono le immagini sul ghiaccio a creare una sospensione temporale legata al suono Low, così lontano e allo stesso tempo vicino all’estetica del rumore.

Low – Words – Dir: Philip Harder

Un’altra ballroom stavolta dai colori caldi e saturi, sospesa nel tempo del ballo è quella di Shame, il video successivo diretto da Harder per i Low e tratto da Long Division. I palloncini rossi che riempiono la stanza sono gli stessi che un povero vecchio cerca di vendere per le strade di una città ostile. Le liriche allusive, suggeriscono il sentimento della vergogna come una conseguenza della solitudine e del dolore. Come accade sovente nel songwriting dei Low, i versi si risolvono nello spazio contratto di un haiku, mentre vengono dilatati all’estremo attraverso la scansione armonica e lo spettro vocale. In questo scarto paradossale del tempo, la performance dei Low testimonia una presenza tra fantasmi, mentre il vecchio risulta invisibile ad un’intera comunità. Shame è l’opposto complementare di Words, nel tentativo di costruire un’epica della solitudine, l’attraversamento di un deserto e lo spazio separato della performance a cui viene affidato lo storytelling.

Low – Shame – Dir: Philip Harder

Per The Curtain Hits The Cast, i Low scelgono Over the ocean come singolo/video e a dirigerlo è sempre Philip Harder. Girato all’interno di un edificio durante la demolizione, agita lo spazio visivo del videoritratto e lo arricchisce con una serie di nature morte in movimento. Video radicalmente diverso dai primi realizzati da Harder per i Low, in realtà prosegue il lavoro sul tempo dell’immagine come dispositivo che stacca l’esibizione della band dalla fruizione frontale tipica della retorica catodica, per immergerla in una dimensione dove il tempo si consuma, si corrompe e spezza la relazione sincrona tra immagine e suono. Il testo, una riflessione sulla mortalità e sulla persistenza dello spirito oltre la morte, risuona nella consueta contrazione/dilatazione tra parola scritta ed esecuzione, mentre il mondo materiale si sgretola.

Low Over the ocean – Dir: Philip Harder

La compilation include anche i quasi 11 minuti di Looking Out for Hope, cortometraggio che fu incluso esclusivamente nel cofanetto. Prodotto da Rick Fuller, riutilizza alcune delle immagini di Words girate sul Lake Superior, ricombinate con footage inedito, grattage su pellicola e la narrazione di Mike Nicolai che legge un racconto di Bryan Mallessa da “Voices of the Xiled“, un volume che raccoglieva venti contributi da altrettanti giovani scrittori nordamericani. Gli elementi contemplativi di Words vengono espansi ai fini della narrazione e lo spazio occupato dal rumore dell’immagine, dal grattage, dallo sporco della pellicola, dalla grana del supporto analogico, consente al suono di riempire lo spazio visivo, mentre la funzione rappresentativa si svuota.

Canada, girato nel 2002 in occasione dell’uscita di Trust, è una delle clip più divertenti e politiche tra quelle realizzate da Harder nella sua ventennale collaborazione con i Low. Anche in questo caso, lo spazio performativo è la risultante di una dimensione aberrante. Si viene a creare per un accidente che investe violentemente lo spazio visivo con la necessità di produrre un suono, proprio dove ogni elemento costitutivo viene negato. Harder rimane quindi dentro un genere, che è quello dei videoclip performativi, ma lo affronta secondo un procedimento situazionale, manipolando tempo e spazio, per dislocare l’esecuzione e disallinearla dalla centralità assegnatale da decenni di video promozionali. La videomusica, laddove è contro l’energia del rock, come ci hanno suggerito i Replacements o i Rolling Stones, viene riscritta proprio a partire da questa incommensurabilità creata dal contrasto tra dimensione live e pantomima in lipsync. Il set quindi, viene distrutto e ricombinato con la forza di un assalto elettrico.

La relazione tra Harder e i Low si concludeva qui, al tempo di “A lifetime of temporary relief”, per poi proseguire a lungo in un sodalizio tra i più interessanti della videomusica contemporanea

Low – Canada – Dir: Phil Harder

Sonic Youth – Dirty: I videoclip di Spike Jonze e Nick Egan

La seconda uscita su Geffen per i Sonic Youth corrisponde con un parziale addomesticamento della forma sonora. La produzione di Butch Vig, già con i Nirvana per Nevermind, compatta i suoni, accorcia la durata di alcuni brani e prepara la discesa della band nell’arena mainstream più di quanto non avesse fatto il precedente Goo. Sulla carta si cerca di aggiornare suoni e scelte di una band rigorosa alla nuova ondata grunge, creando un paradosso tra le radici sommerse di un fenomeno e il suo improvviso status mediale. Per i Sonic Youth, pasturati alla scuola di Glenn Branca, si tratta di un involucro apparente che non restituirà i risultati sperati in termini commerciali. L’attitudine della band non è in fondo cambiata e la ricerca sonora emerge all’interno di una dimensione più comunicativa. Un equilibrio di opposti che raggiunge l’apice e che per certi versi rappresenterà l’inizio della fine. Gli album successivi non saranno più all’altezza segnalando un declino creativo in progressione.
Dirty rimane quindi la testimonianza eccentrica di un periodo che i Sonic Youth affrontano con il bagaglio del decennio precedente. Un gap generazionale che emerge anche dal dis/allineamento politico in termini espliciti, mentre quelle stesse istanze vengono tradotte sul piano sonoro con l’urgenza hardcore dei suoni Washington DC, a cui si riferiranno per alcuni episodi dell’album. L’approccio, anche in termini di registrazione, è più selvaggio rispetto a Goo e paradossalmente, nonostante l’involucro formale di cui parlavamo, riconduce la band nel lato più selvaggio, dalle parti di Daydream Nation.

L’identità visuale, se confrontata con l’esperienza immersiva di Goo, torna ad essere concisa e più vicina alle prime collaborazioni con Dave Markey.
Goo, è bene ricordarlo, uscì anche in versione VHS come vera e propria long form. Un visual album, affidato a nomi come Tony Oursler, Todd Haynes, Richard Kern, il fedele Dave Markey e altri registi tra cui Phil Morrison e Tamra Davis. Il tentativo era quello di creare un’iconologia alt-glam, che in qualche modo giocasse con i colori, le posture e l’immagine della band veicolata anche dall’artwork dell’album.

Sono solo tre i video di Dirty, il primo diretto da Spike Jonze con la collaborazione di Tamra Davis e gli alti due realizzati da un veterano come Nick Egan.

Jonze, reduce dall’esperienza con la seminale Propaganda Films, deve ancora esplodere quando gli viene affidata la regia di 100%. Girato a Los Angeles, viene filmato dallo stesso a bordo di uno skateboard, mentre ne insegue altri per le strade cittadine. Nel video si allude alla morte di Joseph Cole, ucciso durante una rapina con alcuni colpi di pistola. Il giovane attore americano, allora trentenne, era stato a lungo roadie per i Black Flag e la Rollins Band. Il suo spirito, così vicino alla cultura di strada riemerge nei diari pubblicati postumi e anche nel video di 100%. Il montaggio alternato tra le immagini di skating, una festa a cui partecipano gli stessi Sonic Youth e la morte di un giovane, racconta lo schianto di una lost generation. Risuona quindi con la natura elegiaca delle liriche, nel definire un sentimento della fine che attraversa tutto il brano.

Il dittico Sugar Kane / Youth against fascism, viene affidato a Nick Egan, grafico, autore di artwork, veterano dell’immagine punk britannica.

Commissionato da MTV, Sugar Kane combina il gusto grafico di Egan, con il ribaltamento dell’estetica fashion. New York City è il centro pulsante di una sfilata, dove Kim Gordon, con la consulenza di Marc Jacobs, mette in scena l’incorporazione di una moda combinatoria e creativa all’interno di un contesto mainstream. Una parodia della condizione vissuta dagli stessi Sonic Youth durante la produzione di Dirty e in qualche modo, una risposta alla stessa mercificazione del grunge. Non è quindi un significato binario quello alluso dal video di Egan. A battesimo, una giovanissima e bellissima Chloë Sevigny, nella fase aurorale della sua carriera, a due anni di distanza dal debutto con Larry Clarke, in Kids. Immagine dello scandalo, rappresenta il limine alieno tra i due mondi. Non è un caso che Egan recuperi l’estetica di Mick Rock e rilegga Jean Genie, alla luce di una rifondazione glam intesa come rottura dei codici urbani condivisi, mentre la figura dell’outsider emerge come nuovo riferimento generazionale e identitario. Il fatto che una parodia di Marylin venga associata alla piccola Jean Genie nel video di Rock e che il titolo del brano dei Sonic Youth si riferisca al personaggio interpretato dalla Monroe in “A qualcuno piace caldo” non è una connessione semplicemente suggestiva. Il magma mediatico contiene il germe della sua distruzione, così come l’opacità dell’immagine divistica si infrange con una rilettura capace di piazzare una mina nel cuore della rappresentazione. C’è una linea, nella discografia e nell’iconologia dei Sonic Youth che colloca Marylin, Madonna, Karen Carpenter, Carrol Baker e altre icone di consumo, in un dolente crepuscolo degli dei e allo stesso tempo nel solco di un incontenibile vitalismo erotico.

Meno conosciuto degli altri due, almeno nella rotation italiana programmata dal nostro convento, Youth against fascism è il secondo video diretto da Nick Egan per la band di Moore/Gordon/Ranaldo/Shelley ed è quello maggiormente in linea con l’estetica del regista britannico, tra elementi cut-out, collage e dimensione politica, tipica dell’immaginario punk. Egan realizza una vitale contaminazione tra performance e stop motion, innestando brandelli di grafica impazzita nel corpo stesso della jam. Kim Gordon che spara fiori animati da un fucile a canne mozze è una delle immagini più belle dell’intera videografia dei Sonic Youth e in qualche modo ribalta il senso di un’altra molto simile, legata al cinema estremo ed hardcore di Richard Kern, presente nel video di Death Valley 69. La violenza necessaria contro il sistema patriarcale, si rovescia nel rifiuto di qualsiasi pulsione distruttiva. L’anti-fascismo dei Sonic Youth è la negazione dell’anthem, il rifiuto delle posture combat rock, una militanza che si esprime nei termini negativi di una canzone da odiare.

Il Rumore del Bianco, Videogame

La definizione di post-rock delineata nei primi anni novanta da Simon Reynolds sulle pagine di The Wire, non mi ha mai convinto. Utile alla stampa di settore per individuare una “nuova” stagione creativa, circoscritta dalle ricuciture critiche britanniche a partire da un brandello del continente sonoro statunitense, tagliava fuori con una scellerata operazione chirurgica il diverso dinamismo di tutta l’avventura post-punk fuori dai confini della terra d’Albione, pensando di aver incontrato una dimensione aliena. Ecco che un orecchio più allenato a respingere categorizzazioni rischiose e banali, dopo aver già individuato quei principi di contaminazione e convergenza in The Bumper Crop dei Pell Mell, si guardava bene dall’impiego del termine “rivoluzione” durante l’ascolto dei primi due album dei Tortoise, né gridava al miracolo lasciandosi trascinare dall’innegabile intensità di Sang Phat Editor e del successivo Talker a firma U.S. Maple, se tredici anni prima, spulciando nel vasto catalogo SST, aveva accolto l’oscura seduzione dei Saccharine Trust, esperienza sonora tutt’ora apolide e fortunatamente sfuggente, nel crocevia tra hardcore, blues, improvvisazione, inserti jazz, attraversato con una concisione diversa rispetto a tutta la parabola Ginn/Baiza, incluso il divertissment informale di October Faction.

Spiace per un’intera generazione che si era svegliata allora, ma quel “post” era segno di vitalità per ragioni opposte rispetto all’assimilazione di un metodo. Applicate pedissequamente nelle produzioni “alternative” del belpaese fino ai primi dieci anni del nuovo millennio e oltre, quelle intuizioni sono diventate la cancrena critica di un avamposto sin troppo specifico, laddove il processo stesso avrebbe dovuto minare proprio il rischio di specificità.

“Post”, nell’accezione indagata da Richard MacKay Rorty, prende forma nel suo continuo sfuggire alla stessa. La dinamica è quella conversazionale, come agente di crisi della filosofia rappresentativa. Si sostituisce quindi la dimensione analitica, con la capacità combinatoria di creare nuovo significato, nell’interazione tra diverse metafore della realtà che si basano sulla ri-contestualizzazione del pensiero occidentale. Il contrasto è tra la griglia epistemologica e quella ermeneutica, a favore delle sollecitazioni incommensurabili della seconda.

Ecco che il noto inciso di Simon Reynolds, “post rock è l’utilizzo di una strumentazione rock per scopi non-rock“, risulta angusto e quindi misurabile, se inteso alla lettera, come definizione di un “genere”. Può invece aprirsi ad un vitale slittamento formale, sempre “post” rispetto all’oggetto di riferimento, se si fa carico di un’osservazione situata e allo stesso tempo diacronica, di “tutta” la Storia del “rock” assimilabile dall’esperienza soggettiva, come fattore radicalmente inclusivo.

Questa non misurabilità e unicità dell’esperienza emerge chiarissima dalla conversazione che ho avuto con Sam Prekop in occasione dell’uscita di uno degli ultimi lavori come The Sea and Cake, dove lo sguardo su Chicago, non è descritto solamente come memoria di una stagione creativa feconda e quindi da preservare, ma percezione di una città mutante. Prekop esprime questa potenzialità tra artwork e songwriting, cercando una possibile neutralità delle forme, e lavorando il materiale grezzo con un processo che interpreti soggettivamente forze intrinseche legate all’oggetto osservato.

Nell’insieme di sonorità che hanno caratterizzato la stagione creativa di cui stiamo parlando, il disinnesco delle strutture musicali tradizionali avviene per ragioni diverse, che possono essere riassunte nella progressiva riscrittura dei confini legati all’economia di un brano: per durata, sovrapposizioni, tecnica strumentale, dialogo tra mondi e generi distanti, decostruzione delle gerarchie storico-critiche, scambio simbolico tra diverse tradizioni.

In tal senso, una delle esperienze più potenti del nuovo millennio è per chi scrive quella dei Tahilandesi Senyawa, sul tavolo autoptico della stampa europea con colpevole ritardo nonostante diversi lustri di attività alle spalle, per ribadire la funzione dinamica, anche in termini critici, del “post”, come reattività sempre al di qua dei confini di riferimento, in anticipo e in una posizione di retroguardia, allo stesso tempo.

Tranne rarissime eccezioni (Massimo Pupillo con FM Einheit, qui il documentario prodotto da Indie-eye, Eraldo Bernocchi, qui il podcast realizzato in collaborazione con indie-eye) le produzioni italiane si sono raramente inserite in questo solco dinamico e anti-autoritario, preferendo al contrario una vera e propria fascistizzazione del linguaggio, con riferimenti precisi, rivendicazioni, appartenenze, suoni e replicando, spesso in modo imbarazzante, un territorio già sepolto nello spazio circoscritto da un’uscita, figuriamoci nei margini più ampi di un’intera stagione discografica. Del resto, fuori dallo spazio locale, l’incisività di questi progetti e della stampa che li ha voluti sostenere, non ha acceso alcuna scintilla, se non quella di un’autoreferenzialità che ha anticipato, negativamente, il rimbalzo tra bolle e presidi socialmedia. Una terra popolata da morti.

Allora, più irritante dell’appartenenza o della “metafisica della presenza”, l’espropriazione senza possibilità d’uscita, fuoco d’artificio di una trascendenza negativa che si specchia nel carosello dei rimandi, già riprodotti dalle intelligenze artificiali, dagli algoritmi di Spotify, dalle correlazioni su Youtube, come fantasmi sottoposti ad una possente operazione di calcolo. Chiusa in se stessa e già parte dell’esperienza di isolamento prima della pandemia, è il frutto di un’espansione infinita delle capacità di archiviazione, dove manca, per farla con Byung-chul Han, la dimensione emozionale.

Posto che la scelta anti-emozionale possa sollecitare una riflessione interessante sullo statuto del suono e dell’immagine, da queste parti preferiamo il rituale, anche violento, amorale, estremo, fuori dai margini imposti dall’ecologia della reverie pluridisciplinare, dentro la materia o nel confronto, traumatico con tutte le negazioni possibili della stessa. Alcuni nomi illustri capaci di creare altre vie per un “ambient” non riconciliato, tra corpo, fonema e dispositivo? Stefania Pedretti, Chiara Guidi insieme a Blixa Bargeld, intervistati su queste pagine.

Al contrario, non mi sembra ci sia logica della differenza nel territorio descritto dai liguri Il Rumore del Bianco, ma una prigione che aggrega carcerati, quella costruita sull’illusoria riserva della musica indipendente, metodologie compositive incluse. Non ci è mai interessato questo appartamento soffocante, maledettamente italiano, non lo abbiamo mai considerato “liminare”, cioè capace di mettere in crisi il concetto stesso di identità, perché casomai ha rappresentato, in molte occasioni, esattamente il contrario. Né può essere oggetto di discussione ciò che non è mai esistito, se non per l’autolegittimazione di un “dialogo” tra critica e creazione, che si stabilisce per dinamiche affettive entro confini davvero risibili. Alcune anime belle ci hanno creduto, complice una stampa clientelare, ma dal respiro cortissimo. Nella coazione a ripetere di un videogame sviluppato nella provincia dell’impero, si ripropongono, dall’isolamento, combinazioni già definite dal lavoro post-umano di BaRT. C’è differenza? C’è logica dello scarto? C’è un difetto, un sabotaggio del continuum sonoro digitale?

In tal senso, Videogame è una clip esemplare, proprio nella reiterazione dell’apice. Orgasmo senza coito: feticizzazione dei dati.

Il Gruppo Regione Lazio del SNCCI – Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e FRED Film Radio annunciano la partnership a partire dal Numero Uno di The Dream Syndicate il podcast del SNCCI che debutterà dalla prossima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

L’idea di creare un podcast esprime il desiderio di “raccogliere” gli highlights dagli eventi dell’associazione, le interviste esclusive, e soprattutto le voci dei critici che commentano e recensiscono le uscite dei film più significative. Uno spazio critico importante anche al racconto del mondo dei festival visti dall’interno e dal dietro le quinte. La sigla di apertura è “Videogame” de Il Rumore del Bianco, per gentile concessione della band”, dichiara il Team di lavoro del Gruppo Regione Lazio del SNCCI.

Il Rumore del Bianco:
Andreas Amaro, Francesco Torre, Marco Romagna, (Carlo Gibellini, Domenico Punturiero).

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Brano scritto, arrangiato e prodotto da: Il Rumore del Bianco presso Waves Music Center

Video scritto, diretto e montato da Il Rumore del Bianco
(M. Romagna)

Traccia dal nuovo albumLuccicanza

MANICAs feat. Dandy Bestia – Pinocchio con il frac: il videoclip di Luciano Attinà

Luciano Attinà è un archeologo dell’immagine. Meno preoccupato di costruire un’estetica “bella” e in sintonia con le sollecitazioni contemporaee, si muove tra cinema, documentario, vere e proprie pulsioni underground e recupera lo spirito di un’immagine perduta, nell’atomizzazione degli archivi digitali. Qui su Indie-eye abbiamo ospitato più di una volta i suoi lavori, dal fulciano Night of the Living Deathmaches, fino al bellissimo “videoggetto” realizzato per Egestas, Trafficanti di Ombre.
Questa volta lavora per la band bolognose MANICAs, mettendo insieme un vero e proprio throwback so nineties. Immagine ritrovata in una misteriosa VHS e registrata dal segnale incerto di un’emittente misteriosa: MUSIC MATCH – TV.
Un gioco ovviamente, ma che si riferisce in modo esplicito alle numerose digitalizzazioni spontanee che negli ultimi anni hanno popolato Youtube, offrendo nuova vita a quei video realizzati in contesti produttivi precari, in piena era catodica dei videoclip.
Pinocchio con il Frac” promuove il nuovo album dei MANICAs, intitolato “Posh Punk“. Nella clip, un cameo di Fabio Testoni, meglio conosciuto come Dandy Bestia, chitarrista e fondatore dei fondamentali Skiantos.

Luciano Attinà e il making of di Pinocchio con il frac – l’intervista

Come è nata l’idea del video?

Il video Pinocchio col frac, dei MANICAs nasce dall’idea, elaborata da me e Andrea, frontman del
gruppo, di ricreare una certa atmosfera visiva: quella delle prime tv musicali italiane, risalenti agli
anni novanta.

E come hai fatto a riferirti a quell’aura televisiva?

Ho agito di conseguenza utilizzando una videocamera HD televisiva, in grado di
restituire immagini nitide, ma al contempo sporche, con un’alta percentuale di rumore, aumentato
all’uopo in postproduzione.

E in termini estetici?

L’estetica per la messa in scena invece è stata quella tipica dei primi video musicali, dove si valorizzava la performance degli artisti. Ho scomposto l’esibizione dei MANICAs tramite un montaggio serrato e ritmato che desse un’aggressività punk, per creare un contrasto con l’aspetto più melodico della canzone. Tenendo presente il concept dell’album, Posh Punk, ho cercato di unire l’estetica underground D.I.Y. a un’illuminazione espressiva, che invece richiamasse l’aspetto più pop della band e i loro riferimenti video-musicali, come Verdena e Fluxus.

E il pupazzo di Pinocchio?

L’inserimento di un pupazzo di Pinocchio che si muove attraverso la stop motion dà la chiave di
lettura del tutto. Dandy Bestia appare come un uomo stanco e abbattuto, che attraverso l’avatar del
burattino si ritrova in una dimensione onirica dove la musica diventa simbolo dell’inconscio. Un
inconscio che spinge a rimanere un Pinocchio, un burattino per sempre bambino impertinente che
non vuole accettare le responsabilità della crescita e quindi del mondo adulto e borghese. Anche al
prezzo di condannare la propria vita a quel nichilismo e vuoto esistenziale raccontato dal brano.

RAPSOdiSMURINA – Alice Toys: il videoclip visionario di Noemi Gentiluomo

Laureata in Cinema, Televisione e produzione multimediale, Noemi Gentiluomo ha fatto esperienza in ambito fotografico con lo studio delle tecniche di impressione fotografica e quelle di stampa ai sali. Sulla base di questo apprendistato, nel 2015 fonda il collettivo Pigments Alternative Photography, con il quale approfondisce tecniche di ripresa antiche, legate alla fotografia stenopeica e alla cianotipia. Formatrice e promotrice di iniziative legate al suo settore creativo, comincia a lavorare sui set a partire dal 2019, tra fotografia, documentario e videoclip. Proprio in quest’ultimo contesto, è assistente alla regia di Alessandro Scippa, per il video del cantautore Canio Loguercio intitolato “Maliziusella”, dove hanno partecipato Moni Ovadia, Cristina Donadio, Nando Paone e Roxy in the Box.

La sua prima esperienza di regia arriva con i RAPSOdiSMURINA, la band costituita da Walter Smurina, Federico Eugenio Nespola e Daniele Fallarino, con cui collabora in due occasioni. La prima volta per un progetto nato un anno fa, quando l’artista romana è stata contattata dalla band per la realizzazione di un video performativo da girare in uno studio di registrazione. In occasione dell’uscita del nuovo album della band, intitolato IF, le viene commissionato un altro video, a carattere narrativo. “Alice Toys” ha quindi il compito di veicolare il concept album dei RAPSOdiSMURINA, album interamente declinato al femminile ed ispirato ad alcune figure della letteratura e della mitologia.

RAPSOdiSMURINA – Alice Toys, il videoclip diretto da Noemi Gentiluomo

Alice Toys, il making of del videoclip

Il brano è ispirato all’Alice di Lewis Carroll – ci ha detto Noemi – e proprio per questo ho scelto di mantenere la dimensione allucinata e onirica del testo originario, anche della stessa canzone, ugualmente visionaria. Ho quindi raccontato un sogno nel sogno, un viaggio immaginario intrapreso da una donna adulta che fantastica di tornare bambina e che servendosi di una pozione magica, viaggia a ritroso nel tempo, ritrovandosi smarrita in un bosco, dal quale però alla fine non riesce più ad uscire. L’oggetto magico che compare a metà e alla fine del video, rappresenta il trait d’union tra queste due dimensioni: la pietra preziosa che rivela alla giovane alice un mondo di visioni e sensazioni inaspettate, è la stessa che viene gelosamente custodita da Alice adulta, il “gioco” di cui non può più fare a meno, che le permette di ritornare ciclicamente sui suoi passi, sdoppiandosi in una realtà parallela, in un loop ossessivo senza soluzione di continuità

Alice Toys, il backstage del video

Noemi collabora con Leonardo Birindelli, videomaker e montatore, che l’aiuta a perfezionare lo storyboard e che si impegna direttamente come aiuto regista: “Proprio con Leonardo – ci ha rivelato – sono state decise le inquadrature da realizzare e la cifra stilistica che avrebbe caratterizzato il lavoro, ovvero l’idea di “sporcare” le immagini coerentemente con la visione alterata, distorta delle due protagoniste. Questo ci ha spinto ad optare per il fuori fuoco come leitmotiv concettuale e codice visivo per tutta l’intera narrazione. Così come l’uso di gelatine dai colori “acidi”, l’idea di ridurre lo shutter speed per ottenere il classico effetto del motion blur o ancora la scelta di girare per strada di notte, consentendo alle luci della città di illuminare naturalmente la scena, con un effetto bokeh ottenuto grazie agli obiettivi vintage e a diaframmi aperti al massimo, sono tutte soluzioni che ci hanno permesso di accentuare la dimensione onirica del racconto

Noemi Gentiluomo al lavoro sul set di Alice Toys, il videoclip

“Alice Toys” viene realizzato con un budget di sole 500 euro concentrando alcune figure professionali normalmente presenti sul set nella persona di Leonardo Birindelli, come abbiamo già detto aiuto regia, ma anche operatore. Blue di Ruzza, seconda operatrice, si è occupata anche della supervisione ei costumi, mentre Noemi Agus, assistente alla regia, ha svolto anche il compito come fotografa di scena.

Io mi sono occupata della camera in alcune scene – ha precisato Noemi – e anche del set di Luce

Alice Toys, backstage

Il video, che ha un taglio fortemente cinematografico, è interpretato da due attrici professioniste che con entusiasmo hanno aderito al progetto: Andrea Volejnikova – Alice adulta, e da Vike Komorebi. Si sono invece occupate della post-produzione Serena Paglino, che ha strettamente curato il montaggio, mentre la color correction è stata affidata a Giulia Papacci.

Noemi Gentiluomo, fotoritratto di Anna Faragona

Eminem & Snoop Dogg – From The D 2 The LBC: il video d’animazione di James Larese

James Larese, pluripremiato artista visivo losangelino, ha storia e curriculum di un certo peso, considerato che i suoi esordi nell’arte figurativa, gli hanno consentito di esporre i suoi lavori all’interno di selezionatissime gallerie globali, già dalla metà degli anni novanta. La regia e lo storytelling sono arrivati nel secolo successivo, tanto da spingerlo a creare contenuti per grandi network come Disney, HBO ed MTV oltre ad una serie di brand importanti per la parte di advertising.
I video musicali che Larese ha realizzato sono più di 200, grazie ad un parterre di collaborazioni notevolissimo, che include Sting, Alicia Keys, Kanye West ed Eminem. Torna quindi a collaborare con l’iconico rapper statunitense, per la join insieme a Snoop Dogg e imbarca nel progetto veicolato dalla London Alley anche lo studio newyorchese di animazione noto come Nathan Love, che per l’occasione elabora un cartoon dal sapore 2D, vicino ad una certa estetica Nickelodeon inizio anni novanta, quando il network trovò nuove strade espressive dopo un periodo sbiadito, con la serie dei Nicktoons. Con ampi riferimenti al mondo del fumetto, la clip di From The D 2 The LBC segue la velocissima cronometria dello spoken word, creando una realtà parallela che promana dalle liriche e che genera un mondo visuale in continua mutazione, nello spirito dei migliori esempi d’animazione, sospesi tra elementi figurativi e lo sfaldamento della forma nel gioco delle infinite possibilità.

Eddy Luna – What’s The Difference: il video diretto da Roisino

Roisino, regista e direttrice creativa, oltre all’attività come stilista, ha integrato in modo proficuo quella di videomaker, realizzando branded contents e un buon numero di videoclip, quasi tutti prodotti in collaborazione con la scena femminile britannica legata all’R&B. L’ultimo lavoro della regista londinese conferma la sua capacità di costruire videoritratti pop all’interno di ambienti ridotti che in qualche modo replicano la prospettiva homemade dei video-selfie o dei contenuti diffusi sulle piattaforme social. A questa intimità confidenziale, Roisino aggiunge una notevole capacità di astrazione, elaborando universi pop di grande impatto cromatico. Nel video realizzato per il bel singolo di Eddy Luna, lanciato su Vevo Originals, estremizza il lavoro di distorsione sulle ottiche, inventandosi uno spazio “portabile”, intimo ed espressionista.

Bring me the horizon – sTraNgeRs: il video di Thomas James

Thomas James è un pluripremiato regista britannico, parte della scuderia OB Management e autore di alcuni dei videoclip più visionari degli ultimi anni. Dopo aver collaborato con artisti del calibro di Young Fathers, Bobby Gillespie, Jehnny Beth, Fat White Family, Paloma Faith, Sam Fender, Nothing But Thieves, Ghostpoet e Bring me the horizon, torna a lavorare con quest’ultimi per il video di sTraNgeRs, trasmesso in anteprima lo scorso 6 luglio su Youtube, per promuovere il nuovo tour della band di Sheffield.
Mentre continua a lavorare con oggetti, props e forme desunte dall’immaginario cinematografico prostetico degli anni ottanta, integra vfx in una personale rilettura dell’universo immaginale di Chris Cunningham, aggiungendo una dimensione maggiormente legata alle performing arts e alle forme mutanti dell’arte digitale. Elabora quindi un’immagine fluida, legata al mondo poetico della band britannica, dove molteplici identità parassitarie individuano quel territorio del limite, che consente il passaggio da un genere all’altro, da un corpo alla sua dissoluzione. Tra psiche e sollecitazioni post-umane.

Yves Tumor + Varg2Tm @ Ultravox – Firenze 10-7-2022. La recensione del concerto

Quando Jonas Rönnberg attacca con la techno brutale di Sex & Drugs & House, rielaborando suoni e prospettive di un anthem dei D-Devils, il suo set ha raggiunto l’apice e il pubblico fiorentino occupa già tutto lo spazio dell’anfiteatro davanti al palco. Varg2Tm ha macinato fino a quel punto sonorità che provengono dal passato e dal futuro della club music, interpolando ritmi breakbeat, jungle, inserti più industrial, per avvolgere tutto quanto in un viaggio sensoriale che dell’ambient mantiene la dimensione avvolgente e tridimensionale. Si balla, ma si può anche meditare sugli spalti, lasciandosi guidare dall’alchimia di questo abilissimo producer.

Appena esce di scena, un cluster sporchissimo di rumore saturo tinge la serata con toni e colori apocalittici, siamo già nel regno che sarà occupato da Yves Tumor, preciso come un orologio, al centro del palco alle 22:30 con i consueti quattro membri della sua band: Chris Greatti posseduto dal demone di Mick Ronson e impegnato in posture hair metal, la ieratica Gina Ramirez al basso, Rhys Hastings, davvero una sorpresa con il suo drumming potentissimo e Yves Rothman ai samples e all’elettronica, responsabile di tutto quel paesaggio sonoro che perturberà ogni possibile aggancio alla tradizione.

Yves Tumor sembra omaggiare il Prince di 1999, per attitudine e immagine. Ma l’intensità è diversa, perché manterrà una distanza ocura, eseguendo un set di un’ora, dritto come un fuso e al centro di questo mélange tra R’N’B, post-punk e improvvise esplosioni glam rock, affidate interamente ai giochi di Greatti, vero e proprio show nello show.

La proposta sorprende per concisione, nonostante i presupposti la musica di Yves Tumor non deborda e tutte le suggestioni descritte, rimangono entro un recinto che privilegia per certi versi l’oscurità, anche illuminotecnica, del primissimo Tricky.

Jackie apre le danze con quella cronometria minimale che assesta il tono, si prosegue quindi privilegiando l’ultimo Ep, The Asymptotical World e Heaven to a Tortured Mind, il full lenght più recente.
Ridottissimi gli episodi tratti dal precedente Safe in the Hands of Love, mentre la presenza di un inedito incendiario intitolato Operator, caratterizza un set che non differisce da altre date europee.

L’apice viene raggiunto con Kerosene!, dove la voce di Diana Gordon non viene sostituita da quella della Ramirez, attivissima in altri brani. La Gordon diventa quindi un sample manipolabile dagli interventi di Rothman, che a un certo punto ne distorce la linea vocale, la rende irriconoscibile, la suona come uno strumento sintetico. Esempio peculiare dell’impostazione di tutto il progetto, anche quando Greatti prende la scena e fonde gli anni settanta con il noise di vent’anni dopo. In quel caso lo strumento suonato non sostituisce, per attitudine, l’estetica del sample, elaborando un discorso combinatorio e creativo molto simile alle decostruzioni elettroniche, pur mantenendo al centro un forte impatto spettacolare e “live”.

Tumor sembra intimidito da un pubblico attentissimo, ma non esattamente reattivo. Il contesto è diverso da quelli dove si sono alternati mosh dancing e stage diving, anche se un piccolo bagno di folla viene accennato, per rientrare subito dopo nello spazio della maschera.

Ipnotico, etereo e improvvisamente violento, rielabora la quintessenza di alcuni generi e li traspone in una dimensione psichica e astrale. Dentro questo viaggio, Yves Tumor può essere alternativamente Prince, Grace Jones, una diva fluida, oppure recuperare il pompino elettrico di Bowie sulle sei corde di Ronson, fottendo le due punte della chitarra offerta in modo promiscuo da Greatti.
Chi partecipa, se può, dovrebbe abbandonare ogni freno inibitorio.


Felt – A decade in music, la collection completa

Dei seminali Felt, la band britannica il cui sound deve molto alla straordinaria chitarra di Maurice Deebank, Cherry Red è dal 2018 che propone edizioni speciali, cofanetti deluxe, vinili da collezione, recuperando alcuni degli album fondamentali del combo di Water Orton formatosi nel lontano 1979.
Lungo gli anni ottanta, i Felt pubblicarono ben dieci album tra il 1982 e il 1989, con una formazione che si è arricchita nel tempo, ma che ha tenuto al centro, oltre alla chitarra di Deebank ispirata agli aspri florilegi di quella di Tom Verlaine, anche la voce di Lawrence Hayward, semplicemente indicato come Lawrence.
L’ultima iniziativa editoriale di Cherry Red Records raccoglie tutte e dieci le releases in una versione CD standard e con un artwork essenziale curato dalla Shanghai Packaging Company. Le versioni sono quelle rimasterizzate a partire dai master analogici, curate dallo stesso Lawrence insieme a Kevin Metcalfe.
Ottimo risultato in termini sonori, che si sente soprattutto per quanto riguarda lo storico “Ignite the Seven Cannons“, quarto album della band pubblicato nel 1985 e prodotto da Robin Guthrie dei Cocteau Twins. Parzialmente soddisfatti del risultato, Lawrence e Metcalfe hanno sistemato i missaggi restituendoci un suono più vicino alle intenzioni originarie della band. Ricordiamo che “Ignite the seven cannons” include la bellissima “Primitive Painters“, con un bel cameo di Elizabeth Frazer alla voce.

Nel nostro video abbiamo preso in esame due album della collezione integrale 2022 che li comprende tutti e dieci, ovvero “The Splendour of fear“, seconda release dei Felt datata 1984 e il già citato “Ignite the seven cannons“, quarto album pubblicato l’anno successivo.

Felt, a decade in music – la collezione completa. Il video unboxing di “The splendour of fear” (vol 2 – 1984) e “Ignite the seven cannons” (Vol 4. – 1985)

Cherry Red propone un’offerta bundle per chi decida di acquistare tutti e dieci i CD della collezione FELT 2022, proponendo il dieci per cento di sconto sul prezzo complessivo. Per accedere all’offerta è sufficiente scegliere tutti e dieci i CD relativi alle reissue 2022.