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Sexto Unplugged a Sesto Al Regena: XVII Edizione

Sin dalle prime edizioni il Festival Boutique per eccellenza si è sempre contraddistinto per le scelte non convenzionali e ricercate, forte di una line up tutta internazionale con esclusive nazionali e territoriali: uno dei punti di riferimento per la musica di qualità nel pieno rispetto dell’ambiente che lo ospita.
La riconferma della profonda anima che unisce sperimentazione musicale arriva con i primi tre nomi del cartellone: la carismatica cantautrice danese AGNES OBEL la grande CAT POWER e il versatile Woodkid

La musicista di Gentofte trapiantata a Berlino si è contraddistinta nel corso degli anni per un’espressività artistica originale ed estremamente emozionante e per un’abilità di scrittura unica e sofisticata. Il suo ultimo album, “MYOPIA” (uscito il 21 febbraio 2020 per la prestigiosa casa discografica Deutsche Grammophon), è stato acclamato da pubblico e critica: una vera opera d’arte composta, suonata e prodotta in completa autonomia nel suo studio berlinese. Le 10 tracce del disco, in perfetto equilibrio tra genio e grazia, rispecchiano un minimalismo perfetto, raccontato da un songwriting estremamente intimista e allo stesso tempo ricco di dettagli affascinanti.
Suoni che si fondono, si deformano e rinascono sotto diverse forme, sospesi in una nuova dimensione spazio temporale: sul palco di Sexto ‘Nplugged AGNES OBEL vi trascinerà in una zona d’ombra tra “la fiducia e il dubbio” per poi farvi sentire a casa.

AGNES OBEL arricchisce così il programma musicale del Festival che nelle scorse settimane aveva già comunicato la presenza dell’icona dell’indie-rock americano, tra le voci più importanti del nuovo cantautorato al femminile targato USA, Chan Marshall, in arte CAT POWER.
Con oltre venticinque anni di onorata carriera musicale e dieci album di studio l’artista si esibirà martedì 21 giugno, in esclusiva per il nord-est d’Italia, suonando dal vivo i brani contenuti nel suo disco “COVERS” – uscito lo scorso 14 gennaio via Domino – che completa una sorta di trilogia iniziata con i precedenti “Jukebox” (2008) e seguita da “The Covers Record” (2000).
Interamente prodotto da Cat Power, “COVERS” include i brani rivisitati di Frank Ocean, Bob Seger, Lana Del Rey, Iggy Pop, Jackson Browne, The Pogues, Nick Cave e molti altri, oltre ad una nuova versione di “Hate”, brano dell’artista contenuto in “The Greatest” (2006) e qui rinominato “Unhate”.
CAT POWER, con la sua intensa e complessa vitalità, è per gli organizzatori del Festival una vera e propria conquista: “Cat Power è il simbolo dell’eccellenza musicale e siamo fieri che abbia scelto il palco di Sexto ‘Nplugged.”

Woodkid sarà invece sul palco sabato 23 luglio 2022, per i dettagli del concerto e del tour italiano di Woodkid, leggi questo articolo.

Il piccolo e prezioso borgo medioevale di Sesto Al Reghena, incastonato all’interno di spazi naturalistici di rara bellezza nella provincia di Pordenone, ha una lunga storia che risale già all’età del bronzo ed è noto soprattutto per il complesso dell’Abbazia di Santa Maria in Silvis, fondata nel 730-735.
Per l’architettura del luogo, la sua storia antica e la splendida area naturale in cui è immerso, è stato eletto come uno dei borghi più belli d’Italia.

Sesto Al Reghena è uno spazio inclusivo e poliedrico, votato alla musica, all’arte e alla cultura in ogni sua forma, in grado di creare un legame magico, indissolubile e reciproco con gli artisti che ospita ogni anno.

Prevendite Ticketmaster.it

Vinicio Capossela a Volterra, prima città Toscana della Cultura 2022

Sabato 2 aprile alle 18 in Piazza dei Priori Vincio Capossela, accompagnato da Armando Punzo e dagli attori della Compagnia della Fortezza, realizzerà Voglio sognare un uomo, concerto event specific realizzato ad hoc per Volterra22: un “pezzo unico” non più ripetibile che mescolerà le esperienze, il repertorio e il sentire degli artisti coinvolti.

La Compagnia della Fortezza per esempio, attingerà dallo spettacolo cult Hamlice – saggio sulla fine di una civiltà (Ubu miglior regia), portato in scena nel 2010.

Il concerto in piazza sarà preceduto alle 15 da una prima parte di spettacolo all’interno del Carcere di Volterra che vedrà protagonisti sempre Capossela e la Compagnia della Fortezza (posti limitati ingresso su autorizzazione) e che segnerà simbolicamente l’avvio di Volterra22 città che ospita un carcere dove attraverso importanti percorsi culturali ogni giorno da oltre trent’anni vengono scritte nuove pagine della rigenerazione umana.

Proprio poche settimane fa è stato avviato il bando di gara per lo studio progettuale del Teatro stabile che sarà realizzato all’interno del Carcere ma aperto anche al pubblico esterno, un luogo unico al mondo e simbolo della rigenerazione umana attraverso la cultura.

Il concerto vedrà anche la partecipazione di Giovanni Truppi, con il quale Vinicio Capossela si è esibito in duetto al Festival di Sanremo in Nella mia ora di libertà, un famoso brano di Fabrizio De Andrè che tocca, tra gli altri, il tema del carcere.

Il concerto del 2 aprile sarà il primo appuntamento di Volterra22, il cui calendario completo sarà annunciato in occasione di una conferenza stampa che si terrà martedì 29 marzo alla presenza del Presidente della Regione Eugenio Giani (ore 12,30, Regione Toscana).

Armando Punzo, pluripremiato Premio Ubu, ideatore del teatro stabile in carcere, fondatore e direttore artistico della Compagnia della Fortezza, sottolinea l’aspetto artistico del dialogo con Capossela: “Ci siamo incontrarti con Vinicio e abbiamo lungamente chiacchierato. Non è solo il fatto di incontrarci dal punto di vista umano, ma è importante capire come farlo dal punto di vista artistico e cogliere appieno lo scambio che si genera tra lui, me e gli attori della Fortezza. Questo momento fa parte di quelle esperienze fondamentali per la Compagnia che vanno ad accrescere ulteriormente la necessità del Teatro stabile, un progetto che si sta trasformando ormai in realtà. Credo che il teatro sarà un buon custode delle saggezze che scaturiscono da questi momenti”.

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Woodikid, i video di Yoan Lemoine e le due date italiane

Woodkid è il nome d’arte dietro il quale si cela il parigino Yoan Lemoine. Artista proteiforme che viene da un background visuale di tutto rispetto. Studia infatti animazione all’Emile Cohl School laureandosi a pieni voti e mette in pratica le sue competenze per videomaking e vfx anche per altri, dirigendo videoclip, impiegando le sue conoscenze in ambito videoludico e girando i suoi stessi video.

Nel 2011 da vita al suo progetto musicale con il moniker di Woodkid. Numerosi EP, il debutto full lenght nel 2013 (The Golden Age), la colonna sonora per “Desierto” di Jonàs Cuaròn e altre prestigiose collaborazioni. Ci mette sette anni per pubblicare il secondo album, S16 esce nel 2020 per la Island e interpreta a modo suo la fine del primo difficile anno pandemico. Veicolato da una serie di video da lui diretti che esasperano il gusto per la location magniloquente e il set di matrice cinematografica, conferma la volontà dell’artista di esprimersi a 360 gradi con un approccio dove ogni fase, dal lyric video ai visual performativi, è sotto il medesimo controllo e al servizio di un concept che si serve del mezzo visuale come un prolungamento di quello compositivo.

Woodkid sarà in Italia per due date. Giovedi 21 aprile all’Alcatraz d Milano e Sabato 23 luglio a Sesto al Reghena in Piazza Castello per Sexto’nplugged.

Prevendite disponibili su www.ticketmaster.it e www.ticketone.it

Gumo, il video di Trying diretto da Juri De Luca

Nato da un’idea di Juri De Luca, bassista dei Gumo, ma anche fotografo, il video di Trying è l’ultimo singolo e video tratto da Dark the Water, l’album pubblicato dall’etichetta Fresh Yo! nel 2020.

Su indie-eye è possibile recuperare il percorso più recente della band toscana, attraverso i video di Asking e No-one, quest’ultimo girato dallo stesso De Luca, con in mente il filmmaking DIY di Dave Markey.

Il viaggio è al centro anche di “Trying”, dove un’occasione di lavoro negli States diventa il modo per incontrare Alberto Serafini, voce, chitarra e batteria della band, che vive ad Austin, in Texas.
Girato in parte con Alberto, ma anche a Castiglion Fiorentino, è stato realizzato con la tecnica dell’hyper-lapse, con centinaia di fotografie messe poi in sequenza, con una variante delle tecniche stop-motion.

Sono ben 8.000 le foto impiegate per realizzare il video, montate in fase post da Alessandro Zorio.

Giocoso, scanzonato, ma anche attraversato da un consapevole e mai involuto disincanto, segue l’esortazione del brano stesso: un provarci che risiede tra artigianato e positiva ostinazione.

Introdotto da una citazione del visionario poeta austriaco Peter Rosegger, tra i cantori più intensi di una natura non riconciliata, segue la giornata di un artista indipendente, sospesa tra la lettura, l’ascolto, la scrittura, l’ipotesi di formare una band, il contatto con l’industria e il denaro. Il tutto elaborato come se fosse una graphic novel, integrando quindi il linguaggio dei fumetti e del cinema, citazioni incluse: una per tutte, la nota “briefcase” di Pulp Fiction con combinazione 666 e allo stesso tempo, l’interpolazione Aldrichiana da Kiss Me Deadly, da cui Tarantino aveva a sua volta attinto.

Il video, oltre ad essere un estratto da Dark the Water, veicola il nuovo EP della band disponibile su bandcamp, intitolato The Bathroom Session.

Gumo – Trying, il video di Juri De Luca

June of 44 in Italia a Maggio: Bologna, Genova, Pisa, Orani

June of 44, la storica band statunitense che insieme ad altre ha dato vita alla scena più creativa degli anni novanta, celebrerà sui palchi italiani la loro musica con la storica formazione costituita da Jeff Mueller, Sean Meadows, Fred Erskine e Doug Scharin. Provenienti dalle esperienze con i Lungfish, Codeine, Hoover e i seminali Rodan, proprio a partire da queste due ultime band svilupperanno un’estetica unica, per intenzioni, scelte sonore e attitudini, andando decisamente oltre quelle premesse e rinnovando totalmente le intuizioni dei Fugazi e di tutta la scuderia Dischord.

Post-hardcore, psichedelia, improvvisazione, echi latini e un jazz mai riconciliato, sono le caratteristiche di un sound che dal vivo esplode e si espande senza limiti. Daranno vita ad altri progetti, tra cui Him, Sonora Pine, Shipping News, i misconosciuti Everlasting the way, per citarne solo alcuni.

Tornano nel 2020, a 20 anni di distanza dall’ultimo album Anahata, pubblicando “Revisionist: Adaptations and Future Histories in the time of Love and Survival”, distribuito in Europa da La Tempesta e in America da Broken Clover.

La band sarà in Italia per 4 concerti da non perdere, con l’opening act dei bolognesi Yaguar (solo per le prime tre date) band costituita da Massimo Mosca (Three Second Kiss, Humans), Massimo Tonelli (Kindergarten e Anima Di Mais), Andrea Boni e Sergio Carlini (Three Second Kiss, Jowjo, Serra-Carlini), ovvero un pezzo di post-rock dall’altra parte dell’oceano.

I quattro concerti sono

  • 25 maggio al Locomotiv di Bologna
  • 26 maggio a La Claque Teatro della Tosse di Genova
  • 27 maggio al Lumiere di Pisa
  • 28 maggio allo Here I Stay Festival di Orani, in provincia di Nuoro.

Info GREEN PASS: per tutti gli eventi a partire dal 6 dicembre sarà necessario essere in possesso del Super Green Pass a partire dai 12 anni di età (avvenuta vaccinazione contro il Covid-19 oppure certificazione di avvenuta guarigione dal Covid-19).

I biglietti per il concerto di Pisa si acquisano su Dayticket

La Prima Estate, Lido Di Camaiore: Musica, sole e spiaggia, acquista i pacchetti fino al 31 Marzo

D’Alessandro e Galli lanciano un nuovo concept e lo fanno combinando la voglia d’estate con un calendario musicale di tutto rispetto che rimette al centro il Lido di Camaiore . Dal 21 al 26 Giugno, presso il Parco de La Bussola Domani sarà allestito La Prima Estate, dove si avvicenderà una line-up di altissimo livello, dai The National ai Duran Duran, fino allo straordinario Anderson.Paak e a Jamie XX.
Fino al 31 di marzo sono disponibili pacchetti che consentiranno di acquistare a prezzo speciale i biglietti dei concerti unitamente alla prenotazione di un soggiorno in hotel e l’affitto di un ombrellone in spiaggia, con sconti fino al 25%. Tutti gli operatori balneari e le strutture ricettive in partnership, si trovano ovviamente a pochi passi dal Parco Bussola Domani.

Il festival, oltre ai concerti, il soggiorno e la spiaggia, integrerà anche una serie di “experience” in ambito sportivo, artistico ed enogastronomico, per trasformare il Lido in un grande villaggio e inserire l’evento nel contesto più ampio delle attività legate al territorio versiliese. Tra le attività annunciate: bici, sup, surf, yoga sulla spiaggia, cooking class, trekking in collina.

Le offerte, disponibili fino al 31 marzo, includono una serie di combinazioni Biglietto + Hotel + Ombrellone.

Alcuni esempi e prezzi

Per la prima serata, quella del 21 giugno con headliner The National:
2 biglietti posto unico + una notte in doppia hotel 3* + un ombrellone allo stabilimento balneare: 218 euro invece di 280 euro.

Per la serata del 23 giugno con headliner Duran Duran:
2 biglietti posto unico + una notte in doppia hotel 3* + un ombrellone allo stabilimento balneare: 218 euro invece di 280 euro.

Per la serata del 23 giugno con headliner Kraytanada e Jungle:
2 biglietti posto unico + una notte in doppia hotel 3* + un ombrellone allo stabilimento balneare: 198 euro invece di 270 euro.

Tutte le altre offerte (anche in camere triple, o in Hotel 4* e anche con biglietto Garden) potete trovarle sulla pagina Biglietti del sito.

Ecco il calendario dei concerti de “La Prima Estate” (Pacchetti e biglietti in vendita sullo shop de La Prima Estate )

Martedì 21 Giugno

  • The National
  • Courtney Barnett
  • Giorgio Poi
  • 1 artista che verrà annunciato a breve

Mercoledì 22 Giugno

  • Bonobo
  • La Rappresentante di Lista
  • Beabadoobee
  • L’Imperatrice

Giovedì 23 Giugno

  • Duran Duran
  • Easy Life
  • 2 artisti che verranno annunciati a breve

Venerdì 24 Giugno

  • Anderson .Paak
  • Frah Quintale
  • Joan Thiele
  • 1 artista che verrà annunciato a breve

Sabato 25 Giugno

  • Jamie XX
  • Cosmo
  • Mura Masa dj set
  • 1 artista che verrà annunciato a breve

Domenica 26 Giugno

  • Kaytranada
  • Jungle
  • BadBadNotGood
  • 1 artista che verrà annunciato a breve

Marta Del Grandi in Sala Vanni: l’intervista alla talentuosa musicista

Marta del Grandi è reduce dal Fire Records at SXSW, dove ha suonato il 17 marzo scorso nel contesto di un grande showcase esteso allestito della storica etichetta, insieme ad artisti del calibro di Jad Fair, The Dream Syndicate, Evan Dando, Kristin Hersh e alcune tra le nuove voci del roster Fire Records, come Lucy Gooch e Marina Allen, che con Marta ha condiviso la location dell’Hotel Vegas.
La cantante e vocalist italiana, ma con esperienze e vocazione internazionali, presenterà anche a Firenze i brani del suo nuovo album pubblicato per Fire Records nel 2021. Sarà infatti ospite della rassegna “Tradizione in Movimento” organizzata da Musicus Concentus, il prossimo 25 marzo presso Sala Vanni, in Piazza del Carmine 14 (Marta Del Grandi, prevendite).

Until we fossilize“, pubblicato nel novembre 2021 non è la prima esperienza discografica di Marta Del Grandi né viene fuori dal nulla. Fa parte di un percorso preciso, dalle caratteristiche fortemente apolidi, che celebra anni di studio, di ricerca e di attività intorno alla musica vocale e soprattutto si riferisce ad una concezione ben precisa della voce. Parte dallo studio e dalla prassi Jazz l’esperienza di Marta, ma non si esaurisce in quella dimensione, riletta attraverso contaminazioni e continue mutazioni dell’identità musicale. La terra e la sua morfologia, indagano sommovimenti che interessano altre forme, oltre al racconto suggerito dai cambiamenti geologici. C’è tutto un mondo animale e umano che popola le sue canzoni, questo punta ai movimenti del cuore, strappando alla forma dello standard derive inattese. Anti-standard che ci consente di parlare alternativamente di folk, Jazz, chamber-pop, laptop music oppure ambient, segno di una creatività proteiforme che parte dalla profonda centralità della voce intesa come strumento, per generare un mondo che risiede tra immagine, parola e trasformazione della stessa in suono.

Il percorso di Marta Del Grandi ha un innegabile fascino, anche in termini formativi, rappresenta infatti un esempio virtuoso di quelle connessioni e possibilità globali che dovrebbero consentirci di uscire dal proprio recinto locale, con una visione più forte di musica e di convivenza.

Abbiamo scoperto questi percorsi insieme a Marta in questa lunga e stimolante conversazione.
Si legge dopo il videoclip.

Marta Del Grandi su Spotify

Marta del Grandi – Somebody New – Il videoclip diretto da Andrea Luporini.
Con le coreografie e le performance di Alice Parodi e Lorenzo Diofili.

Voci dall’anima del mondo: una conversazione con Marta Del Grandi

Ho raggiunto Marta Del Grandi via Zoom, in video conference, durante il suo velocissimo passaggio Newyorchese, dove sta costruendo una tessera del puzzle che costituirà il nuovo lavoro e poco prima di entrare in studio con il grande Shahzad Ismaily, musicista, compositore, ingegnere del suono e produttore che ha suonato e collaborato con alcuni dei più grandi musicisti del pianeta.

Marta è un’artista entusiasta e completamente immersa in quello che fa. Ha un senso molto specifico dei processi e della prassi che possono condurla alla scrittura e allo sviluppo di un brano, non importa se deve imboccare strade non convenzionali, perché sperimentare è evidentemente una questione di confini: forzarli e piegarli allo scopo di ottenere un’ “ondulazione”, termine che rubo dalla nostra conversazione.
Nei viaggi tra l’Italia, Belgio e Nepal, ha costruito un mondo proteiforme intorno alla sua concezione di musica, che spazia dalla ricerca vocale, fino alla formazione e all’organizzazione di eventi, attività che le ha consentito di costruire un ponte tra il Nepal e il mondo occidentale, con l’iniziativa Sofar Sounds Kathmandu e l’agenzia WASP che condivide con il marito. In entrambi i casi importa musica internazionale in Nepal e crea le condizioni affinché alcuni eventi possano prendere forma in una città stimolante e piena di possibilità come Kathmandu.

I suoi progetti e i suoi interessi sono numerosi, abbiamo provato a metterli insieme in questa lunga intervista, seguendo un percorso quasi cronologico e mettendo al centro l’elaborazione di “Until we fossilize”, l’album pubblicato per la prestigiosa Fire Records.

Un ringraziamento speciale a Lorenzo Migno, ufficio stampa di Tradizione in Movimento, tra quelle sempre più rare persone, almeno a Firenze, capaci di creare connessioni e stimoli, fuori dai meccanismi ripetitivi della promozione e più vicini al cuore della cultura.

Marta Del Grandi su Instagram

Marta Del Grandi – Until We Fossilize, artwork

C’è davvero un mondo apolide da esplorare nella tua stratificatissima esperienza artistica, proprio per questo vorrei dare una forma esplorativa a questa conversazione, partendo dagli inizi.  Nelle tue prime esperienze con la voce nel contesto milanese, hai cominciato a studiare la tecnica, ad applicarla, per poi trasferirti in Belgio. Ci puoi raccontare questo passaggio, dagli ambienti milanesi dove facevi le tue prime esperienze con la vocalità Jazz, fino al perfezionamento in Belgio?

Ho cominciato a studiare Jazz quasi per sbaglio. Facevo il primo anno di università. Ma avevo sempre cantato, sin dai tempi delle scuole medie. Proprio durante l’inizio degli studi universitari, mi sono resa conto che il canto mancava molto alla mia quotidianità, non volevo assolutamente eliminarlo dalla mia vita. Casualmente ho scoperto questa scuola, che si chiamava “I civici corsi di Jazz”, parte della Scuola Civica di Milano. Ho fatto un’audizione, senza conoscere niente di quella tradizione musicale e portando un brano di Nina Simone, qualcosa che era tra il Jazz e la musica pop-soul. L’audizione è andata bene e ho cominciato a studiare in quel contesto. Da quel momento in poi è nata una grande passione, quasi maniacale, per questa musica. I primi anni di studio sono stati ossessivi nei confronti del repertorio, della tecnica, della voglia di suonare con altri musicisti e di esplorare quel tipo di interplay, oltre allo stile stesso della vocalità Jazz. Tra tutto questo, molta sperimentazione europea, tra cui devo citare Norma Winston, che è un vero punto di riferimento per le cantanti della mia generazione, sicuramente di quella precedente, ma credo anche della successiva. La Winston ha aperto le porte ad un tipo di canto diverso, più vicino all’uso della voce come strumento. Questo mi ha avvicinato all’idea di studiare nel Nord-Europa, perché l’interesse verso questo tipo di canto, sicuramente più prossimo a certe forme contemporanee di canto sperimentale, mi ha spinto a studiare in Europa invece che negli Stati Uniti. Ti dico questo perché in effetti ci sono cantanti che hanno fatto il mio stesso percorso di studi e che poi hanno scelto La Berkeley o la New School. Intendiamoci, gli Stati Uniti mi piacciono. Adesso sono a qui a New York, dove collaboro con questo grande produttore che si chiama Shahzad Ismaily, che ha questo studio che si chiama Figure 8 Recording. Ha senso lavorare con un produttore come lui proprio per il percorso di studi che ho fatto, di matrice prettamente Europea. Quando ho scelto il Belgio mi sono trasferita a Gent dove c’è una scena molto eclettica, poco swing e poco tradizionale. Ho avuto la possibilità di entrare al Royal Conservatory, una scuola molto attenta alle intersezioni con il pop. Avevamo la possibilità di studiare insieme ai ragazzi che facevano il percorso di music production, che lavoravano in studio, con il suono, con la produzione. Quindi non solo sperimentazione e Jazz, ma anche forma canzone attraverso diversi generi. Una possibilità che mi ha consentito di comprendere il processo di produzione di un brano in tutte le sue fasi. Vivere a Gent è stato fondamentale, anche per le agevolazioni che gli studenti possono ottenere, a partire dalla possibilità di utilizzare gli studi gratuitamente, andare a tutti i concerti che ci sono in città e a volte in tutta la regione, pagando un prezzo simbolico di sole cinque euro, una cosa impensabile in Italia e che se ci pensi, limita molto l’evoluzione di un giovane artista nel nostro paese, perché poter fruire di tutti gli eventi che passano dalla città dove vivi, ti consente di essere esposto a continui input.  Nel pre-pandemia Gent era una città in pieno fermento, ogni giorno anche nei pub c’erano concerti, Jam session, eventi musicali di ogni genere, dal pop al manouche, passando per blues, Jazz, post-rock, musica elettronica. Se ci pensi è la città di Soulwax e 2manydjs, quindi molto aperta alle contaminazioni.

Quello che dici è molto interessante, perché a proposito di contaminazioni mi incuriosiva capire a che punto arriva la tua prima esperienza discografica, il progetto Martarosa. “Invertebrates” ha forse una confezione più pop rispetto al tuo nuovo lavoro. L’hai pubblicato nel 2016 quando appunto eri a Gent. In termini di scrittura immagino che tutto fosse in divenire…

Quel lavoro è arrivato quando ho finito la scuola ed era completamente autoprodotto. Avevo la necessità di pubblicare qualcosa. Per quanto avessi imparato molto a livello teorico sull’idea e la prassi della produzione, tutto era ancora acerbo. Inoltre non avevo molta conoscenza dell’industria musicale, non sapevo come avrei potuto pubblicare diversamente l’album di Martarosa. Ero un’artista straniera in Belgio e questo mi ha limitato molto nel contatto con eventuali label o edizioni. Se fossi stata in Italia forse ci sarebbe stata la possibilità di entrare a far parte di un roster. Ma è stata una cosa del tutto naturale: pubblicarlo in quel modo. Come dicevi tu, la scrittura era un processo in divenire. Oltre a te, altre persone recentemente mi hanno detto che Martarosa sembra un progetto più pop, ma per me, a livello compositivo, è un disco più Jazz. Ci sono molti più accordi e sequenze armoniche che si riferiscono al periodo degli studi, tant’è quando ascolto di nuovo alcune cose mi dico: “ok, questo l’ho scritto così perché andavo a scuola”.
A livello di produzione c’è davvero poco. È stato registrato live, con alcuni musicisti di Gent che sono miei carissimi amici e che studiavano con me. Tutto questo rientrava nel progetto di diploma che dovevo portare alla fine del percorso di studi. Dopo aver frequentato il master, si dava ovviamente per scontato che io conoscessi la tradizione, per questo veniva lasciata totale libertà di scelta per il progetto finale. Era un modo per definire il percorso di un musicista e capire quale strada avrebbe intrapreso. A Gent avevo partecipato a moltissime jam-session, avevo una data settimanale dove cantavo, potevo quindi chiedere la collaborazione a diversi musicisti. Tutto quel repertorio è suonato con il contrabbasso. Fa eccezione solo “Shoes, Rocks and Boxes”, che è il singolo, dove c’è il basso elettrico. Il disco è registrato a Brescia con un produttore che si chiama Pier Ballarin. In quel momento aveva un’idea più chiara della mia, tant’è non ero presente quando è stato fatto il mix. In questo senso lo ritengo un lavoro poco maturo dal punto di vista produttivo. Adesso non potrei lavorare così, devo essere presente anche in quella fase e in ogni caso, tutte le mie pre-produzioni hanno già un’idea di quello che dovrà essere il mix.

Marta Del Grandi – foto di Rishi Jha

Le esperienze cinesi e nepalesi in che modo arrivano e come cambiano la tua percezione della musica e della voce?

Diciamo che l’esperienza in Cina è del tutto anomala e riguarda principalmente un periodo legato al mio lavoro come insegnante. Ma non ho trattenuto molto da quell’esperienza. Sicuramente importante a livello di crescita personale, ma devo trovarle ancora una collocazione e un senso preciso…

…quella nepalese è ovviamente centrale…

 Si. È iniziata nel 2014 dove ho fatto uno stage, ed è stata interessante a livello di crescita personale. Mi ha aperto gli orizzonti anche riguardo al mio ruolo nel mondo. Non avrei mai pensato di poter creare sinergie importanti in un posto così lontano. È stata un’esperienza importante anche a livello compositivo perché ho scritto molto quando ero li. Alcuni di quei brani hanno poi costituito parte di “Invertebrates”, l’album registrato come Martarosa. Successivamente, quando ho lasciato il Belgio, mi sono trasferita in Nepal perché ho incontrato una persona con cui avevo un forte legame e con cui adesso sono sposata. Abbiamo vissuto due anni e mezzo in Nepal. Una seconda esperienza decisamente più lunga e molto importante per le varie sinergie che si sono create. Questi nuovi contatti mi hanno consentito di organizzare un festival e curare residenze artistiche. In termini creativi si è delineata la collaborazione, ancora in corso, con un’artista visiva e illustratrice che si chiama Cecilia Valagussa, con la quale ho collaborato, anche in forma intensiva, per diversi periodi dell’anno, elaborando produzioni e performance…

…lavoravate a distanza?

Solo in parte. Cecilia vive a Bologna, ma per due lunghi periodi è venuta in Nepal dove abbiamo lavorato a due spettacoli. I nostri sono spettacoli che integrano il teatro delle ombre…

Fossick Project (Marta Del Grandi e Cecilia Valagussa)

…si, ho visto alcuni video, il Fossick Project. C’è molto teatro di figura, ombre, protocinema, suggestioni molto interessanti. Mi interessava capire come viene integrato il tuo lavoro di scrittura musicale e vocale, con quello delle immagini…

È stata una salvezza, perché tutto è accaduto in un momento in cui ero molto bloccata a livello di scrittura, dopo l’esperienza con Martarosa. Dopo essermene andata dal Belgio quel progetto è finito e a livello di scrittura ero in mezzo ad una transizione complessa. Lavorando con Cecilia, l’ispirazione non manca mai. Lei è un po’ un vulcano di idee, immagini, visioni. Negli anni ho capito che questo aspetto mi aiuta molto. Lavorare alla sonorizzazione di un’idea visuale. È stato in quel momento che ho capito di dover produrre con un computer e con un software. Di fatto io non sono una strumentista. Il mio strumento è la voce. Suono il piano, non troppo bene e la chitarra la suono decentemente. Rispetto ad uno strumentista che ha estrema libertà sulla tastiera, io non ho lo stesso tipo di possibilità. Il computer mi ha consentito di uscire da alcuni cliché, per sviluppare molteplici possibilità. Il mio approccio è intuitivo e nella produzione sonora degli spettacoli avevamo bisogno di una varietà molto ampia. Faccio anche sampling. Uso anche tecniche poco ortodosse e mi servo dello smartphone per campionare, magari un purista storcerebbe il naso…

…mi sembra in realtà molto interessante, un approccio più diretto e forse anche organico al dispositivo…

…si, assolutamente, soprattutto se penso alle mie influenze di quando ero molto più giovane, come per esempio le Cocorosie.  

In questo senso mi interessava capire come paesi così diversi con cui tu hai stabilito una relazione personale e creativa, abbiano in qualche modo innestato elementi culturali, che riguardano anche la tradizione musicale.

Diciamo che a livello culturale queste esperienze gradualmente hanno confermato una certezza che io non posso capire. L’aspetto che ho maggiormente compreso è che io non posso capire. Il Nepal, in termini sociali, è molto più simile all’Italia, mentre in Belgio non riuscivo a capire molto bene le dinamiche e le interazioni sociali. In Nepal è immediatamente più semplice entrare in relazione con le persone e capirsi. Più vai avanti più ti rendi conto di enormi differenze culturali, molto profonde, che io non sono in grado di comprendere. Tra l’altro, ho scritto una tesi finale che metteva in parallelo la struttura di alcuni Raga Indiani con le scale modali jazzistiche. Ho studiato anche alcuni esperimenti desunti dalla collaborazione di Jazzisti con musicisti della tradizione classica indiana. Alcuni di loro hanno fatto ricerche approfondite che sono durate molti anni. A livello sonoro ed espressivo mi interessa molto, anche per l’approccio meditativo al metodo di studio e alla prassi, ma ho sempre fatto molta fatica ad assimilare personalmente tutto questo in una forma collaborativa. Andare in profondità è molto difficile. Anche con Fossick Project c’è stato un tentativo in questo senso, durante una residenza in Rajasthan, dove c’è una tradizione legata al teatro delle marionette. In questa forma c’è sempre un musicista in scena. Li abbiamo visti e grazie ai curatori, abbiamo incontrato i musicisti e l’attore, con il permesso di registrare le cose che facevano. Parte di quelle registrazioni sono diventate un sample che si è integrato nei nostri spettacoli. Siamo entrate in contatto con quella cultura, abbiamo fatto molte residenze, tra Nepal, India e Thailandia. Ovunque andavamo, Cecilia è riuscita a fare degli sketch, assimilare alcuni aspetti di cultura tradizionale locale e poi rielaborarli. Nella musica questa cosa è meno visibile, tranne forse nei sample, anche quelli dove catturo suoni di animali. Da qualche parte, in profondità, ci sono sicuramente altri elementi, ma non li ho notati in modo evidente.

Marta del Grandi – Taller Than His Shadow

Prima di parlare del nuovo album, mi piaceva soffermarmi su “Taller than his shadow”, il brevissimo brano che introduce il disco, parte della colonna sonora di “Radical Landscapes”, il documentario found footage di Elettra Fiumi, ispirato all’esperienza fiorentina del padre Fabrizio e del movimento radicale di architettura e design. Come mai hai utilizzato quel brano e soprattutto, rispetto al concept dell’album era stato concepito prima?

Il brano l’ho scritto durante il primo lockdown. Ho conosciuto Elettra due anni prima, avevamo partecipato ad un evento realizzato allo Space Electronic di Firenze, una celebrazione-revival di quello che era stato lo Space. Non conoscevo il Gruppo 9999, un po’ di più i Superstudio, perché provengo da una famiglia vicina all’architettura. Il loro approccio visionario mi è piaciuto subito e chissà, se li avessimo ascoltati, forse saremmo messi un po’ meglio. La collaborazione era come Fossick Project, tant’è Cecilia ha realizzato anche alcune parti visive per il film, che ancora non è uscito. Elettra voleva che aiutassimo a sviluppare il lato emotivo, legato alla relazione con il padre. Il documentario è in particolare sulla figura di Fabrizio Fiumi. Voleva una canzone che parlasse di lui come persona. Ha quindi condiviso materiali personali che ci hanno consentito di far nascere questa piccola canzone. Un piccolo, strano, interludio che non ha un metro ben preciso, inizialmente suonato con la chitarra e che nel film è presente in una versione diversa rispetto al disco. Proprio in quel periodo mettevo insieme i pezzi per “Until we fossilize”. Un lavoro in quel momento difficile e faticoso, perché ancora non avevo un’etichetta di riferimento. Ho scelto quindi dei brani molto vecchi, come “Totally fine” e “Lullaby firefly”. Altri che erano stati scritti originariamente per Fossick Project, altri ancora che appartenevano a momenti diversi. Alla fine, quando stavo chiudendo tutto, ho pensato che avrei voluto inserire anche “Taller than his shadow”. Ho prodotto una versione molto diversa, dark ambient se vuoi. Quasi una intro di questo racconto che è “Until we fossilize”…

…ecco, mi sembra che pur nella provenienza diversa dei brani, tu gli abbia dato una forma complessiva concettuale, abbastanza forte…

Il lavoro fondamentale da fare era proprio questo. Vengo da un’esperienza molto eclettica, io stessa mi trovo a combattere con questa natura che tende in quella direzione. Per me è sempre molto importante a livello creativo non fare sempre la stessa cosa e trovare modi espressivi diversi. La forma canzone, per esempio è una tavolozza interessante. Mi piace la dimensione più tradizionale, ma credo sia bellissimo sperimentare con modi e forme diverse. La produzione è stato il momento più importante, è quella che ha dato un senso al disco.

 E come sei arrivata alla Fire Records?

A un certo punto ho cominciato a lavorare con Jacopo Beta, dell’agenzia Hangar Booking. In quel periodo lavorava per il Linecheck – Music Meeting and Festival di Milano, e aveva selezionato il mio progetto per uno showcase di progetti emergenti che non erano stati pubblicati. Ho inviato alcune demo non finite e registrate in modalità molto DIY. Molto colpito dai brani, mi ha proposto di partecipare e abbiamo fatto questo showcase online davanti ad una sala vuota. Per il live avevo messo insieme un trio di musicisti che tra l’altro suoneranno con me il 25 di marzo in Sala Vanni, oltre a me quindi c’erano e ci saranno la violista e sound designer Federica Furlani e la cantante Gaya Misrachi che suona anche il synth. Gaia l’ho conosciuta in Nepal, ho ascoltato le cose che faceva e l’impostazione vocale mi sembrava molto compatibile con la mia. Al mio fianco avevo bisogno di una cantante che lo fosse per davvero, ovvero non una corista o una polistrumentista, ma una cantante che avesse una sua espressione e una forza vocale. La sinergia in trio ha funzionato molto bene. Da quel live ho cominciato a collaborare in modo più specifico con Jacopo e proprio con me ha provato a intraprendere un nuovo percorso di management, da un certo punto di vista una cosa nuova per entrambi. È proprio lui che ha cominciato a inviare le demo alle etichette. Sin da subito è stato molto ambizioso e ha inviato il materiale quasi esclusivamente ad etichette statunitensi e inglesi. Da un certo punto di vista, al di là dei legittimi sogni di ciascuno, è davvero improbabile che ad un’artista del sud dell’Europa, capiti di dover pubblicare il primo disco con un’etichetta di rilievo del panorama alternativo internazionale. Al contrario è stato davvero sorprendente che l’offerta concreta da parte di Fire Records sia arrivata la settimana dopo aver concluso questi mix. Ci ha dimostrato grande entusiasmo sin da subito per il risultato, così come era. Io avevo fatto tutto da sola, senza le indicazioni di un’etichetta. Al di là di questo, il lavoro con Shahzad Ismaily è stato davvero determinante. È un musicista rispettato in tutto il mondo per il suo talento. Ha suonato con Marc Ribot, Bill Frisell, ha collaborato anche con Laurie Anderson. Ha fatto anche il live streaming con Bob Dylan, proprio l’anno scorso. Collabora poi con Bon Iver, Damien Rice e molti altri artisti di grande livello. Lascia un’impronta sulla musica su cui mette le mani. Nonostante abbia fatto personalmente la produzione del disco, il mix e la direzione che lui mi ha dato è stata molto importante. Inoltre ha suonato anche le batterie…

…è molto interessante quello che dici. C’è un tipo di equilibrio molto raro nel tuo disco, un suono complessivo per certi versi inafferrabile, capace di elaborare vicinanza con elementi più organici e concreti. Una forma di elettronica invisibile che si contamina con altri elementi. Come hai raggiunto questo risultato in termini tecnici e creativi lavorando a distanza e quanto è stato importante il contributo di Shahzad Ismaily?

Bella domanda. Non so come sia successo. I brani provenivano da momenti diversi della mia vita. Il repertorio era quindi molto variegato per come lo sentivo. Ho fatto anche molta fatica per capire come avrei registrato questo disco. Come per le altre esperienze pensavo che sarei andata una settimana in studio con una band, sicuramente con Federica e con altri musicisti tra cui un batterista londinese. Era la fine del 2020 e durante il lockdown era del tutto impensabile. Era quindi altrettanto impensabile che in quella settimana sarei riuscita a coinvolgere un bassista per tirar fuori il suono che volevo, senza dover cambiare la natura del musicista che veniva in sala. Ho lavorato a Milano in quel periodo e durante il lockdown non ho visto nessuno, tranne Federica che è un’amica decennale. Flavia Massimo, violoncellista abruzzese, altra cara amica, la volevo per la registrazione dei violoncelli. Pensavamo di registrare insieme almeno questi due strumenti. Sono arrivate la seconda e la terza ondata del Covid 19 e Flavia non poteva spostarsi dall’Abruzzo. Abbiamo allora registrato tutto da remoto. Io ho fatto alcune pre-produzioni su Ableton con strumenti midi. Il tutto con un’esperienza di arrangiamento del tutto teorica, legata ai miei studi e un approccio empirico per lo più connesso all’ascolto degli archi, non alla prassi. Ho quindi registrato le tracce midi di guida, Flavia e Federica hanno registrato le loro parti e insieme a Davide Tessari, fonico e live engineer milanese, abbiamo registrato altri strumenti tra cui il pianoforte, le chitarre, infine le voci, che ho registrato in parte a casa e le restanti in studio con lui. Avevo una deadline precisissima con Shahzad, che era ovviamente impegnatissimo. Per quel giorno avrei dovuto finito tutto senza sgarrare. Eravamo in Skype Call, lui ha registrato le batterie e il moog su “Shy Heart”. Ha rispettato molto la mia idea di arrangiamento, incoraggiandomi a mantenerla. Per gli export ho capitalizzato l’esperienza fatta con Howie B., il noto produttore, con il quale ho collaborato per Fossick Project e con cui collaborerò di nuovo proprio per un disco a nome del progetto.
Il mix è stato fatto in live streaming, un’esperienza bella e molto strana…

Marta del Grandi, foto di Valentina Sommariva

…strana ma interessante, sicuramente una prassi che ha accomunato molti musicisti in questi due anni, ma che nel tuo caso mi sembra complessa e stimolante, anche in termini di risultato. “Until we fossilize” è infatti un progetto ricco di registri e un’esperienza sonora liberatoria. Tutto il contrario della claustrofobia dell’isolamento. Un risultato miracoloso, se posso dirlo…

Ti ringrazio molto. Effettivamente miracoloso. Poteva essere anche un disastro (n.d.a. ridiamo). C’è anche un buon livello di fortuna. La fortuna di lavorare con musicisti molto bravi. Di poter lavorare con Shahzad. E anche con Fire, molto rispettosa di quell’idea. E alla fine con un master engineer che ha rispettato il progetto. Non ha fatto un’azione molto forte sul risultato sonoro. Ma vorrei anche dire che questa modalità di lavoro mi è piaciuta molto alla fine e quindi il prossimo disco, in parte, credo che lo farò in questo modo. Sto cominciando a registrare alcune cose adesso, altre le registrerò in seguito, con l’idea che alla fine di ottobre/novembre 2022 arrivi a quadrare l’intero progetto.

È sempre difficile parlare di un album in termini estetici con chi lo ha creato, questo perché l’ascolto attiva processi, anche a ritroso, che non sono necessariamente sovrapponibili a quelli della creazione. In ogni caso vorrei tentare alcune strade. La prima è quella tematica, mi pare che morfologia della superficie terrestre, mitologia e in forma laterale, pensiero ecologico, siano al centro del tuo discorso poetico. Come mai?

Sicuramente per via di Fossick Project. Questa collaborazione è nata per il modo in cui entrambe parlavamo di animali, dalle illustrazioni di Cecilia alle canzoni che avevo scritto in quel periodo. Io lo facevo con i suoni, lei con le immagini. Poteva quindi essere un discorso comune. Partendo da questa condivisione abbiamo focalizzato una tematica più precisa, quella degli animali in estinzione. Abbiamo scoperto anche specie non molto conosciute. Il pangolino, per esempio, che è diventato conosciuto in seguito per le vicende che tutti sappiamo. Altre come l’Otarda indiana, un uccello del deserto, il Gatto Pescatore, che è un gatto selvatico. Ispirazioni che abbiamo confrontato con biologi, esperti che lavoravano con le specie in via di estinzione e alla fine tutto riconduceva alla questione ambientale. Bracconaggio a parte, molti animali rischiano l’estinzione per una questione di habitat. Il surriscaldamento che sta eliminando le zone umide è alla base di tutto ciò. Considerato che l’argomento a un certo punto è diventato predominante anche nell’agenda politica mondiale, come artisti si può scegliere di parlarne o meno. Pensavo di aver scelto di non farlo, poi alla fine mi sono accorta di averlo fatto.

Si sono d’accordo, ma credo anche che sia interessante capire, nel caso della tua musica, se al di là delle liriche, sia presente una dimensione morfologica che affronti a livello vocale, cioè se questi cambiamenti anche traumatici della natura, informano la tua tecnica vocale in qualche modo. Te lo chiedo perché la tua vocalità è cristallina e incredibilmente profonda, ma anche molto duttile…

Molto interessante la tua domanda. Non ci avevo mai pensato, ma credo di sì. L’idea della voce come strumento, che è alla base del mio modo di cantare credo sia il nocciolo della questione. Ho ascoltato molti cantanti. Ho ascoltato molta musica vocale, tra cui molti esempi di vocalità estesa. Penso a Meredith Monk, ma anche ad artisti più giovani. Ho provato durante gli studi a sperimentare quelle tecniche, suoni profondi e gutturali, dove se abbassi la laringe, trovi altre vie. Conosco poco di quella tecnica, per me è una questione del tutto intuitiva, ma quando ero adolescente ho studiato con una cantante, Tatiana Corra, albanese ma di stanza a Torino. Nessuno la conosce perché è una cantante lirica scappata dalla guerra in Albania e che concluse in quell’occasione la sua carriera operistica, ma è davvero una cantante incredibile. Mi ha insegnato a usare la voce come se fosse un armadietto con molteplici cassetti da aprire. Ho sempre concepito la voce in questo modo, per questo mi viene da pensare che la vocalità estesa condivida questo aspetto che ti consente di scendere e di salire, dai suoni più gutturali a quelli più aerei. Se parliamo di morfologia della terra, in base anche alla domanda che mi hai fatto, ho bisogno di trovare immagini che risveglino un istinto poetico. I fossili marini sulle montagne, gli uccelli che si sentono intrappolati nel loro habitat e altre storie che racconto in “Until we fossilize”, sono elementi che scaturiscono da una necessità di esprimere le varie ondulazioni vocalmente.

Marta Del Grandi – Amethyst. Video diretto da Rishi Jha

Interessante. C’è allora una geografia di luoghi che è legata ai brani? Non importa che questi luoghi siano legati o meno all’esperienza diretta, ma capire se c’è una geografia specifica.

L’ispirazione è molto visiva come ti ho detto. Anche se in alcuni luoghi non ci sono stata, devo trovare dei riferimenti visivi per parlarne. Lo stesso vale per gli animali in via di estinzione che ovviamente non abbiamo “visto”. Li puoi studiare, puoi trovare riferimenti narrativi e poetici. La mitologia è un racconto dove troviamo già tutto. Gli archetipi sono tutti condensati nei miti e penso che questo sia così anche per la descrizione dei luoghi.

Nella scrittura dei testi invece? Considerato che per te è fondamentale il lavoro fonetico, scavi molto per fare in modo che la parola assecondi il tuo percorso vocale?

Penso di sì. Anche se la scrittura del testo è per me una prassi molto veloce. O mi vengono in mente frasi già musicate, oppure può succedere che io scriva su un quaderno parole o frasi che mi piacciono. Quando scrivo la musica, vado a vedere se in quegli appunti c’è qualcosa che potrebbe essere adatto.  Talvolta invece scrivo musica e cerco di capire che cosa mi dice. C’è una grande differenza con Martarosa, prima non ero esigente. In Martarosa ci sono secondo me molte cose sbagliate, a partire da termini non appropriati e anche alcuni errori di pronuncia. Prima di registrare le voci definitive per “Until we fossilize” e dopo una revisione attenta dei testi anche in termini di forma grammaticale, ho inviato i testi con sinossi e spiegazioni ad un’amica scozzese che è una scrittrice. Insieme abbiamo rivisto alcune cose in base ai suoi suggerimenti. Nel momento in cui ti vuoi rivolgere all’arena internazionale, non possono esserci errori. La vedo così. Un grande limite della musica europea che sceglie l’inglese è il rapporto con il pubblico madrelingua, a prescindere dal fatto che alla lingua inglese sia accaduto di tutto.

A proposito di immagini, hai già pubblicato numerosi videoclip da “Until we fossilize”. Sono tutti belli. Uno dei miei preferiti è Shy Heart, dove hai collaborato con il collettivo Ratavöloira, talentuosi filmmakers torinesi. Insieme a loro le animazioni live di Cecilia Valagussa. Trovo sia un video molto interessante, perché incorpora la stessa performance, ma non è la semplice documentazione di un evento.  Ci puoi raccontare come e dove avete lavorato al video?

“Shy Heart” era in origine un brano di Fossick Project in cui c’è un gatto, quello che vedi nell’animazione live. È una storia che ho scritto quando quotidianamente assistevamo agli incendi australiani, con immagini di animali che scappavano dal fuoco. Quando “Shy heart”, che in termini di forma canzone è il brano più forte del disco, è stato scelto come singolo, Natalia, una ragazza che lavora nella divisione publishing di Fire e che si occupa anche di identità visiva, mi permesso di capire che cosa volevamo fare visivamente. Io le avevo parlato dello spettacolo fatto con Cecilia e del teatro delle ombre, e lei da subito mi ha detto che questa era l’idea più forte, con l’ipotesi che la live session stessa poteva essere il centro del video. Dopo questi primi stimoli, ho pensato al piano sequenza come forma per sviluppare il video, un approccio differente da “Amethyst”, clip diretta da mio marito, dove il montaggio è fondamentale e molto presente. Ho quindi pensato ad un operatore steadicam, e ho coinvolto Miha Sagadin, filmmaker torinese che ha scritto uno storyboard, basato su la location di Cascina Caremma che appartiene a un mio famigliare ed è situata nella zona del Parco Sud Ticino. Il percorso che parte dall’albero, svela il gatto, l’animazione e infine chi la anima è la storia circolare che vedi nel video.

Marta Del Grandi – Shy Heart – Illustrazioni e live animation di Cecilia Valagussa
Operatore Steadicam Miha Sagadin / DOP Luca Pescaglini

Molto bello anche “Somebody New”, diretto, filmato e montato dal fotografo Andrea Luporini. Mi pare che qui Luporini crei una versione in movimento delle stratificazioni elaborate con Mohammed Tabassi, in “A garden eventually”, dove si fondono diverse visioni sui fiori per rappresentare la propria interiorità. Qui mi pare ci sia un’espansione più ampia. Mi sono chiesto se ci fosse un’intenzione simile, cioè la tua interiorità attraverso l’esperienza della natura e il modo in cui la elabori con i movimenti coreografati?

Si. Grazie davvero per questa considerazione che hai fatto. Andrea è un artista incredibile secondo me, noi ci conosciamo da tanti anni. Lui ha realizzato anche l’artwork di “Invertebrates” per Martarosa, e quando ho pensato a quella per “Until we fossilize” l’ho nuovamente coinvolto per le foto della cover, che sono quelle scattate nelle cave di Massa Carrara. Ritratti, quindi semplici, ma potentissimi. Conosco bene il suo lavoro con i fiori e anche il processo creativo che l’ha portato in quella direzione. Crea spesso qualcosa di inedito, qualcosa di nuovo, a metà tra natura, ambiente e uomo. Anche per il video di “Somebody New”, lui ha cercato di creare questa condizione. La prima è una location in studio, un backdrop nero dove abbiamo integrato i movimenti di due danzatori che interagiscono con riflessi e giochi di luce. Volevamo visualizzare il senso del brano, che parla di scoperta identitaria in termini evolutivi e non apparenti. La seconda location è esterna, nel giardino di Andrea, dove è stato usato un normalissimo faretto che è stato mosso in modo semplice, ma assai preciso, dopo un lavoro preparatorio fatto dallo stesso Andrea. Il risultato è quello che vedi, dove le piante del giardino sembrano dei coralli o comunque piante di un paesaggio marino. Con la mia presenza si aggiunge un senso di mutazione e metamorfosi, in mezzo a questa selva particolare.

È molto interessante e anche molto forte la dimensione performativa nei tuoi video. È forse la caratteristica che più di tutte li accomuna. Mettere in gioco il movimento e anche la danza in un certo senso, come controparte visuale del tuo lavoro sulla voce. Trasponi questo elemento anche nei tuoi live?

Io ho sempre usato molto le mani per esprimermi sul palco. Ma riguarda la mia storia di quando cantavo e basta. Adesso suono anche la chitarra e la libertà di movimento è ridotta. Sicuramente nei brani in cui non suono la chitarra oppure in “Lullaby Firefly” che è un solo voce, penso che si materializzi ed esca questa mia necessità di esprimermi con le mani.

In termini di line-up e live-set cosa dobbiamo aspettarci dal live del 25 marzo in Sala Vanni a Firenze?

In Sala Vanni saremo in trio come ti dicevo prima. Suoneremo i brani di “Until We fossilize”, ma anche un brano tratto dal disco di Martarosa. È un set che portiamo in giro da quando abbiamo debuttato a settembre a Jazz:Re:Found, fino a farlo diventare il più convincente possibile e anche essenziale. Non c’è una sezione ritmica, tranne dei beats programmati e dei bassi synth.

C’è in programma un tour legato all’attività di Fire e quindi concepito per i paesi anglofoni?

Sono stata per una serie di eventi showcase a South by Southwest, tra cui uno che era il Fire Records official Showcase, molto bello dove ho conosciuto musicisti americani e inglesi che non conoscevo, in particolare due del roster fire che sono Lucy Gooch e Marina Allen, con cui è stato molto bello scambiare esperienze. Fire è molto più forte ovviamente sul territorio inglese, infatti ho fatto un tour a novembre, in supporto a Brigid Mae Power e Marina Allen, e si sta parlando di fare un tour in Inghilterra entro la fine dell’anno. Questo succederà, come succederanno anche altre cose europee. Ho un agente in Francia e uno in Germania, con cui stiamo collaborando da qualche mese e che mi consentiranno di sviluppare un pubblico anche in quei paesi, perché ho ottenuto buone recensioni e anche diversi airplay in radio. 

Dei Perfetti Sconosciuti – L’amore Morde: il video e il teatro di figura di Serena Cercignano

Il teatro di Figura e il videoclip

Il recupero di tecniche d’animazione o di forme visuali di rappresentazione analogiche, nel videoclip contemporaneo passa spesso attraverso la rimediazione di contenuti e tecnologie. La pioggia di clip realizzate in cut-out animation nell’ultimo decennio la si deve in buona parte all’esplosione delle motion graphics e alle possibilità che queste offrono. Di fronte a questa progressiva flessibilità dei dispositivi e delle applicazioni di montaggio non lineare, emergono spesso tentativi che si allontanano dalle prassi grafiche imposte dall’evoluzione del mercato, cercando di innestare tecnologie primitive in forma creativa e più o meno rigorosa.

La riemersione della Stenoscopia, il mai abbandonato territorio dello stop-motion, l’uso materico dei mixed media, si oppongono e si integrano con elaborazioni lontane e vicine alla internet art che al contrario si intrattiene con i relitti e gli artefatti più o meno recenti della tecnologia.

Il teatro di figura è sicuramente una di queste eccezioni. Riduce quasi a zero la dimensione digitale del video e se nella storia del cinema gli esempi di segmenti animati con questa forma sono molto frequenti, nel videoclip li abbiamo visti più raramente. A memoria ricordiamo Twice dei Little Dragon, Eider Falls at Lake Tahoe di Kate Bush e il meno noto Home dei Nine Mile, realizzato dal collettivo Shadow of a Doubt.

Serena Cercignano, artista del teatro di Figura

Serena Cercignano, attrice, cantante, rumorista, regista, musicista di strada e molte altre cose, è anche artista del teatro di figura. Napoletana di nascita e toscana d’adozione, frequenta corsi con numerosi professionisti del settore, collaborando con realtà come The English Theatre Company e soprattutto fonda il Teatrino di Puck attraverso il quale si cimenta con burattini, ombre e narrazione. La sua missione è anche quella di far conoscere questa forma e il videoclip realizzato per Dei Perfetti Sconosciuti è un buon esempio in tal senso.

L’amore Morde, il video per Dei Perfetti Sconosciuti

Realizzato nel rispetto totale della forma e delle tecniche del teatro di figura, quindi con interventi davvero minimali in post, il video de “L’amore Morde” è un modo del tutto originale di fondere le regole dei videoclip performativi con quelle legate ad esigenze più strettamente narrative. Ne viene fuori un affascinante gioco visual che rilancia la forma del teatro di figura nel territorio di convergenza del video musicale.

“L’amore Morde”, il video della Cercignano, veicola il nuovo singolo dei toscani Dei Perfetti Sconosciuti. Il brano anticipa il nuovo album, previsto per il prossimo 18 marzo, intitolato Fuori.

Paolo Ronda, cantante e penna della band, non usa mezzi termini per descriverlo e si serve delle parole di Stephen King contenute ne “Il corpo“, uno dei racconti pubblicati nella raccolta “Stagioni diverse“: “L’amore non è quello che quei poeti del cazzo vogliono farvi credere. L’amore ha i denti, i denti mordono, i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole può chiudere le ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro

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Dei Perfetti Sconosciuti – L’amore Morde, il videoclip con il Teatro di Figura di Serena Cercignano

Silhouettes and shadows: L’amore morde e il teatro di figura. L’intervista a Serena Cercignano e Paolo Ronda

L’idea del video: come è stata sviluppata e da dove nasce

Paolo: L’ìdea del video per “L’amore morde” parte dal presupposto che questa canzone non è convenzionale per noi. Perché intrisa di suoni sintetizzati e chitarre acustiche che contribuiscono a formare un drone ipnotico. In questo senso si allontana dal rock alternativo che siamo soliti suonare per portare l’ascoltatore “altrove”; in quest’ottica abbiamo subito capito che il videoclip doveva rispecchiare l’idea del brano, essere anticonvenzionale e portare lo spettatore in un mondo giocoso e di sogno. Da qui l’idea di utilizzare il teatro delle ombre, un’antica forma d’arte che nasce in Cina, evocativa e liquida, potente e allo stesso tempo divertente, per raccontare una storia che viaggi in parallelo con il testo della canzone, ma che porti in video una storia d’amore diversa dal solito

La clip rispetta i parametri e le convenzioni dei video performativi, ma tratta l’immagine in relazione ai segmenti dove si vede il lavoro di Serena Cercignano, come mai questa scelta?

Paolo: Nel montare la storia raccontata dai personaggi ombra abbiamo scelto di mettere in scena una storia non didascalica rispetto al testo, ma sentivamo l’esigenza di esserci anche noi in video, prima come delle figure apparentemente distaccate dall’azione, in finale interagendo invece con la storia rappresentata, una convergenza che da senso a entrambi i flussi video visti fino a quel momento, per poi lasciare il campo a un cuore che vola verso lo spettatore.

Dei Perfetti Sconosciuti, l’amore morde: artwork

Potete raccontarci la collaborazione con Serena?

Paolo: Non è stato semplice trovare un’artista del teatro di figura, soprattutto nel mezzo di una pandemia. Siamo stati fortunati a conoscere Martina Ridondelli, fotografa che ha curato alcuni nostri set oltre ad essere regista in seconda del videoclip, che ci ha fornito il contatto di Serena.
E’ bastata una telefonata con Serena per capire di avere a che fare con la persona giusta, innamorata di quello che fa e capace di infonderci il giusto entusiasmo per capire che questa opera si poteva realizzare. Portare in video digitale, qualcosa di così analogico e dargli la giusta profondità è stata una sfida, speriamo che lo spettatore possa goderne, così come è stato divertente per noi lavorare alla realizzazione.

Serena, le ombre, le luci, le marionette, i pupazzi, gli oggetti, sono tutti elementi della poetica sensoriale legata al teatro di figura. Se filmate, in termini visuali si avvicinano alle forme del protocinema. Hai pensato anche a questo aspetto?

Serena: Il teatro d’ombre è affascinante perché, di fatto, contrariamente a quel che si pensa, può essere realizzato e animato in tanti modi. Io mi ispiro molto alle tecniche “video visive” poiché a volte bisogna mettere in scena storie brevi e coincise, come per il videoclip di “L’amore morde”, e il mondo del video ritengo che a volte sia più schietto e diretto per la scelta delle immagini. Certamente anche il protocinema mi ha fornito alcuni spunti.

Serena Cercignano

Serena, in “eppur bisogna andar“, il tuo spettacolo ambientato durante la prima grande emigrazione degli italiani in Brasile, utilizzi molti elementi e media: suoni, musica, tutti gli elementi del teatro di figura, ma anche il teatro d’attore. In “la verità e la fantasia“, che è più incentrato sulle ombre, la tua voce narrante e quelle che doni ai personaggi fa da collante al mondo immaginale. La stessa cosa accade ne “La luna nello stagno“, dove sul palco monti uno schermo, mentre la luce fa miracoli. Per il video dei “Dei perfetti sconosciuti“, offri la tua arte per una narrazione che comprende musica e liriche. Come hai lavorato in termini figurativi, rispetto ai testi e ai suoni della canzone?

Serena: Credo fortemente che tutte le arti appartengano ad un grande unico meccanismo energetico che le fa incontrare e le fa intrecciare tra loro. Ne ” L’amore morde” credo ci siano già dei colori, delle sfumature sonore che esprimono molte emozioni. Figurativamente parlando, mi sono limitata ad interpretare ciò che ascoltavo, forse la difficoltà più grande è stata cercare di trovare delle immagini che potessero essere lette davvero da tutti. Ho ascoltato la canzone tante volte: quando solo per gli effetti sonori, quando solo per il testo, quando solo per il messaggio finale. E ogni volta poi costruivo, distruggevo, ricostruivo, fino a trovare delle scene che rispondessero alle esigenze sia del gruppo che, credo, del pubblico.

Rispetto al teatro il video comporta tutta una serie di interventi in post produzione. Come avete lavorato in tal senso, dal montaggio agli effetti “in camera”, fino ad eventuali modifiche in fase post, sia per la parte dove vediamo le ombre della band, sia per quanto riguarda il lavoro con le marionette e le sagome sullo sfondo?

Paolo: Ho cercato di rimanere più fedele possibile al girato, e intervenire con la post produzione meno possibile proprio per trasmettere questa sensazione di “vero”, di “analogico”. In una fase iniziale abbiamo anche provato a immaginarci un lungo piano sequenza ma sarebbe finito in un lavoro forse troppo pretenzioso e poco affine al mondo del videoclip. Abbiamo quindi optato per un montaggio che cercasse di mettere in luce quanto il 90% di quello che si vede in video accade davvero e non è frutto di una rielaborazione grafica di post produzione. Per dare l’effetto wow in un paio di punti sono stati aggiunti effetti in post, ma che fanno assolutamente gioco alla narrazione.

Dei Perfetti Sconosciuti, foto di Martina Rondelli

Serena, il videoclip si trova in una fase di convergenza molto più ampia rispetto ai decenni precedenti. Questo per l’accelerazione dei media digitali e per il modo in cui forme diverse, dall’animazione alle arti performative, confluiscono in questo territorio ibrido e sintetico, che non è cinema, che non è videoarte, che non è danza, che non è animazione, che non è teatro, che non è advertising, ma probabilmente è tutto questo. La domanda: pensi di cimentarti nuovamente con questa forma?

Serena: Il teatro di figura è stato utilizzato diverse volte nel cinema, come, ad esempio, nel film “La Storia Infinita”, ma anche in programmi televisivi di varietà, per esempio i Muppet, frammenti di Topo Gigio nei programmi per bambini o il Dodò dell’Albero azzurro per esempio. Durante la pandemia ho colto l’occasione di sperimentare sketch con ombre e burattini da mostrare in video. Nonostante i buoni risultati, credo di preferire maggiormente l’arte visiva dal vivo, per la vicinanza che stabilisce con il pubblico. In ogni caso lascio ogni porta aperta e ogni possibilità di sperimentare nuove forme di visione del mio mestiere

Martha is Dead, la colonna sonora: il formidabile ritorno di Femina Ridens

Il cuor non sa, quel che sarà, non sa se questo è un sogno o è la realtà. Non ha memoria, né Deja-vu, dov’ero prima d’ora non ricordo più

(Femina Ridens, Non ricordo più)

Da qualche giorno il nome di Femina Ridens, il progetto di Francesca Messina, una delle voci più importanti, creative e potenti del panorama musicale italiano è su tutte le riviste nazionali e internazionali di videogames. Si perché la musicista toscana ha inciso 19 delle tracce che costituiscono la colonna sonora del nuovo videogioco pubblicato dalla software house italiana LKA, intitolato “Martha is Dead“.
Sviluppato in prima persona, si svolge nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale attraverso lo sguardo di Giulia, fotografa e sorella gemella di Martha K. trovata improvvisamente morta. Ambientato in Toscana, prende le mosse da una concitata azione partigiana a San Casciano nel 1944.
Attraversato da tinte thriller/horror molto forti, promette una componente visiva di alto livello, che parte proprio dalle fotografie scattate da Giulia.
La colonna sonora del gioco è stata affidata a Femina Ridens, moniker che si riferisce alla musicista toscana Francesca Messina, attiva sin dagli anni novanta, prima come Disco star durante i migliori anni della gloriosa dance italiana, poi come autrice colta e sensibile di due album, l’omonimo Femina Ridens e il bellissimo Schiaffi.

Se i musicisti coinvolti dal technical director Alessio Belli, sono anche i danesi Between Us, e il progetto Aseptic Void di Davide Terreni, che aveva già collaborato con LKA per The Town of Light, Femina Ridens scrive e rielabora ben 19 brani, alcuni dei quali sono canti tradizionali, arie del repertorio musicale colto e alcune incursioni nella musica degli anni quaranta.

Ancora non abbiamo visto il prodotto nella sua interezza, ma abbiamo ascoltato tutta la colonna sonora, senza mezzi termini, splendida.

La scansione è quella di un’OST a tutti gli effetti, con temi che vengono rielaborati, dilatati e proposti in varie versioni (il tradizionale “Bella ciao“) e momenti strumentali (l’inquietante “Confusa“).
Oltre alla varietà, sorprende la fusione tra elettronica, folk-rock e musica popolare, in una dimensione che apre nuove possibilità di interpretazione dinamica ad un repertorio altrimenti considerato erroneamente statico. “Non posso far bucato che non piova“, seconda traccia della colonna sonora, è un tradizionale attribuito a Giovanni da Cascia, iniziatore dell’Ars Nova, che nella versione di Femina Ridens rinasce a nuova vita, indicando una strada inedita e potente che per una volta passa dalla nostra tradizione invece di saccheggiare posture e culture altrui.

Don’t Forget my Name” è una splendida nenia ipnotica e ossessiva, cantata in inglese e la cui struttura ricorda molto un certo modo di scrivere del rock anni novanta. “Ninna nanna a sette e venti” ripete il miracolo di “Non posso far bucato che non piova” recuperando una filastrocca tradizionale amatissima e riproposta negli anni sessanta del Nuovo Canzoniere Italiano e qui interpretata dalla Messina con una voce che sfiora le vette del canto lirico, mentre il pianoforte scandisce il tempo cronometrico su un tappeto orchestrale di forma dinamica; una fusione splendida tra elementi della tradizione, musica ambient e forme della musica per il cinema. Non è da meno L’Ave Maria di Schubert che tra voce e paesaggio elettronico, ricorda la sperimentazione di Lynch/Montgomery nel bellissimo Lux Vivens.

Ma “Martha is Dead” non finisce di stupire, perché Femina Ridens inanella una serie di canzoni in stile anni quaranta che rielaborano l’estetica jazz-swing rivista dalla discografia italiana di ottanta anni fa, con modalità sorprendenti, a partire dalla voce della Messina che si riferisce indifferentemente a modelli maschili e femminili, da Armstrong a Nina Simone, con una disinvoltura talmente mutante, da risultare originalissima. La prima della serie è “Mama non Mama“, seguita da “Tango Matto“, dove l’esperienza teatrale della Messina si sente tutta, nella capacità di interpretare modi, toni, respiri e pause di un vero e proprio personaggio, bagaglio tecnico ed espressivo che manca all’ottanta per cento delle interpreti italiane coeve. E se “Senza rancore” guarda allo scat di Arturo Rabagliati, lo fa con una forza espressiva e a tratti parodica da risultare galvanizzante e inquietante allo stesso modo, come lo era il foxtrot di Midnight, the Stars and You alla fine dell’indimenticabile sequenza di Shining. Il segmento delle canzoni in stile è davvero ricco ed è costituito da ben otto tracce, capaci di divertire, commuovere e inquietare, proponendo un’elaborazione complessa della canzone d’epoca che pur riferendosi a suoni, stili e rimario ben precisi, sposta sempre l’asticella delle convenzioni in uno spazio liminale; basta pensare alle bellissime “Notte Stellata” e “Non ricordo più“, che elaborano quella tradizione specifica nello stesso modo in cui i Portishead trasformavano John Barry e Isaac Hayes fino a renderli un’altra cosa e trovando una zona franca tra passato e futuro.

Martha is dead soundtrack” è ovviamente pensato per la narrazione di un videogame, con una funzione che non differisce di molto dal ruolo di una colonna sonora scritta per il cinema, ma come nei casi migliori, è un lavoro che vive di vita propria, con una versatilità e una ricchezza notevoli. Come abbiamo visto contiene più di un’anima, ma ci consegna l’arte di una musicista matura che supera con grande classe i limiti di quello che si produce in Italia.

Molto belli anche i contributi di Between Us, in particolare la splendida “Breaking the surface“, elettronica organica tra voci e strumenti di tradizioni apolidi, ma anche tutto il lavoro di Aseptic Void, tra ambient-noise cinematica e sound design puro, davvero suggestivo nella mescolanza di suoni elettronici, field recording e voci.

“Martha is Dead” si può pre-ordinare in vinile da questa parte, sono tre dischi in vinile bianco contenuti in un gatefold con tutte le 33 tracce complessive, di cui 19, lo ricordiamo, sono state composte da Femina Ridens. Copie limitatissime, solo 500.

Sasso – Aquila, il video di Donato Canosa: intervista

Anthony Sasso, torinese doc, comincia presto ad avvicinarsi alla musica. Chitarrista autodidatta smuove la scena della sua città con alcune formazioni, tra cui i Milena Lovesick. Sarà il progetto Anthony Laszlo, per cui scrive, a farlo conoscere in tutta Italia con le 50 date del primo tour insieme ad Andrea Laszlo De Smone. Il suo progetto solista cova lungo tutte queste prestigiose esperienze, con 150 tracce inedite scritte e mai pubblicate a partire dal 2009. SASSO prendi quindi forma in sala prove, con il produttore Alberto Moretti e la collaborazione di Zevi Bordovach alle tastiere (Andrea Laszlo De Simone e Francesco Bianconi dei Baustelle), Francesco Cornaglia alla batteria (I Monaci del Surf) e Marco Gervino alla chitarra (NonostanteClizia e Tsao!).

Aquila è il nuovo singolo, uscito a fine gennaio, che conta sulla collaborazione di Eleonora “Èlia” Ceria ai cori femminili delle parti strumentali ed Enrico Gabrielli al sax tenore.

Il brano è anche un videoclip realizzato da Donato Canosa, concepito con le strategie di un found footage magmatico, ma con la narrazione immaginale del mockumentary, dove lo scambio semantico tra finzione e cinema del reale è una questione di avvitamenti e punti di vista.

Sasso – Aquila, il video di Donato Canosa (N. B. Il video è soggetto alle restrizioni di YouTube sui limiti di età. Può quindi essere visionato solo loggandosi alla nota piattaforma con il proprio profilo e non è possibile incorporarlo. Per visionarlo è possibile cliccare sull’immagine)

Sasso su Facebook

Donato Canosa: il videoclip è uno spazio di libertà, l’intervista su AQUILA

Donato Canosa è un vidomaker lucano che vive e lavora a Torino. Consegue nel 2008 la laurea specialistica in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo all’Accademia Albertina di Belle Arti e nel 2011 l’attestato di Tecnico superiore di produzione e post-produzione per il cinema e il video. Sin dal 2004 lavora nel contesto della produzione audiovisiva, realizzando videoclip, videoinstallazioni, advertising per committenze culturali, documentari, animazione. Tra gli artisti con cui ha collaborato in ambito videomusicale, ci sono Willie Peyote, Andrea Laszlo De Simone, Niagara, Tomat. La sua videografia si può guardare sul sito ufficiale donatocanosa.com.

In occasione della realizzazione di “Aquila” per SASSO, lo abbiamo intervistato.

Puoi raccontarci idea e concept del video? Come l’hai sviluppata insieme a SASSO?

La prima volta che ho visto Anthony Sasso e Riccardo Chiara per discutere del video di “Aquila” erano gli ultimi giorni precedenti il secondo lockdown, i ricordi vividi delle città deserte incontravano quel senso di lieve asfissia per le nuove e imminenti restrizioni. Abbiamo colto quel momento per chiuderci in casa e lavorare su noi stessi. “Aquila” è per Sasso un pezzo molto importante e intimo, volevamo che il lavoro ci appartenesse profondamente,  quindi gli ho chiesto cosa pensasse della possibilità che scrivessi un mio testo da associare alle immagini. Ha risposto subito con entusiasmo e ci siamo messi al lavoro. La durata del pezzo ci ha consentito di provare ad organizzare una narrazione simile ad un breve documentario, forma espressiva alla quale sono molto legato. Ne è nato un mockumentary, un finto documentario che rievoca le tappe dell’origine del Pianeta e la nascita e l’evoluzione dell’uomo.

Cosa ti interessava di questa forma narrativa?

Mi affascina l’idea che il macroscopico e il microscopico si assomiglino e che l’evoluzione dell’essere umano nella storia dell’universo sia simile a quella del singolo individuo, dall’infanzia all’età adulta e alla vecchiaia. È una compressione temporale che si ripete in un loop infinito e senza tempo.

E come avete reso questa compressione?

Ci siamo focalizzati sulle parole-chiave del messaggio da trasmettere, lasciando al fruitore un ampio margine di interpretazione personale. Il tono generale del lavoro è a volte ambivalente, ma svela comunque un forte desiderio di automiglioramento. Abbiamo inserito i nostri riferimenti cinematografici, musicali e artistici. Conosco Anthony e Riccardo da molto tempo, siamo ottimi amici ed è stato piuttosto semplice e naturale stabilire una sintonia di intenti.

Mockumentary. Finzione e cinema del reale. Molto cinema, documentario naturalistico. Tra questi elementi e un’idea combinatoria di found footage c’è qualcosa che hai filmato oppure si tratta esclusivamente di un lavoro di montaggio?

Ho deciso che non avrei filmato nulla. Eravamo chiusi in casa e ho preso alla lettera il “dogma”, come se stessi giocando con un amico immaginario di nome Lars Von Trier. Ho preferito manipolare lo sterminato catalogo visivo che già esiste: frammenti di film, documentari, trasmissioni televisive, materiali di repertorio.

Qundi non solo un lavoro di montaggio…

Certo, è stato un lavoro di montaggio ma anche di scrittura. Sono partito proprio da un testo che ho scritto come se fosse una seconda voce, una sorta di duetto con SASSO. Organizzando il materiale sotto forma di mockumentary abbiamo potuto inserire delle interviste impossibili di personaggi, alcuni noti e altri no, a cui sono associate le parole del mio testo. Ho immaginato un racconto intimo e personale che fosse allo stesso tempo un racconto collettivo, una condivisione di desideri e paure che attraversano orizzontalmente qualunque persona.

Per quanto il lavoro sia molto distante da quello con l’animazione, pensando al tuo “Loop Alpha”, che è disegno animato materico e pulsante, o al pittorico “Malerba”, la matericità, nell’enorme lavoro combinatorio che hai fatto, emerge anche in questo caso…

Il primo audiovisivo che ho realizzato come autore e regista è stato “Immune alla pioggia”, un lavoro acerbo che riguardo con tenerezza, raramente. Un personaggio disegnato viveva negli spazi di un modellino fotografato. Un lavoro combinatorio e materico. Ho frequentato studi artistici, il disegno mi accompagna da molti anni ma non sono un animatore. Nel 2016 ho realizzato “La cacciata del malvento”, il mio primo documentario, per raccontare una storia che mi appartiene profondamente, attraverso l’unico linguaggio audiovisivo che ho ritenuto idoneo per farlo. Un passaggio naturale. So che potrebbe sembrare un po’ strano questo mio modo di rapportarmi all’animazione e al documentario, ma seppure siano codici molto diversi, la loro incredibile forza espressiva mi dà la libertà di alternare la materia della carta, della grafite e del colore al materiale umano che la realtà ci offre. Sono per me i linguaggi più congeniali per restituire le cose come vorrei.

Hai realizzato anche installazioni video, lavorando sulla temporalità dell’immagine, ma anche dei “pezzi” di internet/game art (Tomat – Titan). In questo senso, il videoclip, che è uno spazio ibrido capace di accogliere molteplici convergenze e linguaggi, include elementi di visual art. Anche il video per SASSO, per l’ipertrofia e la sostanza mutante del montaggio, ha elementi visual molto forti, anche se provengono da un immaginario legato al cinema del secolo precedente…

Credo sia frutto di un mix di suggestioni accumulate negli anni. Il cinema, la storia dell’arte e l’ampio spettro delle arti visive sono una parte importante della mia formazione e dei miei interessi personali. Inizialmente per il video di Sasso avevamo alcune visioni nate dall’ascolto del pezzo: paesaggi, cieli, semplici gesti della quotidianità. Progressivamente ha preso forma il concept generale del lavoro e la ricerca delle immagini più rappresentative di ciò che si voleva raccontare. Alcune parole di Russell hanno ispirato l’inizio del viaggio, poi ci sono Tarkovskij, Pasolini, Picasso, Ferré e altri personaggi che hanno influenzato il nostro rapportarci agli elementi visivi e poetici. Ho cercato di creare un racconto che fosse fuori dal tempo, non è passato, né presente, né futuro ma comprende tutti questi piani temporali. Il trattamento delle immagini è andato in questa direzione, i frammenti dei film in bianco e nero della prima metà del ‘900 sono stati ricolorati tramite software che sfruttano le attuali tecnologie dell’intelligenza artificiale, mentre al found footage contemporaneo ho cercato di dare un aspetto vintage, come se fossero ormai fuori moda, convertendoli in bianco e nero e poi ricolorandoli allo stesso modo. Un tentativo di azzerare la loro radice temporale e restituire una medesima matrice pittorica. Per circa tre quarti della durata del video abbiamo questi quadri animati che si susseguono con un ritmo piuttosto equilibrato, poi nell’ultima parte, dopo il passaggio dal mondo magico-religioso a quello tecnologico e industriale, il ritmo accelera come i tempi della Storia e l’immagine assume le forme dei contributi tipici della visual art.

Cosa rappresenta per te lo spazio del videoclip contemporaneo, sia in termini negativi, che positivi?

Sicuramente è uno spazio di libertà, almeno per come lo vorrei per me. Il videoclip può davvero essere uno luogo ibrido di sperimentazione, è una forma breve di comunicazione audiovisiva molto fertile e immediata. Non credo sia il caso di aprire qui il lungo e triste discorso sull’attenzione che il nostro Paese rivolge alle sfere della cultura, però in Italia c’è un’attitudine che rende difficile riuscire a sostenersi economicamente lavorando solo ai videoclip un po’ più liberi dalle richieste imposte da un certo tipo di mercato mainstream. In ogni caso è comunque stimolante e divertente muoversi all’interno di spazi diversificati. Negli ultimi anni ho visto molti videoclip interessanti che riescono a diffondersi e ad essere valorizzati grazie al lavoro delle realtà specializzate come la vostra, oppure grazie ai demoni preziosi dei social network, sempre che non vengano sommersi dall’alta marea della sovraproduzione. È un dato di fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una crescita importante dei volumi di materiale audiovisivo e una proporzionale riduzione dei budget a disposizione per realizzarli. Diversi teorici e pionieri del cinema si auspicavano questa diffusione democratica del mezzo grazie alla quale anche io posso fare le cose che mi piacciono. Se questi fossero ancora vivi sarebbe interessante sapere cosa ne pensano.

Grazie per il tuo contributo Donato

È stato un piacere rispondere alle vostre domande e vi ringrazio moltissimo per lo spazio che mi avete dedicato!