Dei seminali Felt, la band britannica il cui sound deve molto alla straordinaria chitarra di Maurice Deebank, Cherry Red è dal 2018 che propone edizioni speciali, cofanetti deluxe, vinili da collezione, recuperando alcuni degli album fondamentali del combo di Water Orton formatosi nel lontano 1979. Lungo gli anni ottanta, i Felt pubblicarono ben dieci album tra il 1982 e il 1989, con una formazione che si è arricchita nel tempo, ma che ha tenuto al centro, oltre alla chitarra di Deebank ispirata agli aspri florilegi di quella di Tom Verlaine, anche la voce di Lawrence Hayward, semplicemente indicato come Lawrence. L’ultima iniziativa editoriale di Cherry Red Records raccoglie tutte e dieci le releases in una versione CD standard e con un artwork essenziale curato dalla Shanghai Packaging Company. Le versioni sono quelle rimasterizzate a partire dai master analogici, curate dallo stesso Lawrence insieme a Kevin Metcalfe. Ottimo risultato in termini sonori, che si sente soprattutto per quanto riguarda lo storico “Ignite the Seven Cannons“, quarto album della band pubblicato nel 1985 e prodotto da Robin Guthrie dei Cocteau Twins. Parzialmente soddisfatti del risultato, Lawrence e Metcalfe hanno sistemato i missaggi restituendoci un suono più vicino alle intenzioni originarie della band. Ricordiamo che “Ignite the seven cannons” include la bellissima “Primitive Painters“, con un bel cameo di Elizabeth Frazer alla voce.
Nel nostro video abbiamo preso in esame due album della collezione integrale 2022 che li comprende tutti e dieci, ovvero “The Splendour of fear“, seconda release dei Felt datata 1984 e il già citato “Ignite the seven cannons“, quarto album pubblicato l’anno successivo.
Felt, a decade in music – la collezione completa. Il video unboxing di “The splendour of fear” (vol 2 – 1984) e “Ignite the seven cannons” (Vol 4. – 1985)
Cherry Red propone un’offerta bundle per chi decida di acquistare tutti e dieci i CD della collezione FELT 2022, proponendo il dieci per cento di sconto sul prezzo complessivo. Per accedere all’offerta è sufficiente scegliere tutti e dieci i CD relativi alle reissue 2022.
Il nome di Vasilisa Forbes ha un certo peso nel contesto londinese. Nota per aver diffuso la provocatoria campagna di advertising #waxchick, si è distinta subito per un discorso specifico all’interno del mondo fashion, legato alla percezione del corpo femminile all’interno della comunicazione pubblicitaria tout court. Da quel momento in poi la Forbes ha associato il suo nome a forme di advertising etico, dove l’elemento promozionale si connette a modalità politiche e di cambiamento sociale. I suoi videoclip, coerentemente, mettono al centro il corpo come veicolo identitario multipolare, con un approccio fortemente fotografico e quindi non uscendo mai dal “limbo” della performance in studio. Ad un’innegabile forza “still life” per quanto riguarda i colori e l’identificazione di figure liminali, corrisponde però un approccio al territorio videoclip ancorato al linguaggio pop di 40 anni fa. Oltre alla collaborazione con Pixey, per la quale ha prodotto una serie di video, tra cui il recentissimo Come around (sunny day), quello di Pale Waves è un altro nome ricorrente nella sua filmografia. L’ultimo video diretto in ordine di tempo per la band britannica è quello di Jealousy, versione bianconero del precedente Lies, dove l’esteriorità punk da fashion movie della vocalist Heather Baron-Gracie, viene riletta, secondo la stessa Forbes attraverso la fotografia monocromatica del grande artista irlandese Bob Carlos Clarke. I temi sono quelli che negli anni novanta influenzavano l'”express yourself” della videomusica, soprattutto per quanto riguarda la serie di foto del filone fetish, latex e Bdsm. La differenza con l’arte di Clarke è flagrante, tanto “sporco” e immediato il metodo dell’artista irlandese, capace di calare il suo sguardo impudico negli ambienti di riferimento, tanto controllato il video della Forbes, secondo una tendenza patinatissima che nel connubio tra fashion movie e video musicale, tende a favorire la versione per le masse di quel mondo, dove il confine tra identità e mercato, atomizza la prima e potenzia il secondo.
Hannah Featherstone, pianista francese di derivazione classica formatasi attraverso l’esperienza nella musica sacra, pubblica il singolo di You Belong, estratto dall’album “Ode To The Unseen“, pubblicato su etichettaAnother Music Records, con distribuzione Believe Music. Estienne Rylle, che ha prodotto anche il disco, dirige un suggestivo videoclip girato all’Eglise Temple Du Marais di Parigi. Ispirato ad una scena de “I miserabili” di Victor Hugo, quella dove il vescovo dice a Jean Valjean “tu appartieni al bene”, è una disamina interiore sulla percezione che gli altri pensano e dicono di noi, alla ricerca della vera essenza. Il video, che si lega strettamente al talento performativo della Featherstone, restituisce la forza immersiva dei suoi concerti, dove lo spazio contemplativo destinato all’ascolto, è al centro dell’esibizione.
“Nel cuore di una Chiesa sotto restauro – ci ha detto Estienne Rylle – Hannah lascia posto alla luce. Spazio e tempo si scontrano e si animano. Non rimane altro che catturare la fragilità di questo momento, in cui le ferite di una chiesa barocca, incontrano l’introspezione di un’artista. La lente poetica concilia tutto, e la voce di Hannah risuona come un respiro vibrante. Come se sussurrasse alla vecchia pietra attaccata ad un telaio di ferro: potresti esser ferita, fragile, ma il rinnovamento è in arrivo. Presto le impalcature non saranno più necessarie. Un live introspettivo con una performance che grida con urgenza all’essenza del divino. Con delicatezza penetra nelle volte di ferro che costituiscono le nostre impalcature. Potrebbe essere la grazia che filtra?“
Estienne Rylle ha girato il video collocando su un gimbal una BMPCC 4K con obiettivi 35mm Carl Zeiss e Takumar 135mm. “Sembra un’intrusione – ha aggiunto il produttore e regista – sembra fuori posto in un luogo sacro. Tuttavia Hannah ci accoglie, mentre il tempo si ferma e la sua preghiera viene messa a fuoco”
Indie-eye presenta in anteprima esclusiva il video live di You Belong, diretto da Estienne Rylle
Hannah Featherstone ha lavorato come cantautrice e autrice per artisti di livello internazionale come MaJiker, Federico Ferrandina, Steven Faux. L’incontro con Estienne Rylle ha infuso un elemento elettronico alle sue composizioni pop. Si è esibita sui palchi più importanti di Parigi, tra cui l’Olympia, lo Zénith, il Sunset/Sunside, il Collège e Bernardins, partecipando anche ai principali festival francesi ed Europei tra cui TedXTalks, Il festival di Bath, il Fringe Festival di Edinburgo. Dopo aver partecipato all’edizione francese di The Voice, ha stabilito un contatto strettissimo con il suo pubblico.
Estienne Rylle è regista e musicista. Ha studiato cinema al liceo e musicologia alla Sorbona, prima di avventurarsi nella vita professionale con il suo studio creativo. Regista, compositore, produttore musicale e direttore artistico nella musica, nella moda e nell’arte contemporanea. Ha realizzato un documentario sul padre, il pittore Fabrice Rebeyrolle, selezionato per l’edizione 2022 del Marché International du Film sur les Artistes Contemporains. Con il cortometraggio APORIA, è stato selezionato al Corner di Cannes 2022. Per Rylle, tutto questo è il frutto di un’opera d’arte completa e immersiva, dove sperimenta una dimensione spirituale e collaborativa.
A due anni di distanza da “Proud of My land”, i Maieutiké tornano con un nuovo singolo, allontanandosi dai toni e dalla forma che radicava fortemente la musica della band cilentana alle origini e alle città della regione. Il post-lockdown ha spinto gli artisti di Agropoli a ritrovare la perduta alchimia delle session in studio, elaborando un discorso che parla di connessioni, così vicine e così lontane nell’ecologia dei social network.
Nello sviluppo del brano viene coinvolto il Maestro Angelo Loia, arrangiatore e chitarrista classico, punto di riferimento per la canzone d’autore cilentana. Gli arpeggi del brano sono i suoi e anche l’arrangiamento degli archi, curato insieme a Kameliya Naydenova e Natalia Dubiel al violino, Alessandra Gallo alla viola e Manuela Albano al violoncello.
Il video, diretto da Guns for Bunnies Productions, la realtà audiovisiva di Denise Galdo, è stato girato interamente con un cellulare, utilizzando un’applicazione specifica: “Il video ha infatti subito fin dalla matrice diversi passaggi di effettistica “cartoon” – ci ha detto Denise Galdo – garantendo la possibilità di arrivare ad un risultato molto vicino ad una vera e propria animazione vettoriale nonostante gli attori siano in carne ed ossa. Il video racconta dunque con morbidezza visiva e onde dorate una storia d’amore con le sue abitudini, i suoi alti e bassi, le sue dolcezze e talvolta i suoi scogli emotivi. Il tutto è addolcito da un’estetica che avvolge le immagini come fosse un flusso di azioni e pensieri sospeso e completamente avvolto dallo scorrere inesorabile e caldo del tempo“
I Maieutikè sono Luigi Errico (voce e chitarra), Peppe Monzo (chitarra solista), Pietro Ciuccio (percussioni), Antonio Brunetti (basso)
Una benedizione così precoce come quella ricevuta dai Just Mustard nell’estate del 2019 non capita frequentemente. Intercettati da Robert Smith subito dopo l’uscita di Wednesday, il primo album della band irlandese pubblicato per una minuscola etichetta di Dundalk, la Pizza Pizza records, vengono invitati per il set d’apertura ai The Cure nel concerto dell’otto giugno al Malahide Castle, insieme ai Twilight Sad e ad una band seminale come i Ride.
Just Mustard – Pigs – video diretto da Katie Ball & David Noonan
Wednesday aveva appena ottenuto la nomination al Choice Music Prize, ma non era uscito dai confini britannici, nonostante l’ottima accoglienza critica. Trainato dal drumming in primo piano di Shane Maguire, memore dell’incedere tra forza e narcolessia di Todd Trainer, il suono del quintetto è un intreccio elettrico di precisione e caos, controllo e forma libera. Più industrial che shoegaze, nonostante il primo episodio della loro discografia indugi ancora sulla lezione di Kevin Shields, già si delineano i confini di un minimalismo noise, basato sulla ripetizione, la frammentazione, l’uso stratificato dei loop e una ritmica verbale vicina per certi versi ad alcune intuizioni trip-hop, disossate dai groove riconoscibili e indirizzabili alla cultura black.
Nell’apparente semplicità eterea impostata dalla voce di Katie Ball, l’intreccio chitarristico di David Noonan e Mete Kalyoncuoglu apre altre strade, dilatando le suggestioni visionarie delle liriche, mentre il basso di Rob Clarke crea ambiente e profondità. Nonostante l’elettronica sia assente dal suono dei Just Mustard, la strategia compositiva è molto vicina a quel mondo fatto di samples, patterns e frammenti combinatori. Cambia il processo, totalmente elettrico, muta anche il lessico, dirottato altrove, verso i paesaggi post-industriali e allo stesso tempo onirici, di una realtà aumentata costituita da detriti.
Quando incideranno Frank, per il 12 pollici successivo alla pubblicazione di Wednesday, si aggiungerà un tassello alla loro poetica sonora, che giocosamente definiranno “trip-trap“. Un ribaltamento radicale del linguaggio dominante, dove la ripetizione si sposta dalla superficie al subcosciente, rivelando la possibilità di andare oltre la cosa vista, oltre la struttura conclusa dello stesso brano:
I watch TV to fall asleep and I can fly in my dreams and Im content with what I see in Myself I try believe
Just Mustard – Frank
Il video di Frank viene diretto da Tim Shearwood, come la band residente a Dundalk, utilizzando tecniche stop-motion in un ambiente reale, dove la mobilia viene assemblata dalla stessa band. 1,000 foto alla fine delle sessioni di ripresa che contribuiscono a creare un immaginario riflesso sulla nozione di tempo e sul concetto di tempo del sogno. Dimensione che si radicalizzerà nell’inversione tra reale e virtuale esperita durante gli anni della pandemia, spartiacque creativo anche per i Just Mustard.
Seven è l’ultimo singolo pubblicato da Pizza Pizza Records ed è ancora dall’altra parte del mondo prima della crisi epidemiologica. Accompagnato da un video diretto da Graham Patterson con la collaborazione degli stessi David Noonan e Katie Ball, radicalizza il processo compositivo già avviato con la pubblicazione precedente, introducendo una nuova coesione sonora che troverà piena espressione nel recente Heart Under. Mentre la voce tende a disegnare un medioriente mai visto, nel viaggio attorno alla propria stanza, i suoni puntano a descrivere un abisso psichico dove non si intravede il fondo, se non per l’anelito verso una realtà extrasensibile non riconciliata con la rivelazione: Bless me, theres a ghost again / In the shed / I cant see, this make believe / Does my head in / Bless me, theres a god again / In my head / Do my head in.
Kalyoncuoglu e Noonan sembrano ormai riferirsi all’ultimo Hans Zimmer e ai suoi mostri cinematici fatti di tecnologia e orchestra, ma anche agli episodi più cupi e sotterranei di Jóhann Jóhannsson. Lasciano indietro la retorica wave, i Modern English di The Token Man, e rendono omaggio a modo loro al Lynch di Lost Highway, con uno strano video che mette insieme suggestioni surrealiste, pittura su pellicola, optical art e grattage
Just Mustard – Seven
L’attenzione fuori dal contesto irlandese comincia ad acuirsi. Non solo il tour con i conterranei Fontaines DC, band con un culto già solido anche se decisamente più normativa e meno coraggiosa, ma anche la prima ospitata a KEPX, la spinta che BBC1 offre a Frank, la partecipazione al Primavera sound e l’inclusione nella classifica stilata da NME sui 12 migliori live dell’anno. Il risultato è un contratto con la Beggars Group, di cui Partisan Records è parte, stipulato nel 2019 e che li condurrà alla pubblicazione del loro secondo album, ritardata dal dilagare del Covid-19.
Just Mustard – Seed – Live in Dreams
Oltre che dal “live in dreams“, pubblicato sul loro canale youtube, alcuni brani di Heart Under vengono anticipati da un visualizer ufficiale e da due videoclip ufficiali.
L’identità visuale della band diventa più coerente e meno artigianale rispetto al passato, affidandosi allo sguardo di alcuni videomaker di talento, ma allo stesso tempo definendo in modo preciso confini creativi che promanano dalla loro stessa musica. Basta pensare che tutti i primi video di Just Mustard, da Pigs, passando per Tainted, fino a Frank e Seven, sono diretti con la collaborazione della stessa band e spesso montati dalla stessa Katie Ball, confermando un controllo capillare sull’immagine complessiva del loro lavoro.
Sul video di Still diretto da Balan Evans, secondo anticipo di Heart Under, abbiamo parlato a lungo. La caduta libera dentro una psiche frantumata descritta dalle liriche di Katie Ball, viene interiorizzata da una clip che, esattamente come il processo sonoro attivato dai Just Mustard, elimina l’effettistica e i vfx in post produzione, scegliendo una filosofia optical, totalmente “in camera”. Per chi scrive, il più bel videoclip degli ultimi vent’anni: Evans dipinge con le luci e cerca di strappare l’ultimo bagliore elettrico dal buco nero dell’esperienza digitale globale
Just Mustard – Still, il video di Balan Evans
Una certa tendenza espressionista è al centro anche dell’artwork di Heart Under. Occupato da un acquerello di Graham Dean, ricombina la supremazia del corpo, attraverso l’esperienza psichica con una tendenza a disinnescare lo stesso elemento illustrativo. In un’apparente cornice figurativa, il corpo ne esce a pezzi, frammentato, costituito da percezioni contrastanti, dove natura, ambiente, dimensione mnestica convergono nello spazio fisico, vero e proprio territorio di energie emotive. In termini tecnici, utilizza ciò che Dean stesso chiama “archeologia inversa”, dove l’impiego tradizionale dell’acquerello lascia il posto ad una stratificazione successiva di colore, applicata separatamente su una carta spessa che proviene dall’India meridionale. Ciascun foglio viene sottoposto a lacerazioni e sovrapposizioni, allo scopo di elaborare la composizione conclusiva. Un processo organico di distruzione e uno combinatorio di ricostruzione, dove il cromatismo contrastato arricchisce e complica l’azione percettiva dello spettatore, redendolo partecipe di un percorso identitario tutto da ricostruire.
Just Mustard – Heart Under (Partisan Records 2022) – Painting by Graham Dean
Elaborazione di uno dei soggetti cari a Den, immersi un un limbo acquatico, l’immagine dell’artwork si allinea allo stesso inabissamento del cuore indicato dal titolo dell’album. I riferimenti non espliciti si muovono da una condizione di isolamento emotivo e fisico fino al sentimento della perdita, ma rimangono nel regno di possibili decifrazioni, grazie al procedimento sensoriale che caratterizza il suono Just Mustard. Il drumming di Mcguire si sgancia in modo deciso dall’estetica eterea e sfumata di certo dream pop anni novanta, confermando la sua posizione centrale. Grazie a tecniche come il cross-stick su rullante, ma anche all’utilizzo specifico del charleston, rafforza le architetture rumorose ormai pienamente espressioniste nel rivelare mondi meccanici che deflagrano, paesaggi acquatici movimentati da un’esplosione, improvvise interferenze elettriche a metà tra il grido animale e un lamento post-identitario.
Il suono dei Just Mustard diventa unico, perché parte di quella trasformazione indicata dall’allusività delle liriche. Un rizoma, le cui origini lasciano tracce irriconoscibili e oltre l’ortodossia del post-punk, del post-rock, della neopsichedelia in tutte le sue declinazioni, dagli anni novanta fino ad oggi.
I am you with the red I am you with the red Change my hair Change my dress Change my head
Just Mustard – I am you – Official Visualizer di Dylan Friese-Greene
A dirigere il visualizer di I Am You, il primo estratto di Heart Under ad esser diffuso ufficialmente, è il talentuoso Dylan Friese-Greene, giovane regista londinese, figlio del produttore Tim Friese Greene (Talk Talk) e collaboratore di Balan Evans. Qui adatta il suo occhio ai paesaggi sonori dei Just Mustard, recuperando gli elementi di optical art e pittura su pellicola già visti in Seven, ma elaborati in forma maggiormente illuminotecnica, tanto da giocare con l’illusione della fotografia spiritica, così come con il cinema delle avanguardie. Dirigerà anche il secondo video ufficiale da Heart Under intitolato Mirrors, splendido trip acquatico di consistenza pittorica ed espressionista, che conferma la volontà della band di Dundalk di affidarsi ad artisti visuali che possano mantenere un piede nei processi di mutazione organica e ottica dell’immagine. Nessun vfx anche in questo caso, per raccontare il viaggio sonoro al di là dello specchio, di una delle band più stimolanti degli ultimi anni.
Look in the mirror Staring someone else in the eye
Just Mustard – Mirrors – il video diretto da Dylan Friese-Greene
Heart Under è uscito il 27 maggio scorso in versione Vinile, CD e audiocassetta su Partisan Records. L’acquisto, anche delle due edizioni limitate in vinile colorato, è possibile attraverso lo store ufficiale dei Just Mustard
Con Veronica Lucchesi, Simone Rovellini si diverte molto. La sua videografia riceve uno scossone ed esce da quella quadratura pop che mantiene sempre una certa distanza nella costruzione di mondi cromaticamente “perfetti”, ma più presenti dei corpi. L’attrice e musicista pisana spezza questa fissità. Lo faceva sul set di Ciao Ciao, lo ripete in modo ancora più radicale al centro di Piazza Pretoria, trasformata in un dancefloor open air per il video di Diva. Accentra il punto di vista, respinge la camera e di nuovo l’attrae con un solo gesto. La sua forza centripeta dirige di fatto il video, restituendo parte di quell’energia spesa sul palco e soprattutto, la capacità di gestire lo spazio rappresentativo con innegabile forza creativa. Questa include anche la rimessa in scena dello stesso set, piegato alle possibilità del gioco performativo. Rovellini ci mette del suo e tra colori, lettering e montaggio, gioca con l’estetica post-wave e forse pensa al neon-cinema di Refn, Tsukerman, Noé, mentre frammenta i genitali e le forme marmoree della Piazza della Vergogna. C’è spazio anche per un product placement di una nota marca di preservativi, ma è l’outfit di Veronica, creato con la collaborazione di Lorenzo Oddo e Stephanie Glitter, a riempire la sua figura di latex, ibridazioni tra plastica e verità, detriti di un mondo pop esperito attraverso gli oggetti di consumo. Props per un contratto e divertentissimo esempio di messa in scena nella messa in scena.
Il formidabile jazz elettronico di Matteo Marchese irrompe con l’erotismo trattenuto e potente di Soul Please. La voce di Ila Scattina guida questo anelito verso la luce, nel brano che anticipa DOT, album di debutto per il talentuoso producer, arrangiatore e batterista, in uscita l’autunno prossimo per The Prisoner Records.
Indie-eye presenta in anteprima esclusivail video musicale, diretto dalla stessa Ila Scattina
Soul Please, il making of del video di Matteo Marchese
“Quando Matteo mi diede la base su cui scrivere il testo di “Soul please” – ci ha detto Ila Scattina – subito la musica mi trasmise un’ambientazione “cupa” e per questo immaginai di essere “in fondo al buio di me stessa”, nel momento in cui prendi coscienza di quello spazio angusto in cui a volte ci nascondiamo e diventi consapevole che c’è un mondo di “luce” a cui mirare per evolverti. E così comincio un dialogo con la mia anima in cui le chiedo aiuto per questa evoluzione, insegnandomi a trovare la via per la luce, per riuscire ad esprimere le emozioni che tengo soffocate, ritrovare in sostanza un punto di incontro tra la me stessa di luce e quella di ombra. Il video ne è quindi una diretta conseguenza in termini stilistici, metaforici e visivi. Una parte che vive in ognuno di noi, “oscura” e “schiacciata”, inespressiva e confinata alla fine di un pozzo profondo, e l’altra esuberante, pronta ad emergere. Una dicotomia filosofica, il principio del TAO, con un Yin e uno Yang opposti ma ineluttabilmente legati”
Girato presso il Teatro Pandemonium di Loreto, con la regia e la post produzione di Ila Scattina e l’aiuto di Rocco Bergamelli come secondo operatore, il video di Soul Please nasce dalla necessità di girare in uno spazio grande e totalmente nero, per realizzare le sequenze con un’ampia prospettiva di campo.
“La scelta di uno spazio nero – ha aggiunto Ila Scattina – era direttamente legata al pezzo, in cui “io” cerco di uscire dallo spazio cupo di me stessa, alla ricerca di quel dialogo interiore, in cui solo una luce flebile appare al mio fianco, come una fenditura, uno strappo tra le pieghe dell’anima. Il cambio sul ritornello, con la parrucca bianca, è stato scelto per evidenziare l’apertura al dialogo, la scelta di un cambiamento e di evoluzione personale. Il forte contrasto tra luce ed ombra è enfatizzato dalla scelta del bianco e nero, in cui si evidenziano ancora di più lo ying e lo yang in maniera netta. Nelle strofe appaio quasi come un soldatino futuristico, senza emozioni, una mono espressione che in realtà è la maschera che copre l’esplosione emotiva trattenuta, e che appare solo in qualche frammento veloce, quasi eterea. Il tutto è collocato fuori da luogo e tempo, proprio per sottolineare il dialogo interiore, che non finisce mai“.
Direttamente ispirato a certe performance in studio degli anni sessanta, rielaborate per la sensibilità catodica, il video di “Soul Please” desume dal linguaggio televisivo degli anni ottanta, quel campionario di elettronica dell’immagine fatta di specchi, ripetizioni, video feedback, così tipica del linguaggio videomusicale all’alba della sua massima diffusione industriale. Ne viene fuori un ibrido affascinante, che rivela le possibilità confessionali del mezzo, nella creazione di un’immagine intima e distante, tattile e gelida, elettronica e bollente. Un flusso di coscienza che comunica con l’organizzazione dei piani nello spazio visuale. (Michele Faggi)
Chitarrista, vocalist e cantautrice, la torontoniana Dorothea Paas è tra le artiste più amate e conosciute in quella parte del Canada, nonostante la sua produzione si sia limitata ad una serie di demo e di cassette autoprodotte fino al 2021, anno del suo debutto ufficiale per la Telephone Explosion Records.
Dorothea Paas, improvvisare verso la luce
Attiva sin dal 2011 ha suonato con numerosi musicisti e formazioni locali, tra cui U.S. Girls, Jennifer Castle e il progetto noto come Badge Époque Ensemble, guidato da Max Turnbull che ha mixato l’album della Paas. Alcuni di questi artisti sono confluiti nello sviluppo e nella registrazione di “Anything Can’t Happen“, contribuendo a delineare il sound di una band a tutti gli effetti, costituita da Paul Saulnier (PS I Love You), Liam Cole (Little Kid), Robin Dann (Bernice), Thom Gill (Bernice e The Titillators), ovvero parte della scena dell’Ontario degli ultimi tre lustri.
La scrittura del disco appare quindi già matura e definita, consegnandoci una raccolta di canzoni che pur debitrici di una terra di mezzo tra folk e jazz sperimentata a lungo da Joni Mitchell, rilanciano quelle intuizioni attraverso la lente del folk-rock tra gli anni novanta e il nuovo millennio, espandendone i presupposti e sporcando l’ordito con il rumore, la dilatazione sensoriale, l’improvvisazione. In termini attitudinali, c’è molto degli episodi più visionari della Buffy Sainte-Marie di Illuminations, senza quella furia rituale e con una maggiore introspezione “laica”, che la avvicina ad autrici contemporanee come Tara Jane O’neil ed Edith Frost. Rispetto a queste a fare una rilevante differenza è l’utilizzo della voce, potente, duttile e nient’affatto eterea, tanto da riuscir a interpretare la tempesta affettiva delle liriche senza abbandonarsi alla retorica del dolore, ma al contrario puntando decisa verso la luce in termini armonici e narrativi.
“Anything Can’t Happen” è infatti un racconto sentimentale alla ricerca del sé, oltre la claustrofobia della dinamica amorosa, che risuona anche nell’apertura strutturale delle canzoni stesse, mai sottoposte ad uno sviluppo tradizionale, ma continuamente aperte alla trasformazione. Eppure, questa scelta che in altri casi porterebbe con se una definizione jazzistica marcata, viene condotta con grande sensibilità e intelligenza, tenendosi alla larga da sonorità riconoscibili in tal senso e costruendo un jazzin’ dell’anima con altri mezzi strumentali e strutturali, come accadeva negli ultimi due album dei Talk Talk, ma anche nei brani più liberi dei Sonic Youth. Dorothea, in alcune interviste, spiega questa dimensione in termini emotivi, raccontando una tensione verso l’ignoto sottesa dal sentimento della fine. Questo può contenere paura, ma anche apertura verso la speranza.
Anything Can’t Happen, i video di Ryan Al-Hage per Dorothea Paas
Per un album straordinario, la cui stratificazione risiede anche nel suo esatto opposto, l’immediatezza, Dorothea Paas ha diffuso due video molto semplici, concepiti sulla forma soggettiva dell’autoritratto ed entrambi diretti dal fotografo Ryan Al-Hage. Per la title track vengono scelte le cascate del Niagara come location principale, con un metodo che il regista stesso indirizza al cinema di Wong Kar-wai, nella strategia di cogliere un dettaglio soggettivo, per rendere l’esperienza di una flanerie nel suo farsi. Un metodo che si allinea al flusso interiore dell’artista canadese e che in qualche modo ne segue l’estetica improvvisativa.
Container, il brano, viene raccontato dalla stessa Paas come un continuo tentativo di ri-centrare il flusso di coscienza intorno al concetto di casa. Da una parte l’improvvisazione, dall’altra la risoluzione nell’accordo in do, così da creare oscillazione tra il radicamento e la deriva. Il video diretto da Ryan Al-Hage è girato in un parco, con Dorothea a bordo di una giostra e il punto di vista fissato sull’asse. Un autoritratto simile al precedente, dove il movimento meccanico smuove lo sguardo radicato.
Un vero e proprio evento quello che Musicus Concentus in collaborazione con Disconnect si appresta a portare a Firenze, nella suggestiva e silvestre cornice dell’Anfiteatro delle Cascine Ernesto De Pascale, entro lo spazio estivo Ultravox Firenze. Yves Tumor, innovativo e incendiario artista afroamericano con una vita artistica sospesa tra Stati Uniti ed Europa, calcherà la scena fiorentina domenica 10 luglio a partire dalle 21:15.
Uno degli show più attesi dell’estate e più importanti a livello internazionale, al centro del parco delle Cascine per presentare al pubblico fiorentino gli ultimi lavori pubblicati come Yves Tumor: Heaven to a Tortured Mind e l’Ep successivo, The Asymptotical World, entrambi usciti sulla prestigiosa Warp.
In occasione del concerto, il terzo dei cinque eventi speciali concepiti per festeggiare il 50° anniversario di Musicus Concentus, Indie-eye propone un approfondimento dedicato a Yves Tumor, al secolo Sean Bowie, attraverso la sua musica, la sua poetica e la sua identità visiva.
Yves Tumor live Inizio concerto ore 21:15 @ Ultravox Firenze – Anfiteatro delle Cascine Ernesto De Pascale Parco delle Cascine – Firenze
Per Sean Bowie non deve esser stato facile il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Nato a Miami e cresciuto a Knoxville, in Tennessee, lascia definitivamente la città a vent’anni, stanco di un ambiente chiuso, omofobo e razzista, lo stesso che pochi anni dopo, attraverso le parole dello sceriffo e pastore battista Grayson Fritts, definirà i gay come mostri che avrebbero dovuto esser giustiziati dal governo. Dopo un’intensa esperienza californiana dove incontra per la prima volta Mykki Blanco e registra con il moniker TEAMS, si sposta verso l’Europa per introdurre lo pseudonimo di Yves Tumor durante il transito personale e culturale più importante della sua carriera, quello che lo vede attivo tra Torino, Leipzig, Berlino e Los Angeles. Transitorietà che è frutto di una voluta flanerie mai stanziale, sul cui approdo nega con fermezza qualsiasi dettaglio all’insistenza gossippara della stampa.
Sono realmente apolidi le scelte di vita di Bowie, lo è anche la sua musica, spiazzante esperienza di ridefinizione identitaria.
Serpent Music, prima release sulla lunga distanza con la nuova identità artistica, esce per la PAN di Bill Kouligas, piattaforma multi-disciplinare berlinese di ricerca, che da tempo stabilisce un ponte tra l’avant-garde degli anni settanta e il futuro. Pubblicato nel 2016, è in effetti un prodotto alieno. Tutta l’esperienza formativa di Sean Bowie, incluse le influenze southern, confluiscono in un provocatorio mix che sporca la cultura R&B con il noise più estremo. Un procedimento che infetta le stesse liriche del progetto. Questo è bilanciato tra oscenità e tenerezza, vicinanza alle attitudini più pulsionali e repulsive e improvvise aperture verso una dimensione spirituale. Ma si tratta di una spiritualità non riconciliata, tanto da aver pensato a “God Fearing” come titolo provvisorio per l’album.
Yves Tumor, in questa fase, quando parla di vibrazioni trance, di un movimento psichico e fisico che agisce sottopelle, non si riferisce al percorso della black music, ma preferisce citare l’influenza fondamentale dei Throbbing Gristle nella sua musica. Eppure l’ossessione del padre per il suono Motown e una dieta adolescenziale a base di quel groove, inoculano in un territorio fatto anche di sangue e merda, una potente onda sensuale che trattiene ben salde le radici, mentre field recordings, sample di derivazione ambient, un utilizzo fenomenico, empirico e fisico dell’elettronica, complicano sentimenti ed esperienza emotiva dell’ascolto, lanciandola oltreconfini.
Fortemente ancorato alla neutralità di genere nell’uso del linguaggio, in realtà considera lo stesso un magma vivente, sollecitato attraverso le convenzioni della narrazione rock già decostruite dal primo David Bowie e con una libertà che farebbe impallidire gli accademici nostrali che si attardano sulla “mostruosità ideologica” della schwa. Del resto il cognome di Sean, sulle cui origini anagrafiche c’è un grande punto interrogativo, potrebbe essere a sua volta un patronimico artificiale, una dichiarazione di intenti, il recupero, almeno parziale, del lessico glam in termini sia visuali che musicali, come possibile golden era della trasformazione, ma anche i limiti stessi di quel sistema di segni, sottoposti a continuo superamento.
La domanda da farsi è quella sui confini della stessa sperimentazione, termine che ha perso totalmente di significato dal momento in cui indica un’identità ben radicata, un tag generico per definire artisti di un certo tipo, come qualsiasi altro marcatore. Se il gusto per il rovesciamento dei parametri consente proprio a chi non si fa mettere nella prigione metodista del rigore, di recuperare elementi un tempo considerati come la feccia del mondo mainstream, l’attitudine sperimentale acquisisce un valore diverso, maggiormente legato all’idea di possibilità e soprattutto, capace di modificare il proprio codice genetico.
Qual è la tua maschera? Yves Tumor e la nostalgia per il futuro
Safe in the Hands of Love, debutto di Yves Tumor per la prestigiosa Warp, esce nel 2018 e combina l’oscurità professata degli esordi con una maggiore e apparente accessibilità in termini musicali. Più che una deriva, una messa a fuoco pop che attinge alle più svariate influenze, dal post-punk all’alternative fine novanta, rovesciando i fattori che avevano caratterizzato il primo album. Il rumore, l’oscurità, gli elementi capaci di perturbare l’ascolto, scorrono sotterranei, all’interno di una confezione più solida. Maggiore capacità comunicativa non significa quindi abdicare, ma in altri termini potenziare il discorso sviluppato fino ad ora. “Is this you or your persona?” è un concetto che evidenzia il nuovo corso anche in termini estetici. Sei questo pop, fatto di memoria, ricordi, nostalgia per il futuro, oppure i tuoi ascolti sono un costrutto che celano un vulcano, pronto a liberare qualsiasi tipo di energia?
Il risultato è quello di un campionario riconoscibile di frammenti sonori, tutti riconducibili eppure astratti, tracce di culture decostruite, bello e brutto che si scambiano simbolicamente posizione, il pop minato dall’interno con riferimenti e collaborazioni più o meno esplicite con la scena industrial. In sintesi, un procedimento quasi dadaista: annichilire alcune mitologie nel momento stesso della loro creazione.
Yves, l’alchimista.
Più di Dada, forse è l’alchimia il riferimento pertinente, almeno per la capacità di trasformare l’inerzia materiale e ripetitiva dei generi in un mostro vitalissimo. Heaven to a Tortured Mind, terzo album e secondo pubblicato per Warp arriva due anni dopo il precedente e si apre con una traccia manifesto: Gospel for a New Century. Oscura, minacciosa eppure attraversata da una sensualità ribollente, la stessa che crea instabilità per tutto l’album e ne assesta il tono, in termini tematici e formali. Eppure gli espliciti riferimenti all’estetica glam, al Prince dei set live, all’erotismo pansessuale di Marc Bolan, e alle loro declinazioni più recenti, non funzionano per adesione, ma come frammenti di un fuoco interiore (passione, interessi, amore, odio) necessari per raggiungere altre vibrazioni.
La differenza tra denotazione e connotazione è quindi essenziale, nella definizione di pezzi, brandelli, sample riconoscibili eppure destinati a cambiare senso in base al discorso combinatorio. Non è un caso che lungi da essere solo disturbante, il “racconto” di Yves Tumor, cerca quel processo di individuazione a partire dal caos e dalle tenebre, per rivelare una stimolante coincidenza di opposti. Ancora una volta l’alchimia. Proprio il video di “Gospel…” vede il nostro incarnare la mitologia di Pan (un riferimento costante nella discografia di Tumor). Da una parte il tutto universale della tradizione tardo-cristiana che rielabora quella greca, ma più di altre cose, il filtro della cultura esoterica popolare da cui Tumor è evidentemente sedotto, con modalità riviste rispetto alla sbornia Crowleyana di Bowie, David, ma replicando in forma esplicita e più glamour gli stessi codici. Mentre l’ex duca bianco, qualche anno prima, puntava verso l’assimilazione/negazione nell’estremo, inquietante, ironico e inafferrabile Blackstar, il video, Tumor si identifica con i suoi dáimōn per poi trasformarli. Il disco viene prodotto da Justin Raisen, come il precedente, e fortifica la dimensione pop con l’inclusione di una serie di vocalist tra cui Kelsey Lu, Hirakish, Clara La San, Diana Gordon, Pan Daijing, Julia Cumming.
L’arte asintotica di Yves Tumor
L’avvicinamento all’oggetto segna anche distanza dallo stesso. Una cura asintotica della propria arte che ha spesso la forma (im)perfetta del bonsai. Difficile non pensare a The Asymptotical World Ep, ultimo lavoro di Tumor, come ad un titolo manifesto. Quindi le sonorità retrò sono ancora più polarizzate, dal punk al grunge, dal genoma glam al virtuosismo delirante e fuori standard di Zappa e Prince, fino al peggio fine ottanta pompato dalla chitarra di Chris Greatti, già con i Blink-182 (appunto). Nessun limite.
Visual Tumor. La metastasi visuale di Sean Bowie: tutti i videoclip di Yves Tumor
Le identità visive di Tumor sono altrettanto ricche e significative. Noid, la prima clip estratta da Safe In The Hands of Love, viene diretta da Andreas Brauning, già produttore per Minhal Baig, talentuosa regista di origini Pakistane, molto vicina al discorso delle radici musulmane in terra straniera. Non è meno politico il video di Noid, dove l’urgenza continua e non direttamente indirizzabile delle liriche, fa il paio con il racconto durissimo di una ben nota violenza fascista e urbana. Il video estrapola forma e retorica del cinema del reale, trasponendole nel frame del videoritratto. Tutto è performance, anche l’oppressione violenta.
Lifetime, pubblicato due mesi dopo è diretto da uno dei nomi più importanti della videomusica internazionale, Floria Sigismondi (più volte con Bowie, David). Oltre ad essere uno dei video più convincenti della regista di origini italiane, interpreta l’estetica frattale del brano, con una moltiplicazione prismatica dell’identità multipolare di Tumor. Oltre ai corpi, i simulacri, i manichini e il concetto di “persona”, è un gioco eminentemente ottico, un video nient’affatto digitale e di qualità fotografica. Nel gioco kleistiano tra identità e marionetta, caro alla Sigismondi, Tumor esprime la sua poetica visuale e spirituale, con una lotta tra demoni senza soluzione.
Secondo nome di rilievo per il terzo video tratto dalla prima uscita per Warp di Yves Tumor. A dirigere Applaud c’è Gia Coppola, nipote di Francis Ford, autrice di film come Palo Alto e il più recente Mainstream, uscito poco dopo il video girato per Tumor, oltre ad un buon numero di video musicali. Introdotto e chiuso da un viaggio nell’occhio, è il video apparentemente più tradizionale tra quelli di Tumor, che cerca di tradurre sul piano visivo l’underworld più psichico che reale delle liriche.
Yves Tumor – Applaud – Dir: Gia Coppola
Gospel for a New Century, prima clip pubblicata per promuovere Heaven to a tortured mind, viene diretta da Isamaya Ffrench, makeup artist e direttrice creativa, il cui talento è stato impiegato per i video di Madonna, Fergie, The Horrors e Zombie Kids. Ovvio quindi l’approccio creaturale per il video di Tumor, un dio Pan da clubbing la cui immagine viene sottoposta a continue interferenze a bassa definizione, mentre la mutazione avviene sul piano esplicitamente simulacrale dell’estetica CGI. Tumor dimostra di essere uno straordinario accentratore a prescindere dai creativi con cui lavora, per la capacità di indirizzare il progetto nella direzione in cui desidera.
Il video della splendida Kerosene! viene diretto da Cody Critcheloe ovvero Ssion. Ne avevo scritto approfonditamente qui su indie-eye. Resta da aggiungere, rispetto alla straordinaria parabola creativa di Ssion, alcune riflessioni sulle connessioni per niente casuali con l’arte di Yves Tumor. Entrambi gli artisti operano una risemantizzazione pop di elementi più o meno conosciuti. Tra parodia ed eccesso emerge una verità poetica estrema, legata alla mutazione dei corpi, delle identità e dei parametri relazionali. Mentre sul tubo circola la versione “per tutti”, quella integrale non censurata si può godere dal sito promozionale dell’album di Tumor.
Jackie nasce dal lavoro di Actual Objects, studio losangelino fondato da Rick Farin e Claire Cochran insieme al producer Nick Vernet. Il loro segno distintivo è la rielaborazione di mondi immaginali attraverso realtà renderizzate. Si tratta non a caso di un immaginario post-umano dove il nome stesso dello studio, allude alla materialità della tecnologia e al fatto che gli stessi mondi digitali non siano considerati avulsi dalla corporeità. Questi, in qualche modo, includono conoscenza emozionale. Matericità del lavoro e anche degli strumenti che concorrono alla creazione di mondi digitali complessi quindi. Nella loro mission, dichiarata in più di un’occasione, c’è l’idea di assottigliare la separazione implicita tra la definizione di natura (animale vs. umano, tecnologia vs. ecosistemi) per cercare nuove forme di coesistenza, mentre la civiltà accelera. Problematizzano quindi il concetto stesso di natura individuandola in termini estensivi. Il ricorso massivo a tecnologie CGI che attraversa i loro lavori, cerca quindi di non imitare la realtà esperienziale, ma di creare una dimensione alternativa attraverso la quale sia possibile interrogare la nostra esistenza non-aumentata. Una sovversione, un riflesso, uno specchio. Ecco che la connessione con il lavoro di Tumor ci sembra molto forte, e conferma le scelte miratissime del nostro nell’affiancare il suo lavoro a quello di talenti visuali “sul bordo”. Nel video di Jackie, Tumor è un electric warrior che discende tanto dall’estetica glam, quanto dalla mitologia personale che ha costruito attraverso i riferimenti di cultura popolare esaminati sino a questo momento. Nell’affascinante avvitamento tra videoarte e videoludico che Actual Object ritaglia sull’artista afroamericano, il transito da un contenitore identitario all’altro ha una consistenza carnale e spirituale allo stesso tempo, fisica e virtuale.
Secrecy Is Incredibly Important To The Both of Them, agevolato in testa all’articolo, è diretto da Jordan Hemingway, il talentuoso regista di Plainsboro, New Jersey, trasferitosi presto a New York, dove è attivo come fotografo e filmmaker. Parte di quella generazione di creativi abbacinati dalla cultura underground degli anni settanta e prestati alla causa proteiforme del mondo fashion, per il primo video che promuove The Asymptotical World EP, estremizza il gusto per la ritrattistica in una sarabanda street che rilegge Mick Rock, ma anche numerose influenze cinematografiche. Tumor è in una stanza adibita alla tortura dei prigionieri di guerra, ma anche il suo antagonista. Ancora è al centro di una rapina e di una gioiosa orgia con geishe steampunk. Difficile venirne a capo se non nei termini in cui le stesse liriche, sfuggenti e chiarissime come capita sovente con Tumor, possono essere intese come un’irrisolta battaglia interiore. Il brano stesso, che ondeggia tra punk, glam, il CBGB, il post-punk britannico, crea quella continua destabilizzazione percettiva che insieme all’R&B, contribuisce a definire una delle avventure più emozionali dai tempi del miglior Tricky.
Yves Tumor, dal vivo: violento ed emozionale
Gli show di Yves Tumor sono un’esperienza che ha mutato forme e aspettative nel tempo. Al centro è rimasta una dimensione violenta e selvaggia che adesso viene declinata nei termini di una rilettura dell’estetica glam da una prospettiva visuale esoterica (Marc Bolan, il primo Bowie, qualcosa dei Kiss di God of Thunder). Non è la stessa cosa, non è una dimensione nostalgica e retrò, come abbiamo raccontato nel corso di questo approfondimento, ma un sistema di codici e di segni che viene rielaborato secondo dinamiche sonore, compositive e strategiche che nel corso della sua carriera gli hanno consentito di tradurre il movimento ritmico dell’R&B all’interno di altri contenitori, dal noise all’industrial, dall’elettronica al post-punk. Glam è la postura, glam sono alcuni codici desunti dalla riduzione già postmodern di Pince, glam è l’impatto che cerca con il suo pubblico, sul palco maggiormente incline alla potenza rispetto alle meticolose stratificazioni sonore che sono percepibili su disco. In alcuni contesti ha cercato un coinvolgimento diretto con la folla, scendendo tra la gente e reclamando un contatto vitale, tra danza e amplesso. In altri, il mosh dancing ha incendiato la platea seguendo le sollecitazioni di un attacco noise violento, liberatorio, estremo. Attendiamo che svegli Firenze, in uno dei concerti più attesi della stagione.
(Ringraziamo per foto e materialiLorenzo Migno – ufficio stampa Musicus Concentus)
A poche ore dalla pubblicazione di “Bal“, il singolo di Derya Yıldırım & Grup Şimşek che anticipa Dost 2, il terzo album della band apolide turca previsto sull’etichetta svizzera Bongo Joe per il prossimo 11 novembre, facciamo un passo indietro e vi raccontiamo il percorso di questa straordinaria band.
Il brano conferma la capacità del combo nel fondere un vero e proprio metodo, come quello che ha delineato i confini dell’Anadolu pop tra gli anni sessanta e i settanta dello scorso secolo, con una sensibilità che rivela l’assoluta freschezza di quelle intuizioni. “Bal” prosegue l’avventura groovey del precedente capitolo e ci consegna un esempio di dancefloor anatolico davvero irresistibile. Dopo il video, tutta la storia di Derya Yıldırım & Grup Şimşek
Nonostante il crescente successo europeo, la band dell’interprete turca Derya Yıldırım è ancora un prezioso segreto dalle nostre parti. Artefici di un pop psichedelico capace di rilanciare in modo suggestivo e intelligente le sollecitazioni dell’esplosione musicale turca della seconda metà dei sessanta, seguono il metodo di musicisti e band seminali come Cem Karaca, Erkin Koray e i Moğollar nello stabilire un rapporto vivo e peculiare con la tradizione, rielaborata attraverso un dialogo costante tra oriente ed occidente. La scoperta di nuove dimensioni armoniche fa sicuramente parte di quel patrimonio storico, inabissato dalla storia di un regime che torna ad essere poco indulgente con il potenziale artistico. Apolidi, ma stanziati in Germania e con elementi che provengono dall’Inghilterra e nella prima formazione anche dall’Italia, Derya Yıldırım & Grup Şimşek intercettano e si riappropriano di quel revival che è esploso tra Stati Uniti e Inghilterra grazie all’interesse di alcuni Dj e al recupero di etichette specializzate che hanno setacciato il patrimonio irreperibile della discografia turca dagli anni sessanta agli anni ottanta. Nel connubio tra strumenti tradizionali e la rielaborazione elettrica tipica dell’Anadolu pop, introducono una contagiosa attitudine alla ripetizione ossessiva e minimale, contaminata con un ampio ventaglio di influenze, dalle forme più funk a quelle più noise. Space age, folk, psych rock, incontrano le sonorità del Saz e di altri strumenti della tradizione, individuando un punctum famigliare e allo stesso tempo alieno, almeno per chi non ha frequentato le sonorità di certa musica popular turca.
Dopo un primo sette pollici, approdano alla svizzera Bongo Joe e tra il 2018 e il 2021 incidono un EP e due album, in attesa di pubblicare il terzo a settembre. Dost 1 è l’ultimo lavoro a tutt’oggi ed è un album splendido che alterna episodi strumentali dalle caratteristiche fortemente visionarie, a momenti pop più strutturati dove la tradizione lascia spazio ad una scrittura personale, sempre più lontana dagli elementi world e più ancorata ad un’ecologia sonora sospesa tra passato e futuro.
La Blogothèque li ha già ospitati per una performance tratta dal primo full lenght, che insieme ad altri live pubblicati in rete, tra cui il recente e bellissimo tenutosi al berlinese 1210, rivelano la presenza magnetica di Derya Yıldırım, già centrale nei tre videoclip ufficiali pubblicati da Bongo Joe per veicolare i singoli principali dei due album.
Un salto indietro di alcuni anni ci consente di recuperare il lavoro di Florent Buffin & Antonin Voyant, realizzato per il video di Nem Kaldı, primo EP della band, pubblicato originariamente su Catapulte Records. La title track è l’occasione per costruire un’elegia visiva sui luoghi della memoria, la nostalgia per la propria terra, il contatto con gli elementi della natura, dove Derya è il centro di questa scaturigine
Oy Oy Emine, diretto da Agnieszka Gasiorek and Marcin Dominiak, esalta l’incredibile bellezza solare di Derya e si lega al tono generale di Kar Yağar, il primo album inciso con il Grup Şimşek, più vicino alla tradizione. L’identità visiva è ancora quella dell’interprete di un patrimonio storico e del rapporto filiale con quelle radici.
Deniz Dalgasiz Olmaz anticiperà invece la pubblicazione di Dost 1, il secondo album della band. Il video è un gioco optical realizzato con tecniche d’animazione, un vero e proprio visualizer dove la band compare trattata e ridisegnata secondo coordinate estetiche che hanno ovviamente più di un riferimento con gli anni settanta. La spinta verso le sonorità della turkish psychedelia diventa più evidente anche in termini di progettualità visiva
L’ultima clip di Derya Yıldırım & Grup Şimşek a tutt’oggi, è relativa alla bellissima Haydar Haydar, brano che sintetizza al meglio il nuovo corso della band, summa perfetta della produzione precedente, alla luce di un pop dall’identità più forte. Ballad ipnotica di straordinaria bellezza e malinconia, come i colori del video, desunti da quelli del Karagöz, il teatro delle ombre di tradizione turca. Lo spettro colorimetrico sembra promanare dall’iride di Derya e allo stesso tempo dipingere la relazione tra interno ed esterno, radici e identità, visione ultrasensibile e realtà, con uno slittamento inedito rispetto all’insieme di codici e segni della Psichedelia occidentale.
Del resto, la traccia proviene dalla tradizione mistica del diciassettesimo secolo, un poema attribuito all’esperienza religiosa dell’Alevismo Curdo e che è stata interpretata da numerosi musicisti a partire dagli anni sessanta, tra cui Müslüm Gürses, Çetin Akdeniz e più recentemente dall’attore Timucin Esen per la colonna sonora del film Müslüm Baba, dedicato alla figura controversa di Gürses.
Sono tutte diverse e uniche, nella variegata trasmissione di una tradizione antica che sfrutta il veicolo orale, tanto che quella di Derya si avvicina forse all’improvvisata versione a cappella eseguita da Cem Karaka, in una delle sue ultime apparizioni live: rallentata e spettrale.
Haydar Haydar suona allora come una preghiera anti apologetica dolorosissima e libera, il cui valore politico è assolutamente pregnante, ora, come la musica di Derya Yıldırım & Grup Şimşek, declinata al futuro anteriore.