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Martha is Dead, la colonna sonora: il formidabile ritorno di Femina Ridens

Il cuor non sa, quel che sarà, non sa se questo è un sogno o è la realtà. Non ha memoria, né Deja-vu, dov’ero prima d’ora non ricordo più

(Femina Ridens, Non ricordo più)

Da qualche giorno il nome di Femina Ridens, il progetto di Francesca Messina, una delle voci più importanti, creative e potenti del panorama musicale italiano è su tutte le riviste nazionali e internazionali di videogames. Si perché la musicista toscana ha inciso 19 delle tracce che costituiscono la colonna sonora del nuovo videogioco pubblicato dalla software house italiana LKA, intitolato “Martha is Dead“.
Sviluppato in prima persona, si svolge nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale attraverso lo sguardo di Giulia, fotografa e sorella gemella di Martha K. trovata improvvisamente morta. Ambientato in Toscana, prende le mosse da una concitata azione partigiana a San Casciano nel 1944.
Attraversato da tinte thriller/horror molto forti, promette una componente visiva di alto livello, che parte proprio dalle fotografie scattate da Giulia.
La colonna sonora del gioco è stata affidata a Femina Ridens, moniker che si riferisce alla musicista toscana Francesca Messina, attiva sin dagli anni novanta, prima come Disco star durante i migliori anni della gloriosa dance italiana, poi come autrice colta e sensibile di due album, l’omonimo Femina Ridens e il bellissimo Schiaffi.

Se i musicisti coinvolti dal technical director Alessio Belli, sono anche i danesi Between Us, e il progetto Aseptic Void di Davide Terreni, che aveva già collaborato con LKA per The Town of Light, Femina Ridens scrive e rielabora ben 19 brani, alcuni dei quali sono canti tradizionali, arie del repertorio musicale colto e alcune incursioni nella musica degli anni quaranta.

Ancora non abbiamo visto il prodotto nella sua interezza, ma abbiamo ascoltato tutta la colonna sonora, senza mezzi termini, splendida.

La scansione è quella di un’OST a tutti gli effetti, con temi che vengono rielaborati, dilatati e proposti in varie versioni (il tradizionale “Bella ciao“) e momenti strumentali (l’inquietante “Confusa“).
Oltre alla varietà, sorprende la fusione tra elettronica, folk-rock e musica popolare, in una dimensione che apre nuove possibilità di interpretazione dinamica ad un repertorio altrimenti considerato erroneamente statico. “Non posso far bucato che non piova“, seconda traccia della colonna sonora, è un tradizionale attribuito a Giovanni da Cascia, iniziatore dell’Ars Nova, che nella versione di Femina Ridens rinasce a nuova vita, indicando una strada inedita e potente che per una volta passa dalla nostra tradizione invece di saccheggiare posture e culture altrui.

Don’t Forget my Name” è una splendida nenia ipnotica e ossessiva, cantata in inglese e la cui struttura ricorda molto un certo modo di scrivere del rock anni novanta. “Ninna nanna a sette e venti” ripete il miracolo di “Non posso far bucato che non piova” recuperando una filastrocca tradizionale amatissima e riproposta negli anni sessanta del Nuovo Canzoniere Italiano e qui interpretata dalla Messina con una voce che sfiora le vette del canto lirico, mentre il pianoforte scandisce il tempo cronometrico su un tappeto orchestrale di forma dinamica; una fusione splendida tra elementi della tradizione, musica ambient e forme della musica per il cinema. Non è da meno L’Ave Maria di Schubert che tra voce e paesaggio elettronico, ricorda la sperimentazione di Lynch/Montgomery nel bellissimo Lux Vivens.

Ma “Martha is Dead” non finisce di stupire, perché Femina Ridens inanella una serie di canzoni in stile anni quaranta che rielaborano l’estetica jazz-swing rivista dalla discografia italiana di ottanta anni fa, con modalità sorprendenti, a partire dalla voce della Messina che si riferisce indifferentemente a modelli maschili e femminili, da Armstrong a Nina Simone, con una disinvoltura talmente mutante, da risultare originalissima. La prima della serie è “Mama non Mama“, seguita da “Tango Matto“, dove l’esperienza teatrale della Messina si sente tutta, nella capacità di interpretare modi, toni, respiri e pause di un vero e proprio personaggio, bagaglio tecnico ed espressivo che manca all’ottanta per cento delle interpreti italiane coeve. E se “Senza rancore” guarda allo scat di Arturo Rabagliati, lo fa con una forza espressiva e a tratti parodica da risultare galvanizzante e inquietante allo stesso modo, come lo era il foxtrot di Midnight, the Stars and You alla fine dell’indimenticabile sequenza di Shining. Il segmento delle canzoni in stile è davvero ricco ed è costituito da ben otto tracce, capaci di divertire, commuovere e inquietare, proponendo un’elaborazione complessa della canzone d’epoca che pur riferendosi a suoni, stili e rimario ben precisi, sposta sempre l’asticella delle convenzioni in uno spazio liminale; basta pensare alle bellissime “Notte Stellata” e “Non ricordo più“, che elaborano quella tradizione specifica nello stesso modo in cui i Portishead trasformavano John Barry e Isaac Hayes fino a renderli un’altra cosa e trovando una zona franca tra passato e futuro.

Martha is dead soundtrack” è ovviamente pensato per la narrazione di un videogame, con una funzione che non differisce di molto dal ruolo di una colonna sonora scritta per il cinema, ma come nei casi migliori, è un lavoro che vive di vita propria, con una versatilità e una ricchezza notevoli. Come abbiamo visto contiene più di un’anima, ma ci consegna l’arte di una musicista matura che supera con grande classe i limiti di quello che si produce in Italia.

Molto belli anche i contributi di Between Us, in particolare la splendida “Breaking the surface“, elettronica organica tra voci e strumenti di tradizioni apolidi, ma anche tutto il lavoro di Aseptic Void, tra ambient-noise cinematica e sound design puro, davvero suggestivo nella mescolanza di suoni elettronici, field recording e voci.

“Martha is Dead” si può pre-ordinare in vinile da questa parte, sono tre dischi in vinile bianco contenuti in un gatefold con tutte le 33 tracce complessive, di cui 19, lo ricordiamo, sono state composte da Femina Ridens. Copie limitatissime, solo 500.

Sasso – Aquila, il video di Donato Canosa: intervista

Anthony Sasso, torinese doc, comincia presto ad avvicinarsi alla musica. Chitarrista autodidatta smuove la scena della sua città con alcune formazioni, tra cui i Milena Lovesick. Sarà il progetto Anthony Laszlo, per cui scrive, a farlo conoscere in tutta Italia con le 50 date del primo tour insieme ad Andrea Laszlo De Smone. Il suo progetto solista cova lungo tutte queste prestigiose esperienze, con 150 tracce inedite scritte e mai pubblicate a partire dal 2009. SASSO prendi quindi forma in sala prove, con il produttore Alberto Moretti e la collaborazione di Zevi Bordovach alle tastiere (Andrea Laszlo De Simone e Francesco Bianconi dei Baustelle), Francesco Cornaglia alla batteria (I Monaci del Surf) e Marco Gervino alla chitarra (NonostanteClizia e Tsao!).

Aquila è il nuovo singolo, uscito a fine gennaio, che conta sulla collaborazione di Eleonora “Èlia” Ceria ai cori femminili delle parti strumentali ed Enrico Gabrielli al sax tenore.

Il brano è anche un videoclip realizzato da Donato Canosa, concepito con le strategie di un found footage magmatico, ma con la narrazione immaginale del mockumentary, dove lo scambio semantico tra finzione e cinema del reale è una questione di avvitamenti e punti di vista.

Sasso – Aquila, il video di Donato Canosa (N. B. Il video è soggetto alle restrizioni di YouTube sui limiti di età. Può quindi essere visionato solo loggandosi alla nota piattaforma con il proprio profilo e non è possibile incorporarlo. Per visionarlo è possibile cliccare sull’immagine)

Sasso su Facebook

Donato Canosa: il videoclip è uno spazio di libertà, l’intervista su AQUILA

Donato Canosa è un vidomaker lucano che vive e lavora a Torino. Consegue nel 2008 la laurea specialistica in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo all’Accademia Albertina di Belle Arti e nel 2011 l’attestato di Tecnico superiore di produzione e post-produzione per il cinema e il video. Sin dal 2004 lavora nel contesto della produzione audiovisiva, realizzando videoclip, videoinstallazioni, advertising per committenze culturali, documentari, animazione. Tra gli artisti con cui ha collaborato in ambito videomusicale, ci sono Willie Peyote, Andrea Laszlo De Simone, Niagara, Tomat. La sua videografia si può guardare sul sito ufficiale donatocanosa.com.

In occasione della realizzazione di “Aquila” per SASSO, lo abbiamo intervistato.

Puoi raccontarci idea e concept del video? Come l’hai sviluppata insieme a SASSO?

La prima volta che ho visto Anthony Sasso e Riccardo Chiara per discutere del video di “Aquila” erano gli ultimi giorni precedenti il secondo lockdown, i ricordi vividi delle città deserte incontravano quel senso di lieve asfissia per le nuove e imminenti restrizioni. Abbiamo colto quel momento per chiuderci in casa e lavorare su noi stessi. “Aquila” è per Sasso un pezzo molto importante e intimo, volevamo che il lavoro ci appartenesse profondamente,  quindi gli ho chiesto cosa pensasse della possibilità che scrivessi un mio testo da associare alle immagini. Ha risposto subito con entusiasmo e ci siamo messi al lavoro. La durata del pezzo ci ha consentito di provare ad organizzare una narrazione simile ad un breve documentario, forma espressiva alla quale sono molto legato. Ne è nato un mockumentary, un finto documentario che rievoca le tappe dell’origine del Pianeta e la nascita e l’evoluzione dell’uomo.

Cosa ti interessava di questa forma narrativa?

Mi affascina l’idea che il macroscopico e il microscopico si assomiglino e che l’evoluzione dell’essere umano nella storia dell’universo sia simile a quella del singolo individuo, dall’infanzia all’età adulta e alla vecchiaia. È una compressione temporale che si ripete in un loop infinito e senza tempo.

E come avete reso questa compressione?

Ci siamo focalizzati sulle parole-chiave del messaggio da trasmettere, lasciando al fruitore un ampio margine di interpretazione personale. Il tono generale del lavoro è a volte ambivalente, ma svela comunque un forte desiderio di automiglioramento. Abbiamo inserito i nostri riferimenti cinematografici, musicali e artistici. Conosco Anthony e Riccardo da molto tempo, siamo ottimi amici ed è stato piuttosto semplice e naturale stabilire una sintonia di intenti.

Mockumentary. Finzione e cinema del reale. Molto cinema, documentario naturalistico. Tra questi elementi e un’idea combinatoria di found footage c’è qualcosa che hai filmato oppure si tratta esclusivamente di un lavoro di montaggio?

Ho deciso che non avrei filmato nulla. Eravamo chiusi in casa e ho preso alla lettera il “dogma”, come se stessi giocando con un amico immaginario di nome Lars Von Trier. Ho preferito manipolare lo sterminato catalogo visivo che già esiste: frammenti di film, documentari, trasmissioni televisive, materiali di repertorio.

Qundi non solo un lavoro di montaggio…

Certo, è stato un lavoro di montaggio ma anche di scrittura. Sono partito proprio da un testo che ho scritto come se fosse una seconda voce, una sorta di duetto con SASSO. Organizzando il materiale sotto forma di mockumentary abbiamo potuto inserire delle interviste impossibili di personaggi, alcuni noti e altri no, a cui sono associate le parole del mio testo. Ho immaginato un racconto intimo e personale che fosse allo stesso tempo un racconto collettivo, una condivisione di desideri e paure che attraversano orizzontalmente qualunque persona.

Per quanto il lavoro sia molto distante da quello con l’animazione, pensando al tuo “Loop Alpha”, che è disegno animato materico e pulsante, o al pittorico “Malerba”, la matericità, nell’enorme lavoro combinatorio che hai fatto, emerge anche in questo caso…

Il primo audiovisivo che ho realizzato come autore e regista è stato “Immune alla pioggia”, un lavoro acerbo che riguardo con tenerezza, raramente. Un personaggio disegnato viveva negli spazi di un modellino fotografato. Un lavoro combinatorio e materico. Ho frequentato studi artistici, il disegno mi accompagna da molti anni ma non sono un animatore. Nel 2016 ho realizzato “La cacciata del malvento”, il mio primo documentario, per raccontare una storia che mi appartiene profondamente, attraverso l’unico linguaggio audiovisivo che ho ritenuto idoneo per farlo. Un passaggio naturale. So che potrebbe sembrare un po’ strano questo mio modo di rapportarmi all’animazione e al documentario, ma seppure siano codici molto diversi, la loro incredibile forza espressiva mi dà la libertà di alternare la materia della carta, della grafite e del colore al materiale umano che la realtà ci offre. Sono per me i linguaggi più congeniali per restituire le cose come vorrei.

Hai realizzato anche installazioni video, lavorando sulla temporalità dell’immagine, ma anche dei “pezzi” di internet/game art (Tomat – Titan). In questo senso, il videoclip, che è uno spazio ibrido capace di accogliere molteplici convergenze e linguaggi, include elementi di visual art. Anche il video per SASSO, per l’ipertrofia e la sostanza mutante del montaggio, ha elementi visual molto forti, anche se provengono da un immaginario legato al cinema del secolo precedente…

Credo sia frutto di un mix di suggestioni accumulate negli anni. Il cinema, la storia dell’arte e l’ampio spettro delle arti visive sono una parte importante della mia formazione e dei miei interessi personali. Inizialmente per il video di Sasso avevamo alcune visioni nate dall’ascolto del pezzo: paesaggi, cieli, semplici gesti della quotidianità. Progressivamente ha preso forma il concept generale del lavoro e la ricerca delle immagini più rappresentative di ciò che si voleva raccontare. Alcune parole di Russell hanno ispirato l’inizio del viaggio, poi ci sono Tarkovskij, Pasolini, Picasso, Ferré e altri personaggi che hanno influenzato il nostro rapportarci agli elementi visivi e poetici. Ho cercato di creare un racconto che fosse fuori dal tempo, non è passato, né presente, né futuro ma comprende tutti questi piani temporali. Il trattamento delle immagini è andato in questa direzione, i frammenti dei film in bianco e nero della prima metà del ‘900 sono stati ricolorati tramite software che sfruttano le attuali tecnologie dell’intelligenza artificiale, mentre al found footage contemporaneo ho cercato di dare un aspetto vintage, come se fossero ormai fuori moda, convertendoli in bianco e nero e poi ricolorandoli allo stesso modo. Un tentativo di azzerare la loro radice temporale e restituire una medesima matrice pittorica. Per circa tre quarti della durata del video abbiamo questi quadri animati che si susseguono con un ritmo piuttosto equilibrato, poi nell’ultima parte, dopo il passaggio dal mondo magico-religioso a quello tecnologico e industriale, il ritmo accelera come i tempi della Storia e l’immagine assume le forme dei contributi tipici della visual art.

Cosa rappresenta per te lo spazio del videoclip contemporaneo, sia in termini negativi, che positivi?

Sicuramente è uno spazio di libertà, almeno per come lo vorrei per me. Il videoclip può davvero essere uno luogo ibrido di sperimentazione, è una forma breve di comunicazione audiovisiva molto fertile e immediata. Non credo sia il caso di aprire qui il lungo e triste discorso sull’attenzione che il nostro Paese rivolge alle sfere della cultura, però in Italia c’è un’attitudine che rende difficile riuscire a sostenersi economicamente lavorando solo ai videoclip un po’ più liberi dalle richieste imposte da un certo tipo di mercato mainstream. In ogni caso è comunque stimolante e divertente muoversi all’interno di spazi diversificati. Negli ultimi anni ho visto molti videoclip interessanti che riescono a diffondersi e ad essere valorizzati grazie al lavoro delle realtà specializzate come la vostra, oppure grazie ai demoni preziosi dei social network, sempre che non vengano sommersi dall’alta marea della sovraproduzione. È un dato di fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una crescita importante dei volumi di materiale audiovisivo e una proporzionale riduzione dei budget a disposizione per realizzarli. Diversi teorici e pionieri del cinema si auspicavano questa diffusione democratica del mezzo grazie alla quale anche io posso fare le cose che mi piacciono. Se questi fossero ancora vivi sarebbe interessante sapere cosa ne pensano.

Grazie per il tuo contributo Donato

È stato un piacere rispondere alle vostre domande e vi ringrazio moltissimo per lo spazio che mi avete dedicato!

Corteccia – Il ritorno dei viaggiatori: l’intervista a Pietro Puccio, i migliori del 2021 #6

Torniamo a parlare di Corteccia, dopo averli ospitati per la prima volta nel 2017 con il video di Su una rivoluzione e più recentemente con qauello di Vorrei. Pietro Puccio e Simone Pirovano abitano un progetto proteiforme che è impossibile scindere e considerare per segmenti. L’elemento visuale è parte integrante del loro lavoro non solo per formazione e background, ma soprattutto per sinergie. “Quadrilogia delle distanze” è un EP destinato a veder la luce nel 2022 e che viene diffuso, singolo dopo singolo, attraverso una serie di Videoclip. Il ritorno dei viaggiatori è il primo dei quattro, mentre il recentissimo Mai è a tutt’oggi il terzo.
Stati d’animo, contrasti, vicinanze, distanze attraverso il dialogo tra ricerca armonica e visuale.
Rispetto al contesto tradizionale del videoclip, dove le forme della committenza sono ancorate ad una tradizione destinata a morire, Puccio e Pirovano definiscono l’area visuale come un vero e proprio strumento e procedono per sconfinamenti: video arte, live drawings, sinestesie mai monodirezionate tra musica e immagine.

Il formato videoclip, inteso in termini di durata è quello, cambia o comunque si riferisce ad un’altra storia per quanto riguarda la dimensione ritmica e la posizione rispetto alla musica. Non è ancillare né rappresenta un veicolo promozionale, ma una combinazione di elementi espressivi che convergono, insieme alla musica, su una tela ogni volta bianca. Pari livello e soprattutto, quando l’uno eccede l’altra, la dinamica è quella della trasformazione.

L’esperienza di Pietro Puccio è alla base di questi stimoli. Nato a Silkeborg in Danimarka, nel 1975, studia a Milano dove vive e lavora. Insegna disegno e illustrazione presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e la sua ricerca spazia in vari campi che dalla pittura procedono verso l’happening e l’installazione. Come illustratore collabora con numerose case editrici, mentre in termini di ascolti si è formato con il Jazz, la Bossa e acquisendo nozioni di melodia e armonia grazie anche all’esperienza paterna come sassofonista.
Tutti questi elementi concorrono a formare un territorio possibile che con Corteccia entra dentro la storia del video musicale per aprirne l’involucro e scompaginarne i risultati.
Il progetto ci ha emozionato molto e consente di far emergere una storia del videoclip ancora da scrivere e che parte dai misconosciuti esperimenti con i software della Quantel (Adrian Belew) ed emerge di tanto in tanto ad anticipare tendenze o a sovvertire le attese di un formato nato per ragioni promozionali (da Ribczynski a Tee Ken Ng).

Il ritorno dei viaggiatori” viene inserito dalla redazione di indie-eye nel percorso dei dieci migliori video italiani del 2021 che stiamo sdipanando con pazienza e amore (un po’ il contrario delle playlist usa e getta). Pubblicato il settembre scorso è una mutazione paesaggistica realizzata attraverso il medium pittorico, lo stop motion e alcune incursioni digitali. La degradazione del paesaggio è al centro di una morfologia dell’immagine che si dibatte tra interno esterno, tanto da rendere ciò che conosciamo come un’esperienza nuova e irriconoscibile.

Nato con l’esigenza di rompere l’isolamento di questi due anni con il desiderio di tornare a muoversi è in effetti un video di rimarginazione continua. Rimarginazione come tentativo di curare una ferita ma anche inteso nel senso di una nuova estensione rispetto ai confini e ai formati conosciuti. Un nuovo margine anche per la videomusica quindi, sempre più vicina ad uno strumento che esce dalla dimensione frontale e scopica, entra nei live e diventa materia da plasmare.

Corteccia su Facebook

Corteccia, il ritorno dei viaggiatori, il videoclip di Pietro Puccio

Materia, processo, performance. L’intervista a Pietro Puccio

Pietro Puccio nasce a Silkeborg (DK) nel 1975. Studia a Milano, dove attualmente vive e lavora.

È insegnante di disegno e illustrazione presso Naba (Nuova Accademia di Belle Arti di Milano). Attivo nell’ambito delle arti visive (attraverso una ricerca artistica che spazia dal disegno alla pittura, dall’installazione all’happening), e in quello dell’illustrazione, collabora con diverse case editrici italiane.

Ha passato l’infanzia ascoltando la musica che in famiglia si spandeva dal giradischi Technics, principalmente il jazz di Stan Getz, Jerry Mulligan, Paul Desmond e la prima Bossa Nova (il padre è sassofonista), allenandosi inconsapevolmente al senso della melodia e dell’armonia. Ha sempre disegnato ascoltando musica, o viceversa (dai classici anni 60 che lo appassionano alle sperimentazioni più contemporanee); questo lo ha portato a collaborare anche con musicisti classici, producendo live drawings in teatro e proiezioni. Ha unito il senso lirico che da sempre lo accompagna, alla passione per la ritmica, cantando e suonando contemporaneamente la batteria fin da adolescente.
http://www.pietropuccio.it/index.php

Prima di entrare nello specifico, ovvero prima di parlare de “Il ritorno dei viaggiatori”, vorrei chiederti di raccontare il progetto Corteccia nel suo insieme. Questo perché ha una dimensione pluridisciplinare abbastanza rara che in qualche modo coinvolge numerosi livelli e un vero e proprio crocevia delle arti….

Sì, Corteccia è principalmente un progetto musicale in cui due autori scrivono, registrano e suonano le proprie canzoni, ma tutt’attorno, o anche attraverso e sopra e sotto, questo lavoro è pervaso di visioni che prendono forma in tanti modi. Il più evidente è quello dei videoclip, che sono una necessità sia di comunicazione che espressiva, dove abbiamo la possibilità di approcciarci all’arte in modo particolarmente libero e multiforme, accompagnati anche dal nostro suono e dai testi che già di per sé sono dei mondi visivi. Anche le piccole cose sul nostro feed di Instagram spesso diventano un luogo in cui sperimentare. Abbiamo realizzato decine di teaser promozionali, sempre diversi tra loro. Sono davvero tante le cose che cerchiamo di mettere assieme, comprese le collaborazioni: aprire è sempre meglio che chiudere. Quando uscì, per esempio, il nostro primo disco omonimo nel 2016, abbiamo chiesto a decine di autori di realizzare dei libretti d’artista che contenessero il cd: sono venuti fuori dei lavori incredibili che poi abbiamo messo in mostra in un paio di serate speciali.

Il ritorno dei viaggiatori non è il primo video d’animazione che realizzi, già con “Solidi” avevi elaborato una sorta di cut-out animation primitiva e urgente. Mi sembra, in questo caso, che si fonda con la qualità materica del tuo lavoro come pittore…

Lavori come “Solidi” sono dettati da una necessità narrativa. C’era una idea di base con una propria cronologia dei fatti: una sorta di Sisifo che si porta appresso dei solidi, appunto, continuamente disturbato da demoni. Fin quando, schiacciato da tutti questi pesi, non decide di scappare. Il tutto realizzato in modo volutamente un po’ brutale, con animazioni poco fluide, ispirato al lavoro di Faye Moorhouse. Come dici tu giustamente, è un video urgente.
Il ritorno dei viaggiatori” invece non è per nulla narrativo. Piuttosto si tratta di un lavoro fatto di suggestioni, molto legato alla mia poetica pittorica degli ultimissimi anni, dove le forme sono instabili, variabili, quasi effimere. Dove tutto si trasforma continuamente. La stessa cosa accade qui: le immagini accompagnano una musica e un testo che raccolgono ricordi, impressioni, desideri, senza un fuoco preciso; come quando lasciamo vagare i pensieri.

Sfondi, campiture, ingaggiano un dialogo con il disegno animato. Talvolta esondano e ne regolano il movimento. Come hai lavorato in termini tecnici?

A me interessa molto l’improvvisazione. Nel senso di trovarsi davanti ad un fatto e cercare di reagire nel modo più giusto per te (in quel momento). Il video è stato girato realizzando dei paesaggi con pennarelli che, sollecitati dall’acqua, si scioglievano mano a mano, creando sfumature e variazioni, il tutto ripreso a camera fissa in time lapse. Il time lapse ha sempre avuto un fascino per me irresistibile, perché le forme cambiano sotto agli occhi istantaneamente. Quasi mi ipnotizzano. Come quando si fissa un fuoco o le nuvole sotto vento. Dopo questa fase analogica ho invece realizzato dei loop in digitale da sovrapporre in alcune scene. L’effetto mi sembra ben riuscito.

Parlando di “Vorrei” scrivevo che il video “suona” il brano. La stessa cosa vale per “il ritorno dei viaggiatori”, anche se mi sembra una dimensione più sottile, che trascolora con la parola…

Nella domanda hai quasi detto tutto. Sì, “Vorrei” aveva una necessità molto ritmica. Le riprese sono reali, non c’è animazione, spesso a camera fissa per potere godere delle mani che creano con la creta, per cui è stato necessario lavorare con un montaggio serrato per muovere l’insieme. Orson Welles, uno dei miei miti, diceva che il montaggio è tutta questione di orecchio. È proprio così.
“Il ritorno dei viaggiatori” ha un tempo più largo, non ha sempre bisogno che gli stacchi cadano in punti esatti. Bisogna avere il tempo di abituarsi con gli occhi (parliamo sempre di istanti) alla metamorfosi dei colori e delle forme. È più un fluire, appunto, e come dici tu “trascolora con la parola”, che peraltro cerchiamo con grande attenzione.

Gli sfondi pittorici sembrano rielaborati attraverso uno schermo CRT, o comunque alludere a quella struttura dell’immagine video….

Non è stata una ricerca che andasse volutamente in quella direzione, ma l’insieme tra l’utilizzo di un certo supporto pittorico e i colori vivi possono portare verso quell’estetica.

Ti facevo la domanda precedente perché la pixelizzazione, il glitch, l’aberrazione cromatica digitale, è molto frequente e molto abusata nei videoclip contemporanei, anche quelli che provengono da ambiti più vicini alla cosiddetta “internet art”, nel tuo caso, non solo in questo video, c’è una dimensione analogica e materiale molto forte. A un certo punto, mentre lo sfondo ricorda le immagini con le lenti lenticolari, lo schizzo, la macchia, ci consente di percepire la presenza dello schermo. Come elabori questa dimensione, dovendoti comunque servire di strumenti digitali?

Ho molto amato il glitch e ho realizzato anche molti lavori digitali una decina di anni fa, ma poi ho trovato più aderente alla mia indole cimentarmi di nuovo con la materia. Come dicevo prima, amo molto che le cose accadano senza che io controlli eccessivamente il processo, che poi è una mezza verità, perché decidere quando interrompere il processo, ad esempio, è già una forma di controllo e scelta. Per cui questo richiamo allo schermo non è direttamente voluto; o perlomeno non consciamente.

C’è una dimensione performativa che mi incuriosisce nei tuoi video. Per quanto seguano un flusso, narrativo o ritmico che sia, mantengono una qualità performativa molto alta e quindi anti-narrativa. Certamente i tuoi live drawings, come il lavoro fatto su Histoire Du soldat per esempio, immagino che possano influenzare il risultato. Ma in questo caso mi interessa la prassi: se c’è questa dimensione, come riesci a mantenerla nel contenitore comunque concluso del videoclip. È insita nell’immagine? Arriva in fase di montaggio?

Come dicevo prima, e tu l’hai colto in modo estremamente preciso, il mio lavoro ha un sapore instabile. La performance è instabile per forza di cose perché è una reazione continua a sollecitazioni musicali o altro. Questo la rende affascinante. Molto più del risultato finale. Ho visto live drawings fatti molto bene, ma di una noia mortale perché incentravano l’attenzione solo sul risultato finale. E per raggiungere il risultato finale ci volevano almeno 5 minuti. Mi è capitato di fare diversi lavori di questo genere ed ho sempre cercato di fare in modo che invece fosse il processo a creare attenzione. Certo, con un risultato apprezzabile, ma che arriva dopo un processo in cui lo spettatore possa rimanere affascinato.
La stessa cosa accade in molti video realizzati: faccio in modo che accadano eventi visivi, poi li prendo e in fase di montaggio decido quale strada prendere. Ho un’idea di partenza, ma molto si delinea al montaggio.

Un live di Corteccia come si configura, considerati gli aspetti collettivi, performativi e visuali che abbiamo affrontato nell’intervista?

Per ora sono stati abbastanza classici, al massimo con proiezioni retrostanti, quando era possibile. Adesso vorremmo progettare qualcosa di più articolato, con proiezioni più partecipative e una messa in scena ragionata. È un work in progress al quale stiamo proprio pensando in queste settimane, volendo essere ottimisti sui prossimi mesi.

La dimensione cantautorale emerge comunque, nella scrittura di alcuni brani, per il modo in cui il cantato sottende comunque la figura evocativa di un narratore…

Chissà cosa significa “cantautorale”. Guccini diceva che era un termine di comodo dei giornalisti, aggiungendo che doveva essere un tipo di canzone con “un testo significativo”. Forse è così, ma è bello pensare che anche la struttura armonica (o disarmonica), il suono e tutto ciò che riguarda la musica “sia significativo”. Probabilmente nei nostri pezzi un narratore c’è, ma solitamente non parla di sé. Non c’è quasi mai un piccolo fatto di una piccola esperienza personale. C’è sempre il tentativo di fargli dire, uomo, donna, chiunque sia questo “io”, qualcosa che parta dalla sua esperienza, ma che sia significativa a livello generale per tutti o molti. Questo è il tentativo.

Julia Kent, il suo violoncello è un sussulto dell’anima: dal vivo a Firenze, in Sala Vanni

Julia Kent: sussulti dell’anima

La musica di Julia Kent è un invito al viaggio. Il senso è quello indicato da un film dello stesso titolo, diretto dal compianto Peter Del Monte nei primi anni ottanta: mutazione tra interno ed esterno. Il suo violoncello restituisce per risonanza tutte quelle vibrazioni che si muovono tra l’ambiente e lo spirito. Non ha importanza se il cuore che emerge dalla terra assuma talvolta il colore della lava più nera, perché nella ricerca sonora della musicista canadese si può passare dall’isolamento e dalle tenebre per conoscere la complessità di quelle energie che attraversano il pianeta.

Dallo strumento riesce a strappare modalità inconsuete rispetto alla tradizione, creando un dialogo tra elementi analogici e incursioni elettroniche, tanto da superare le delimitazioni dei generi, con l’invenzione di una scrittura sinergica e sincretica, che naturalmente passa da uno stato a l’altro.

Se l’impegno della Kent si è concretamente palesato all’interno di iniziative legate alla salvaguardia del pianeta, l’impatto politico della sua musica ha sempre la qualità del sussulto, perché interroga una posizione interiore rispetto alla morfologia del disastro. La distruzione diventa allora parte della sua stessa musica: ci smuove, provoca reazioni, si tuffa pienamente nel gioco della transitorietà, trasformando l’orrore in un’avventura possibile.

Rispetto alle modalità che il vivere collettivo interpreta, nella divisione manichea e faziosa dei buoni e dei cattivi, dei nostri e degli altri, l’arte senza compromessi di Julia guarda in faccia il mostruoso senza paure e ci racconta altri equilibri dell’esistenza.

Julia Kent dal vivo al National Sawdust, 7 marzo 2019

Tradizione in Movimento: Julia Kent in Sala Vanni, a Firenze, nel calendario del Musicus Concentus

Tradizione in movimento, il titolo della nota rassegna di concerti proposta ogni anno dal Musicus Concentus si rivela del tutto appropriato per l’artista di Vancouver. Viene in mente un’altra figura aliena e fuori dall’ordinario come Jocelyn Montgomery, nel rapporto di continua trasformazione tra ciò che si intende legato alla tradizione e le possibilità di innestare in quelle radici altre prospettive. La voce della Kent non è meno presente, anche se affidata completamente alla dimensione strumentale.

Rigorosamente scalza sul palco, ha una relazione fisica e organica con lo strumento. In termini performativi trasmette quella spinta erotica che ha caratterizzato un limine femminile specifico, da Laurie Anderson a Diamanda Galas, da Julia Tippett alla prima Tori Amos.
Ciò che accumuna queste artiste straordinarie è l’intensità e la capacità di forzare i limiti dello strumento a cui si affidano.

Julia Kent e il suo violoncello

Per la Kent il corpo è un mezzo d’espressione e un tramite. Mani e piedi impegnati in un dialogo incessante tra le possibilità del controller midi e le corde del violoncello, sfiorate o violentemente percosse.

Quello che si può intuire dall’ascolto dei suoi dischi, dal vivo esplode su più dimensioni, perché dal visivo all’aurale l’energia colpisce dritta e forte il suo pubblico.

La relazione intima che stabilisce con chi ha il privilegio di ascoltarla passa attraverso un patto di fiducia rinnovato: Julia Kent non inganna gli ascoltatori, non li lusinga, perché riesce a metterli davanti alla proprie contraddizioni interiori, riuscendo ad aprire un varco di luce accecante tra i recessi più neri dell’anima.

In Sala Vanni Julia Kent sarà ospite il 25 Febbraio, con il suo violoncello e la tessitura complessa, ma vivissima, di loop e stratificazioni sonore.

Tutte le informazioni nella scheda dell’evento in calce all’articolo

Julia Kent, approfondimenti

Julia Kent a Firenze, la scheda dell’evento

Julia Kent – live @ Tradizione in Movimento, Musicus Concentus – Firenze 25 Febbraio 2022
Venue: Sala Vanni (Firenze) Piazza del Carmine 14
Inizio Concerto: 21:15
Ingresso: 13 EURO + DP ( www.musicusconcentus.com)
Alla cassa: 20 EURO intero (se disponibili) 16 EURO per gli under 25 (se disponibili)

Julia Kent è nata a Vancouver ma basata a New York, dopo esperienze importanti e formative in band come Rasputina e Antony and the Johnsons, negli ultimi anni ha intensificato l’attività solista arrivando a realizzare ben quattro album ed un EP. A gennaio 2019 è uscito “Temporal”, quinto disco solista e secondo sull’etichetta inglese Leaf (dopo il teso e dissonante “Asperities”). La musica di Julia Kent è stata utilizzata nelle colonne sonore di diversi film (un suo brano figura in “This must be the place” di Paolo Sorrentino) e come accompagnamento di performance teatrali e di danza (Ballet Manheim e Balletto Civile); ha suonato in Europa e Nord America, esibendosi durante festival come il Primavera Sound a Barcellona, il Donau Festival in Austria e l’Unsound Festival a New York. Degna di nota è senza dubbio “The End of the World“, opera multimediale firmata dal pianista ucraino Lubomyr Melnyk (già ospite della Sala Vanni nel 2016), dalla stessa Julia Kent e dal collettivo torinese Spime.Im: uno spettacolo immersivo, realizzato nell’ambito del Festival Tones on the Stones, per sensibilizzare il pubblico sull’emergenza ambientale. Del 2021 la colonna sonora composta per “Stories From The Sea”, docu-film di Jola Wieczorek presentato alla Viennale (Vienna) che narra una storia legata al nostro Mediterraneo e che, qualche settimana fa, le ha valso il premio come “Miglior musica in un film documentario” al Filmfestival Max Ophüls Preis di Saarbrücken (Germania). (fonte, Ufficio Stampa Lorenzo Migno)

Cristina Donà – Colpa: l’intervista al filmmaker Marco Pellegrino, i migliori del 2021 #5

Marco Pellegrino è un filmmaker di Novara che ha alternato l’attività come regista a quella di sceneggiatore e scrittore, elaborando di volta in volta progetti visuali che lambiscono anche i territori del video musicale. Nel suo approccio al formato i confini e i parametri del promo video vengono forzati tramite l’elaborazione di una cultura visiva proteiforme che attinge da numerose discipline.
Per Cristina Donà ha realizzato uno dei video più belli del 2021 sulla traccia “Colpa“, tratta dall’ultimo album della cantautrice di Rho, il bellissimo deSidera.
Il video condivide lo stesso spazio delle arti visuali, della videoarte e del cinema di poesia, senza scegliere necessariamente da che parte stare, se non da quella della musica, come dispositivo che dal suono e dalla parola, può generare immagini.
Pellegrino prende quindi sul serio la struttura della canzone e la decostruisce con altri mezzi, elaborando combinazioni possibili tra le immagini e la parola. Viene in mente uno dei video meno compresi degli anni ottanta, ovvero l’unica incursione nel genere di Michelangelo Antonioni. L’apparente analogia tra il valore denotativo della parola e quello connotativo dell’immagine individua una rottura tra i due elementi che rilancia il significato attraverso la differenza tra quello letterale e la forza, distruttiva o creativa, del gesto.

Una qualità Zen che va di pari passo con quella della canzone

Cristina Donà – Colpa – l’opera video diretta da Marco Pellegrino

Marco Pellegrino, Colpa, un’opera video: l’intervista al filmmaker novarese

Marco, come si è sviluppato il lavoro per Cristina Donà, dal concept del video fino alla produzione?
È tutto nato da una mail di Gianni Cicchi, il manager di Cristina e storico batterista dei Diaframma, che mi ha contattato intorno alla metà di agosto per propormi questa collaborazione. Ci tengo a riportare una frase in particolare, che mi ha molto colpito: “vorrei parlarti dell’ultimo lavoro di Cristina e del brano che vorremmo pubblicare ai primissimi di ottobre con un’ opera video che speriamo tu sia interessato e possibilitato a realizzare”.

Una bella attestazione di stima e anche l’espressione di un’intenzione precisa mi pare…
Si, perché confesso che le parole opera video, associate al nome Cristina Donà, mi hanno emozionato. Innanzitutto perché è una delle cantautrici che più apprezzo in Italia, per la sua sorprendente capacità di sperimentare musicalmente e per la scrittura dei suoi testi. E poi perché in questa richiesta ho trovato un approccio intelligente e profondo, una grande apertura e un grande rispetto nei confronti delle numerose possibilità che il linguaggio visivo può fornire a un brano musicale, uscendo dalle logiche standardizzate del “videoclip”, per seguire invece degli obiettivi prettamente poetici. Quindi ho risposto subito “sì, ci sono…quando si inizia?”.


Quanto sono durate le riprese?
Le riprese sono durate due giorni

…e dove avete girato?
Abbiamo girato in un’ambientazione esterna, che è un bosco tra Monza e Milano, e il teatro di posa di Overclock, dove abbiamo ricostruito una camera da letto in stile magrittiano, merito della set designer Martina De Paola e le scenografie degli still life,

Gaia Morellato nel bosco dove sono stati girati gli esterni del video di “Colpa”

Il video elabora le sollecitazioni delle liriche scegliendo una via che cerca l’astrazione nelle pieghe del reale, una qualità che mi sembra attraversi tutte le tue produzioni in ambito videomusicale, ma che qui è molto più evidente e marcatamente visuale. Cosa ne pensi e puoi raccontarci il tipo di elaborazione che hai messo in atto per “Colpa”, dalla parola all’immagine?
Dopo aver ascoltato il brano ho iniziato a scrivere appuntando, come faccio sempre, delle piccole suggestioni sul mio quaderno, dalle quali ho poi attinto le idee per costruire le scene principali. Ho cercato sin da subito di lavorare in armonia col testo del brano che, essendo già molto generoso di immagini, mi ha spinto a seguire una libera sincronia con le parole e al contempo una scomposizione del loro significato. Il risultato è una successione di quadri onirici che sostengono un percorso visionario all’interno del concetto variegato di “colpa”. Un gioco di rimandi e di contraddizioni rispetto a quello che Cristina canta. Il mio obiettivo era quello di tracciare un percorso poetico e metasemantico che completasse quello delle parole, ma non sottolineandone il significato, piuttosto smentendolo o fornendo a ogni frase un’interpretazione alternativa.

Molto interessante. In un certo senso il video opera anche una sintesi del tuo modo di lavorare. C’è il set, come elaborazione dell’estetica still life e c’è il mondo esterno; due contesti opposti che alternativamente tornano da video a video nella tua filmografia. Puoi raccontarci i due punti di vista?
Sì, in effetti non ci avevo pensato e mi lusinga sapere che qualcuno l’abbia notato. Penso di avere una predilezione per gli spazi esterni, molto più gestibili da un punto di vista scenografico, perché banalmente già pronti. Ma anche perché ti consentono di gestire con più dinamica i movimenti dei soggetti ripresi, così come della macchina da presa. Credo comunque che il periodo pandemico e la lunga esperienza di lockdown mi abbiano spinto a cercare, al contrario, una via di fuga negli spazi interni. Il video di “Peggio di niente” dei Ministri, che ho realizzato prima di “Colpa”, è interamente girato in interni e il volume della stanza è volutamente marcato dalle pareti che confinano i protagonisti. Nel caso di “Colpa”, invece, ho cercato una sospensione. Le pareti della stanza in cui si svolge il 60 % del brano si sono alleggerite confondendosi quasi con le tonalità del cielo. È un po’ come se si fosse compiuta finalmente una graduale liberazione da un periodo di “clausura”.

Il set del videoclip

A proposito di elaborazione: i Vfx, quando ci sono, tendono ad una naturalezza fenomenica. Puoi dirci come li hai impiegati in questo video?
Gli interventi di vfx riguardano quasi solo la scena d’apertura, durante la quale un lenzuolo bianco, cadendo dall’alto, si deposita sul corpo nudo della protagonista e la fa svanire nel nulla. È un’operazione illusionistica che vuole sostenere anche in questo caso un percorso di liberazione. Mi interessava la possibilità di anticipare visivamente l’alleggerimento da una colpa, attraverso la sparizione di un corpo. In modo analogo, a metà video, la protagonista sparisce e riappare camminando dietro i tronchi di alcuni alberi di un bosco. Il gioco illusionistico rimanda sempre a un’idea precaria di realtà, nelle cui pieghe si nasconde sempre il principio di un mistero ancestrale ricollegabile alla cosmologia. È un tema che mi affascina molto.

Gaia Morellato ha una presenza notevole. I suoi colori naturali ben si adattano alla composizione pittorica del video. Puoi dirci come si è sviluppata la collaborazione con lei?
Gaia è un’attrice fantastica, attenta, intelligente e molto sensibile. Quindi capace di trasmettere emozioni. E a queste qualità si aggiunge una bellezza per niente scontata. I suoi occhi e il suo viso mi hanno colpito sin da subito perché sembra nascondano le regole di un mondo diverso dal nostro. C’è qualcosa di surreale, ma comunque rassicurante nel suo volto. Qualcosa che la avvicina all’estetica rinascimentale, rendendola meravigliosamente libera dalle mode del tempo. Ecco, Gaia è il soggetto di un dipinto preraffaellita che, stanca di posare, è scappata dalla tela per conoscere il mondo.

Il set del videoclip

Sempre a proposito di pittura. I videoclip sono uno spazio ibrido e possibile, qui su indie-eye lo chiamiamo “di convergenza”. Confluiscono elementi diversi e non sempre strettamente cinematografici. Tu hai un background cinematografico, sei un narratore, dirigi cortometraggi. Nonostante questo, nello spazio contratto del videoclip mi sembra che nei tuoi video, anche quelli apparentemente più tradizionali, il colore e la composizione pittorica siano centrali…
Nella scrittura, nel cinema, nell’arte in generale non ci possono essere barriere che confinino gli interessi di un autore in competenze specifiche. Un bravo scrittore, di solito, non è solo chi legge avidamente, ma soprattutto chi, con curiosità, si lascia portare al di là delle proprie consapevolezze per conoscere qualcosa di nuovo da portare nel suo lavoro. Io la vedo così: penso che il linguaggio cinematografico e quello pittorico vadano considerati come approcci solo tecnicamente diversi, ma proiettati verso lo stesso esito: ascoltare per raccontare, viaggiare per trasportare, sorprendersi per sorprendere, farsi ingannare per illudere e quindi emozionarsi per emozionare.

Quali sono stati i tuoi stimoli di partenza per “Colpa”, non necessariamente dei riferimenti precisi, ma stimoli, occorrenze, accadimenti esteriori e interiori…
Non ricordo precisamente quali fossero, ma sicuramente i primi appunti per questo video li ho presi al mare. Sulla spiaggia di Termoli, dove mi trovavo per le vacanze. La scena d’apertura del video, infatti, vuole richiamare un contesto subacqueo, ovattato. Avevo inizialmente aggiunto dei pesci che si muovevano attorno alla testa dell’attrice, contestualizzando maggiormente l’ambiente, ma poi ho deciso di rendere tutto meno esplicito lavorando invece sui suoni di fondo: il canto lontano di una balena e un leggerissimo tappeto riverberato di frequenze basse che si mischiano al respiro affannato della protagonista.

Sul set

“Colpa” è un video potente per la frequenza con cui sollecita chi guarda a mettere a fuoco immagini significative che si legano e si slegano dalla parola. Quella della Donà mi sembra una narrazione interiore che porta al disinnesco dell’ego, come elemento che produce negatività, in tutte le sue declinazioni. L’immagine tende nella stessa direzione? In che modo e attraverso quali processi?
Sì, l’immagine va nella stessa direzione, ma cerca di offrire un punto di vista complementare rispetto alla narrazione di Cristina. Il percorso che ho seguito parte dalle stesse premesse di alcune opere di Joseph Kosuth, dove l’artista gioca con il rapporto paradossale che esiste tra significante e significato. Una “sedia” può essere contemporaneamente una parola composta di lettere, una foto che ritrae una sedia e l’oggetto stesso. Nel caso di “Colpa” ho cercato di mantenere questa relazione “ludica” tra parola e immagine, andando però a sovvertire, quando possibile, il legame tra significante e significato. Ma forse è tutto meno complicato di così: è solo un gioco ad accchiapparello tra immagini e parole.

Il lavoro sul colore mi sembra fondamentale. Ogni frammento elabora lo stato d’animo sollecitato dalla parola, anche in termini cromatici. È così? Puoi raccontarci come hai lavorato sul colore, sia in termini di fotografia che di color grading?
I punti di riferimento che ho voluto usare per la gestione del colore ruotano principalmente attorno a due fonti per me molo importanti: uno è René Magritte per l’uso dei colori pastello, soprattutto le tonalità fredde e tendenti all’azzurro, e l’altro è “Film Blu” di Krzysztof Kieślowski per la “drammatizzazione” del ciano in termini narrativi ed emozionali. Sono molto soddisfatto del risultato e del dialogo intercorso tra la fotografia di Stefano Bella e Rui Dias e la fase di color grading curata da Fabiana Messina, poiché partendo da premesse di natura pittorica, da una parte, e sperimentale dall’altra, il rischio era di focalizzare l’attenzione solo su elementi di natura estetica, sacrificando la narrazione e i toni poetici.

Parte della troupe al lavoro

L’altro aspetto che mi interessa del tuo lavoro in generale, sempre in relazione a “Colpa”, è il lavoro sul tempo. Anche quello mi sembra fondamentale. Qui viene trattato in modo diverso rispetto alle dilatazioni e alle espansioni che attraversano alcuni tuoi video.
Sì, il tempo è una dimensione che mi interessa molto in termini filosofici. Per la contraddittorietà che rappresenta nella sua funzione sociale da una parte, per esempio il tempo per lavorare, il tempo per divertirsi ed evadere dall’ansia generata dal tempo stesso, e nella sua valenza fisica dall’altra, ovvero il tempo che non esiste o il tempo che rallenta in funzione di un moto relativo. Ecco questa contraddittorietà “relativista” del tempo, declinata in contesti metafisici mi ha sempre molto affascinato. Einstein una volta disse: “C’era una giovane donna di Wight che viaggiava molto più veloce della luce. Un giorno partì muovendosi di moto relativo e arrivò la sera prima”.

La clip più vicina a “Colpa”, per vari motivi, mi sembra quella bellissima che hai realizzato per L’anno che Verrà di Lucio Dalla. Cosa ne pensi?
Sì, per il tema trattato mi sembra un giusto paragone. E anche in questo caso il tempo è una dimensione centrale, usata per raccontare il rapporto tra un ragazzo e l’immagine più anziana di se stesso.

Il videoclip in Italia è un contesto ancora da svecchiare, nonostante ci siano molti giovani autori e artisti sensibili come te che escono dal solco della solita estetica promozionale. Cosa ne pensi?
Penso che il videoclip sia l’occasione di far poesia senza compromessi narrativi. Ma sono ottimista. Ci sono molti registi, soprattutto giovanissimi, che non hanno paura di sperimentare e di distruggere le regole a cui tutti sono sempre stati abituati.

Progetti futuri?
Sì! Sto lavorando a una docu-serie e a un feature film. Il 2022 sarà destinato soprattutto a questi due progetti, ma se dovesse arrivare una buona proposta musicale sarò felice di dedicarmi a un nuovo videoclip o, come la chiama Cicchi, a un’opera video.

I dolori del giovane Walter, Truman Show: l’intervista al videomaker Marco Jeannin

I Dolori del giovane Walter è una band nata dalle idee e dalle intenzioni di Walter Valletta, giovane cantautore cilentano che muove i primi passi nel 2015, per poi concretizzare la formazione nel 2017. Il pop radicato nella scrittura di Valletta accoglie quindi sonorità rock e getta le basi per quello che quattro anni dopo sarà il primo singolo, intitolato “Piano”, ottimo successo di critica e pubblico, con numeri importanti, non solo per il contesto.
Truman Show“, il video del nuovo singolo, dal 24 gennaio ad oggi ha già totalizzato sessantamila visite. Merito anche del lavoro di Marco Jeannin, regista sensibile con all’attivo numerose regie e collaborazioni di prestigio nell’ambito della videomusica italiana.

Marco Jeannin su Instagram
I Dolori del Giovane Walter su Facebook

I dolori del Giovane Walter, Truman Show, il video di Marco Jeannin

Marco Jeannin: da La Jetee al Cilento. Il making e l’intervista su “Truman Show”

La prima domanda che vorrei farti è se hai pensato a La Jetee per il video di Truman Show. Te lo chiedo perché in modo sottilissimo e altrettanto intelligente, sembra una rielaborazione molto originale del film di Chris Marker

Bel colpo: La Jetee è sicuramente una delle reference legate al video di Truman Show, oltre ovviamente a The Truman Show. Ho sempre trovato La Jetee un lavoro più che affascinante, non tanto per il tipo di racconto, che ovviamente ha fatto storia, o per la sua natura sperimentale, quanto per l’atmosfera e la sensazione di sospensione che si respira dall’inizio alla fine. Qualcosa di davvero unico che a un livello più o meno conscio ha sicuramente inciso su questo lavoro, anche solo in termini di genere e mood.

C’è comunque un’allure sci-fi nel video…

L’idea era proprio quella: arrivare a raccontare una storia d’amore con un qualcosa di diverso, anche solo in termini di ambientazione. Esplorare questo genere senza però renderlo troppo esplicito è qualcosa a cui abbiamo puntato fin dall’inizio. In questo senso sono bastate tute bianche e un paio di visori per caratterizzare l’intero racconto. Che poi questo racconto non sia potenzialmente tanto distante dalla realtà è un altro discorso…

Alcuni frammenti elaborano un’immaginario fotografico, come se tu volessi catturare la volatilità dell’istante con una dimensione temporale che non sembra scorrere…

Il tuo è un punto di vista interessante e trovo descriva bene le intenzioni con cui ho affrontato il video. In passato ho utilizzato tanti altri tipi di linguaggio e ti dirò… andava benissimo così. Per Truman Show, ragionare per quadri con pochi movimenti di macchina o nessuno, mi ha permesso di concentrarmi sulla messa in scena e valorizzare la composizione, fissando alcuni momenti per definire un’atmosfera, un mondo sospeso e molto preciso. Certo, l’idea è sempre di lavorare lo spazio per costruire una narrazione che abbia senso, ridare a chi guarda una sensazione di tridimensionalità e conferire credibilità all’immagine, ma va fatta una piccola integrazione. Mi piace girare in questo modo e avere questo tipo di controllo sull’immagine perché mi rappresenta. Gestire lo spazio e soprattutto ragionare il tempo in questo modo, in questo momento, mi da sicurezza.

Come in altri tuoi video utilizzi il punto di vista dei nuovi formati, smartphone, visione aumentata, VR in questo caso, per raccontarlo con altri mezzi. Anche se il processo è diverso, mi ha fatto venire in mente la prospettiva di “spreco di potenziale”. In qualche modo sembra tu racconti il modo in cui questa generazione osserva e si vede…

Sapere che hai fatto un recap dei miei video è qualcosa che mi fa piacere e ti ringrazio. In “Spreco di potenziale” (N.d.a. video diretto da Federico Cangianiello per Dito Nella Piaga, dove Jeannin era direttore della fotografia) io mi sono occupato della fotografia ma l’idea del body rig e di quella particolare soggettiva era interamente del regista, che tra l’altro è uno dei miei migliori amici. Ad ogni modo è sicuramente un lavoro in linea con quello che è il mio immaginario e l’idea di utilizzare linguaggi diversi è qualcosa che mi interessa in modo particolare. Sfruttare la potenza di una soggettiva, raccontare una storia integrandola con le riprese di uno smartphone o inserendo personaggi immersi nei loro visori mi sembra qualcosa di naturale dal momento che questi strumenti e questi punti di vista fanno parte ormai della quotidianità, non solo di questa generazione ma di un po’ di tutti.


Come hai lavorato con il progetto di Walter Valletta, dall’idea alla produzione del video?

Per Truman Show abbiamo lavorato in modo molto lineare e metodico. Una volta sentito il pezzo e ricevuto una serie di suggestioni da parte di Walter, del produttore e discografico Paolo Naselli Flores e dei ragazzi della band, un gruppo di amici davvero unico, ho lavorato ad uno script che funzionasse per me e per loro. Da li si è passati al lavoro di reference, all’impostazione del mood generale del video e all’organizzazione delle riprese. Vivendo praticamente a più di mille chilometri di distanza, io e Luca, il mio imprescindibile aiuto regia e assistente di macchina da presa, abbiamo fatto parecchie video call per arrivare alle riprese il più preparati possibile. In questo senso i ragazzi sono stati incredibili perché si sono lanciati nel progetto da veri professionisti e con un entusiasmo contagioso, trovando le location, facendo sopralluoghi e partecipando anima e cuore a tutta la pre produzione. Più che una band sono stati una piccola casa di produzione. Eccezionali davvero. Quando poi hai alle spalle un lavoro di preparazione di questo tipo non dico che girare venga quasi automatico ma poco ci manca. La preparazione e la condivisione del progetto sono, a mio avviso, le cose più importanti in assoluto, e lavorare a stretto contatto con le band e con gli artisti anche in modo molto pratico è uno degli aspetti migliori del processo creativo legato alla produzione di un videoclip.

Dove avete girato?

Nel meraviglioso Cilento, a Pioppi e dintorni, a casa dei Dolori. Location uniche che hanno fatto davvero la differenza.

Come in altri tuoi video cerchi una dimensione mentale isolando alcuni elementi della realtà: dettagli che superano la funzione descrittiva e diventano simbolici…

Mi capita spesso e lo considero quasi un riflesso condizionato. Mi piace concentrarmi su alcuni dettagli che definiscono un ambiente o un personaggio. Una delle inquadrature che preferisco di Truman Show, ad esempio, è il dettaglio fuori fuoco della maglietta del protagonista, quando i due ragazzi sono davanti all’auto. L’auto è a fuoco, la maglietta no.
Narrativamente non ha una valenza di qualche tipo, non sposta nulla in termini di racconto, ma credo aiuti parecchio a definire il mood. In quella particolare inquadratura la macchina da presa è immobile, posizionata in un punto “sbagliato”. Niente primi piani, nessuna vera azione. La camera non inquadra qualcosa di significativo, anzi: si sta perdendo la parte migliore e il fuoco è dove non dovrebbe essere. L’inquadratura è la rappresentazione di un problema pratico ambientato nel mondo virtuale raccontato nel video. Un bug di sistema.

Oggi il videoclip è un bacino dove confluiscono più elementi, dalle arti visuali a quelle performative. In verità ha sempre rappresentato un punto di convergenza, ma la diffusione in rete ha consentito altre ibridazioni, nuovi formati, nuove durate, nuove forme dell’attenzione. Per te dove risiedono gli stimoli e le possibilità del videoclip contemporaneo?

E’ qualcosa su cui riflettere e non so darti una risposta davvero esaustiva. Potremmo doverne parlare per un pò. Che il videoclip oggi sia andato oltre il concetto classico di videoclip è qualcosa sotto gli occhi di tutti. La rivoluzione digitale e la rete hanno ovviamente contributo a questa evoluzione; fare videoclip oggi non è certamente la stessa cosa di vent’anni fa. A fronte di budget diversi, ora abbiamo più mezzi, più tecnologia, più opzioni. Cosa che può risultare un vantaggio in termini di possibilità creative, ma paradossalmente anche un limite. Ottenere un video accettabile è più semplice, se conosci le basi. La differenza la fanno le idee che, fino a prova contraria, dipendono ancora dalle persone. Lo stimolo secondo me sta nella possibilità stessa data dal formato videoclip di coltivare le idee ed esplorare linguaggi in modo piuttosto libero. Come dici tu, i videoclip sono stati e sono tutt’ora una vera palestra per la sperimentazione e la contaminazione di diversi tipi di generi e di arti. Servono però artisti ed etichette che condividano questo approccio, che abbiano questo come obiettivo principale. Provare. Sperimentare. Creare sempre qualcosa di personale. Con i Dolori è andata così.

The Fall of Eve and Adam, il video di Michele Pastrello in anteprima esclusiva

«Ovunque io sia, riconoscerò le tue risate, vedrò il sorriso nei tuoi occhi, sentirò la tua voce. Il semplice fatto di sapere che tu sei da qualche parte su questa terra sarà, nell’inferno, il mio angolo di paradiso
The Fall of Eve and Adam è il nuovo video di Michele Pastrello in anteprima esclusiva su Indie-eye Videoclip. Interpretato da Carla Carla Camporese, Roberto Turri e Lorena Trevisan, occupa quella frontiera già esplorata dal regista trevigiano, a metà tra cinema, video d’arte e video musicale. La clip è sviluppata sulle musiche scritte dallo stesso Pastrello e contenute nell’album Blossom, ascoltabile anche su Spotify
Indie-eye presenta il video in anteprima esclusiva e un’intervista all’autore

Michele Pastrello, l’intervista

Da dove nasce l’idea del video?
L’idea del videoclip è nata da uno insolito incontro. Stavo passeggiando per San Daniele del Friuli, piccola cittadina collinare, quando mi sono imbattuto – era estate – in una signora vestita molto elegantemente e tutta ricercatamente agghindata che, con passo lento, trascinava con sé un trolley per la spesa. Era una strada in salita e abbastanza lunga, prima di arrivare alle vie del centro. Questo incontro mi è rimasto impresso, anche se non so spiegare il perché. Mi chiedevo: quale sarà la sua storia, quante volte in un mese farà la stessa strada? Ecco, da questo “incontro” è nata l’idea di The fall of Eve and Adam, che ho concepito così solo quando ho realizzato anche l’omonimo brano.

Come hai sviluppato questa suggestione, anche in termini di location?
Per location volevo una strada lunga e dritta di campagna, in principio la volevo asfaltata, ma il via vai delle auto sarebbe stato un problema. Quindi con un orizzonte sgombro; e poi ho deciso di mutare il personaggio, da donna borghese di città a donna rurale. La location è nei Magredi del pordenonese, una ampia terra magra friulana.

Chi è l’attrice?
Come attrice ho scelto Carla Camporese, padovana, con cui avevo già lavorato in passato e che ha un vasto curriculum come attrice in produzioni venete.

I tuoi non sono cortometraggi tradizionalmente intesi, ma contaminano la forma videoclip con altri elementi (advertising, film d’arte, fiction) Le motivazioni, anche intime e creative, di questa scelta.
Sì, vero. Per quanto io sia nato come regista di cortometraggi più tradizionali, negli ultimi anni ho sintetizzato tempi e ritmi e contaminato il tutto con altri linguaggi. Dopo aver partecipato a svariati festival in passato, avevo voglia di arrivare direttamente al pubblico e, nel suo essere oceano vasto, il web concede questa opportunità. Consapevole che chi è innanzi allo smartphone o al pc spesso ha tempi rapidi, ho deciso di adattarmi a questi ritmi cercando però di non tradire la mia personalità. I miei video sovente raccontano storie o creano simbologie che narrano l’essere umano, sono un concentrato di evocazioni introspettive, esistenziali o, perché no, anche filosofiche e fantastiche, che sono i codici che piacciono a me.

Cosa ti interessa del formato videoclip e cosa per te è superfluo e di scarso interesse, anche in relazione al panorama contemporaneo del video musicale
In passato ho diretto una dozzina tonda di videoclip per cantanti vari, cosa che ora sono meno interessato a fare. A meno che non sia, come in questo caso, per musica composta da me, per il mio disco ambient-pop Blossom. Io amo il modo di realizzare videoclip che spesso si incontra nel Nord Europa, sono piccole opere d’arte visiva-concettuale o intensi/fantasiosi cortometraggi. Al netto di eventuali problematiche di budget, in Italia comunque – per quella che è la mia sensibilità – c’è troppo l’ego, quando non l’edonismo, dei cantanti dentro i loro videoclip, spesso sterilmente estetizzanti. Altrove invece l’official video è un’opera d’arte abbinata alla canzone; ci sono autori come Royksopp, Novo Amor, Olafur Arnalds, aYia, Sigur Ross che scelgono registi che facciano esperienza della loro musica per trasformarla in qualcosa dal forte valore artistico: arte che incontra arte.

La storia di The Fall of Eve and Adam in sintesi
The fall of Eve and Adam racconta una storia semplice: c’era una volta un amore tra due persone, quell’amore c’è anche oggi solo che una delle due persone non c’è più, è “altrove”.

Che significato assume per te questa storia?
Lo sappiamo: nella vita c’è chi non riesce o non desidera trovarne un altro, forse perché il “vecchio” amore è sempre presente, nel tempo della vita che rimane. Ogni tanto capitano momenti in cui sembra che chi è altrove sia ancora presente, magari in sensazioni inspiegabili con la logica o in visioni che subito dopo sembrano allucinazioni: momenti che ci lasciano senza un battito nel petto.

E in termini concettuali?
Scriveva un filosofo: “Nell’esperienza d’amore siamo tutti Adamo ed Eva al primo giorno della creazione, perché sull’amore l’esperienza degli altri non ci insegna nulla.” E come tutte le esperienze trascendentali, che hanno un inizio, non si sa mai bene quando e se finiscano.

Michele Pastrello

Rastroni, Anime da Frutto: il visual album con i VFX di Emanuele Lucci – I migliori del 2021 #4

L’esplosione dei visual video è ormai uscita dai confini astratti di derivazione optical, intesi in larga accezione come risultato di una ricerca sinestetica o di una semplice sovrapposizione tra musica e VFX, per approdare nel circuito mainstream dei promo a larghissima diffusione. I visual di Rkomi, Laura Pausini, Marracash, solo per citare alcuni tra gli artisti italiani che hanno adottato questo veicolo promozionale in sostituzione dei lyric video, si distinguono in modo evidente dai “visualizer”, ovvero dalle animazioni digitali o dalle aberrazioni cromatiche elaborate in post, dove si rinuncia alla centralità del performer per favorire un viaggio psichico o nel peggiore dei casi, decorativo. I visual video di questi artisti al contrario rimettono al centro il corpo dell’interprete e riducono ad uno sfondo, virtuale o meno, l’esperienza visuale. Questi sono oggettini promozionali destinati ad incagliarsi nell’area più superficiale degli EPK o delle card virtuali; sostanzialmente un passo indietro.

Questa breve digressione introduttiva per raccontare l’ottimo lavoro di Emanuele Lucci realizzato come controparte visuale dell’esordio di Rastroni, al secolo Antonio Rafaschieri, musicista e matematico barese già nei Wide e nel duo Gestalt insieme a Enrico Ghedi dei Timoria.

Ottimo lavoro che segue gli stimoli più importanti di una tendenza totalmente disattesa dagli esempi ad alta diffusione che abbiamo citato.

Anime da frutto“, che è stato veicolato in forma “digest” dal singolo “Bagagli“, oltre alla distribuzione discografica tradizionale attraverso Angapp, viene diffuso anche come visual album di quasi cinquanta minuti, realizzato dallo stesso Lucci insieme a Giuseppe Mattia e Giovanni Monopoli che si sono occupati rispettivamente delle riprese in studio e del montaggio.

Il video integrale dialoga con l’album attraverso diversi registri. Non solo il viaggio interiore affrontato da Rastroni, sospeso continuamente tra sogno, psiche e realtà, ma anche tutti gli elementi che costituiscono il progetto complessivo, artwork e grafiche incluse. Quello che viene sintetizzato nella dimensione ridotta del videoclip, viene qui espanso brano dopo brano attraverso un’operazione transmediale imponente dove confluiscono altri elementi del racconto.
Lucci, che ha una formazione cinematografica di alto livello (Cinecittà, Fare Cinema di Marco Bellocchio, Scuola di Cinema di Roma) è in realtà artista proteiforme che ben rappresenta quella convergenza di saperi e discipline di cui spesso parliamo quando cerchiamo di raccontare il videoclip contemporaneo. Oltre a produrre video e ad essere uno specialista VFX, è illustratore, fumettista, narratore. Nel progetto di Rastroni ci si è evidentemente tuffato anima e corpo, cercando di trovare una chiave visuale, attraverso il suo stesso mondo creativo.

Il risultato è soprendente ed è una summa delle possibilità offerte dalla digitalizzazione e dalla softwarizzazione del filmmaking, dove animazione, visual art, illustratione, motion graphics e derive optical, giocano un ruolo parallelo e integrante rispetto al lavoro di Rastroni. Tutto questo con una forma “nativa” che ha il fascino quasi primordiale di un nuovo protocinema, mentre si gioca con ombre e luci virtuali, alla ricerca di più anime nella fusione tra disegno e inorganico.

Per la redazione di indie-eye una delle migliori produzioni del 2021 in quell’ambito ormai espanso che possiamo continuare a chiamare videomusica, anche se le cornici non sono più le stesse.

Emanuele Lucci su Instagram
Rastroni su Instagram

Lazzaretto – Geremia 1111, il video di Antonio Stea: I migliori del 2021 #3

Diciamolo senza mezzi termini, Antonio Stea è un vero talento e soprattutto, uno di quelli che riesce ad unire la passione per la videomusica con quella per l’immagine di ricerca. Il suo sguardo è completamente ec-centrico rispetto a quello dell’industria videomusicale coeva, per almeno due motivi. Non si lascia irretire da quel “professionismo” sterile che mima le grandi produzioni o peggio ancora il cinema narrativo, assumendo al contrario un ruolo totalmente autoriale e strettamente connesso ai principi della visione. E oltre a questo, cerca l’aura dell’immagine attraverso la bassa definizione e i formati dismessi, senza lisciare il pelo a quell’estetica visual che fa i conti solo con interfacce tecniche, algoritmi e sistemi pre-impostati. Il suo è uno sguardo autenticamente selvaggio e speriamo rimanga tale a lungo.

Il video di Geremia 1111, realizzato per Lazzaretto elabora una personale visione del sogno con un procedimento che abbiamo visto in altre clip dell’autore pugliese, incluso le più elaborate avventure nello stop-motion.

Dal primo ascolto di Geremia 1111, il brano mi ha condotto in uno stato d’animo idilliaco – ci ha detto Antonio – dove atmosfere oniriche si fondono con la realtà. È stato proprio questo sentimento a darmi l’input per ricercare rappresentazioni evocative, filmati d’epoca che mostrano riti religiosi, ed ecco che quel flusso di emozioni che ho citato al principio, è arrivato prorompente a suggerirmi cosa fare. La scelta delle processioni è stata davvero un bel viaggio, ho raccolto le immagini di città come Bitonto, Trani, Giovinazzo e Taranto. Una volta selezionate ho iniziato a lavorare su ogni singolo filmato utilizzando After Effects dandogli una visione distorta, per dare l’idea di essere in un sogno

Antonio Stea su instagram

Stea alterna la produzione di video musicali anche a quella di documentazione, in una larga accezione. Nel caso dei live set esce dal solco delle riprese concentrate sull’altissima definizione, così vicine ormai alla visione asettica dei registi che lavorano nell’ambito dei matrimoni e preferisce inventarsi modi di osservare che elaborino qualcosa di sensoriale, in relazione alla performance filmata. Aveva già impiegato formati analogici per girare i live dei Violent Scene, ha impostato un discorso concettualmente simile per i Lazzaretto.

Per filmare la bella session acustica della band è stata ricreata un’atmosfera intima attorno ad un focolare: “Luce rossa sui loro volti – ha aggiunto Antonio – mentre il sole tramonta fino a chiudere con uno sfondo in cui dominano i colori crepuscolari, così da poter evidenziare lo scorrere del tempo e far si che la performance avesse vita propria

Se avete dubbi su come si debba filmare una performance, quella realizzata per le splendide musiche di Cosimo Savino, Vittorio Di Lorenzo e Angelo Rosato Fanelli, dovrebbe scioglierli nel passaggio dal giorno alla notte

I Lazzaretto sono una band pugliese che ha esordito con “Sacramento” lo scorso maggio, per la label/collettivo Dischi Uappissimi con distribuzione Artist First. Già dall’artwork del CD si capiscono gli intenti: un fazzoletto del 1914 ricamato a punto e croce. Alle spalle un racconto epistolare tradotto con i segni del cucito, all’ombra della grande guerra, dove una ragazza aspetta invano il suo amato, destinato a morire durante il conflitto. Il tempo si ferma e aspetterà il suo ritorno per una vita intera. Cantato interamente in lingua francese, riscrive le regole di certa psichedelia, ma anche dell’estetica post rock, traghettandole verso territori interiori ed evocativi di grande suggestione.

Lazzaretto su sondcloud

Lazzaretto su instagram

Lazzaretto, Sacramento EP (artwork)


Cherry Red Records: ordini senza costi doganali da tutta Europa

Cherry Red è l’etichetta britannica legata ad un vastissimo archivio di storia della musica pop, rock, psych, prog, garage, wave, punk, elettronica e declinazioni annesse. Le loro ristampe e i loro cofanetti antologici, anche quando raccolgono materiale di sintesi, hanno lo spirito della ricerca filologica, tanto da assumere il peso e il ruolo di vere e proprie esplorazioni storico-sonore. Navigare tra le selezioni di un box come Manchester – North of England, significa acquisire conoscenza specifica, tanto da non rimpiangere quei libelli inutili che ancora si pubblicano in Italia, dove si consigliano i cento, cinquecento o mille dischi fondamentali.

Accuratissime dal punto di vista storico, le selezioni Cherry Red, quando non pubblicano intere discografie, vengono sempre associate a booklet esaustivi che consentono un inquadramento storico-critico del materiale.

Tra i numerosi cofanetti che abbiamo trattato anche su indie-eye, consigliamo a questo proposito Musik, Music, Musique, sul proto-synth pop, Try A little Sunshine, amplissima ricognizione sulla psichedelia inglese annata 1969; Halcyon Days, Mod Brit e R&B britannico che in un colpo solo svela i segreti più costuditi tra i resident DJ che guardano al passato; l’uneasy listening dell’elettronica statunitense tra il 1975 e il 1984 in Third Noise Principle, box digipack bellissimo e consigliato a tutti coloro che vogliono andare oltre i Residents.

Potremmo continuare e proprio per questo ci fermiamo qui, consigliandovi di visitare la sezione Cherry Red su Indie-eye, per consultare tutti i consigli e i video unboxing che abbiamo realizzato in collaborazione con l’etichetta britannica durante gli ultimi anni.

La notizia è però un’altra, perchè Cherry Red, “combatte” gli ostacoli Brexit con un’attenzione specifica ai propri fan e agli appassionati che acquistano da tutta Europa e che negli ultimi mesi si sono visti bloccare i materiali alla dogana, con spese impreviste e inaspettate.

Cherry Red è adesso è certificata con il regime opzionale IOSS. Questo significa che sui propri beni, entro tutto il territorio europeo, non scatta il blocco doganale, agevolando quindi i clienti europei, senza imporre sorprese e costi aggiuntivi, quest’ultimi già calcolati nel prezzo di acquisto dei CD e dei Vinili in catalogo.

Per l’occasione e fino alla fine di gennaio 2022, sul sito Cherry Red è possibile acquistare con uno sconto del 20% utilizzando un codice reperibile direttamente a questa pagina del sito ufficiale