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Fernweh, il video di Irene e Chiara Trancossi: I migliori del 2021 #2

Fernweh, lo spazio della memoria per Irene e Chiara Trancossi

Fiaba per adulti. Così Irene e Chiara Trancossi definiscono il loro ultimo lavoro condiviso. Il video di Fernweh, già presentato in concorso all’ultima edizione di Asolo Art Film Festival nella sezione videoclip e come Tramontofili, parte di un sodalizio artistico duraturo con la cantautrice e musicista fidentina Glomarì, è una delle visioni più interessanti del 2021 intorno all’area della videomusica italiana.
Intorno perché si tratta di un lavoro in totale controtendenza rispetto al lessico dei videoclip correnti, ancorati ad un’idea di ritmo e di groove molto precisa e totalizzante.

Le sorelle Trancossi insieme a Glomarì

In Fernweh la contemplazione gioca invece un ruolo fondamentale e il ritmo emerge da un’altra dimensione: un orologio in fiamme, una staccionata che sembra quella filmata da Lynch all’inizio di Blue Velvet, un tappeto volante che sorvola una casa tra realtà e illusione. Tempo e spazio subiscono una torsione e sembrano suggerire un ritorno all’infanzia, quando era possibile percepire il mondo in forma più espansa, rispetto ai limiti sociali e identitari che l’occhio degli adulti impone.

Fernweh, un video di Irene e Chiara Trancossi con musiche di Glomarì

Irene e Chiara Trancossi sono rispettivamente fotografa e Scenografa/art director. Il loro connubio creativo e professionale, quando realizzano audiovisivi legati alla musica, indica una tendenza che è diventata fondamentale nello sviluppo del videoclip contemporaneo, quasi più della regia tradizionalmente intesa. Nel loro caso, questa è la conseguenza e la somma di una serie di elementi.

Fernweh ha una genesi opposta rispetto ai videoclip tradizionali, nasce come video dove successivamente la cantautrice Glomarì ci ha cucito sopra una canzone; un interessante scambio di priorità che non è assolutamente comune, soprattutto nel panorama italiano della videomusica, dove i prodotti raramente vengono considerati come frutto di una collaborazione collettiva.

Girato anche come reazione all’isolamento forzato per l’emergenza SARS-CoV-2, fa in un certo senso parte di quell’immagine pandemica che non parla esplicitamente del tema, ma che risente, tangibilmente, delle limitazioni imposte, reagendo in modo creativo fuori dai set tradizionali; un esempio cinematografico in tal senso è il film di Celine Sciamma, Petite Maman. In modo del tutto casuale questi due mondi sembrano davvero molto vicini.

Glomarì – Fernweh – il video di Irene e Chiara Trancossi

Fernweh – L’intervista a Irene e Chiara Trancossi sul making del video

Irene Trancossi, sito ufficiale
Chiara Trancossi, sito ufficiale

Bentornate su indie-eye Chiara e Irene. Nella conversazione dedicata al video di Tramontofili ci siamo soffermati sul vostro sodalizio artistico con la cantautrice Glomarì. Per il video di Fernweh mi piacerebbe indagare più da vicino il processo creativo che entrambe affrontate quando realizzate un video. La regia come viene concepita attraverso la specificità dei vostri ruoli?

E’ un piacere per noi tornare su Indie-eye.
La regia solitamente viene concepita in maniera comune, si parte da un’idea che, a seconda dei casi, proviene da una o dall’altra ed insieme la arricchiamo progressivamente con spunti e riferimenti. Nella fase di ideazione non esistono compartimenti stagni, la storia si materializza quasi subito tramite immagini e viene pensata anche come uno spazio scenografico. Siccome nasciamo come fotografa e scenografa , la regia è fortemente influenzata da questi due ruoli attraverso una grande attenzione alla luce e alla composizione spaziale.

Prima di approfondire aspetti espressivi e poetici, mi piacerebbe capire come prendono forma gli aspetti materiali del video. Fernweh mi sembra un lavoro di oggetti, dove Tramontofili invece giocava maggiormente con la luce e le ombre.

La scelta di produrre un video in cui i protagonisti sono oggetti è avvenuta in seguito alla condizione di reclusione in cui tutti ci trovavamo. Il tentativo è stato di evocare tramite tali elementi simbolici una presenza umana, che nonostante non compaia mai, è fortemente percepita. In questo modo è come se gli oggetti si trasformassero in personaggi e acquisissero una loro identità.

Fernweh, immagine.

La casa è un modellino in scala, ma lo si scopre alla fine della clip. Fernweh in questo senso mi sembra che esplori il confine tra percezione e illusione, è così e secondo voi in che modo?

Abbiamo concepito Fernweh come una sorta di gioco illusionistico: ciò che è piccolo in realtà sembra molto grande e ciò che a prima vista appare come veritiero, non corrisponde spesso alla realtà. Ci siamo divertite ad ingannare lo spettatore utilizzando il potere della prospettiva e le alterazioni dei rapporti di scala fra gli oggetti. Per noi è stato l’inizio di un percorso che ci ha reso consapevoli delle potenzialità illusionistiche del mezzo fotografico e scenografico, che combinati insieme possono dare curiosi risultati.

La parola tedesca Fernweh approssimativamente indica un senso di nostalgia per qualcosa che non è tangibile, come l’altrove. Nel video si cerca sempre di andare oltre i confini visivi e alcune immagini sono molto forti nel delimitare lo sguardo:

Il tentativo di andare oltre ai confini visivi è collegato a quello di evadere dalle mura domestiche in cui eravamo costrette durante la prima quarantena Covid19. Il tempo subisce una sorta di dilatazione e lo spazio si distorce generando universi allusivi. Attraverso un viaggio di immagini evocative ed oniriche trapela il desiderio di connettersi ad un altrove più profondo e recondito, che solo attraverso l’arte raggiunge la sua pienezza.

In termini tecnici i vostri video e quindi anche questo, sembrano sfruttare maggiormente i trucchi ottici e quindi non ricorrono alla correzione digitale del set. È così?
Hai detto bene, trucchi ottici, e come ogni trucco che si rispetti non può essere svelato!

Quanto secondo voi l’art direction, come insieme di più elementi, dalla scelta della location alla definizione della luce fino agli oggetti utilizzati, sostituisce in certi casi la regia tradizionalmente intesa? Nel vostro caso qual è, se c’è, il confine tra art direction e regia?

Nel nostro caso non vi è confine fra Art Direction e Regia: ci occupiamo di entrambe le cose. In seguito al nostro background, è naturale che questi due aspetti coincidano e non riusciremmo a delegare uno o l’altro ruolo ad una figura terza nei nostri progetti personali.

I presupposti di Fernweh, definito da voi stesse come una fuga dalla quarantena per il Covid 19, sono in qualche modo ancora drammaticamente attuali. In questa fuga, in termini realizzativi, avete percepito differenze o la vostra prassi non è affatto cambiata?

Abbiamo prodotto Fernweh in un contesto totalmente a sé stante, riducendo il numero delle persone sul set al minimo ed aguzzando al massimo l’ingegno per sopperire alla mancanza di attrezzatura e materiale tecnico. E’ stata una sfida riuscire a produrre un video parecchio impegnativo con il minimo dei mezzi, in tutti i sensi. La maggior parte delle riprese sono state girate nel nostro giardino di casa nel mese successivo al primo lockdown, ovvero non appena è stato possibile uscire di casa.
Questa mancanza di mezzi ha stimolato ancora più in noi la voglia di produrre arte in un momento così ostile a livello globale.

In che modo il vostro lavoro, incluso quindi il contributo di Glomarì, assume una forma interdisciplinare? Vorrei saperlo in termini pratici più che espressivi

Il nostro lavoro spazia attraverso l’uso combinato delle arti, concentrandosi sull’indagare il rapporto fra musica e immagini. Questo è dovuto soprattutto al nostro background professionale: nasciamo come fotografa di scena e come scenografa di opera lirica. ll teatro e la vicinanza con la musica ci hanno predisposto a concepire l’arte in maniera poliedrica e multidisciplinare, con una fusione osmotica di più linguaggi espressivi. La nostra ricerca, come d’altronde quella di Glomarì, ha come obbiettivo un risultato sinestetico.

Fernweh,immagine

Uno degli elementi che mi sembra emerga dal video è l’atmosfera di una fiaba. È così?

Il riferimento al mondo fiabesco è scaturito dalla condizione in cui è nato il progetto: ritornando nella casa Fidenza, dove siamo cresciute, e rimane costrette per così tanto tempo, ha risvegliato la memoria di odori e stati d’animo propri del passato.
Prendendo distanza dal mondo, in particolare dal “frullatore milanese ” abbiamo iniziato a stupirci per le cose più semplici e quotidiane, che hanno così acquisito una nuova identità. In fin dei conti l’artista metaforicamente può essere comparato ad un bambino poiché l’arte ha in sé un aspetto ludico fondamentale che deve essere sempre mantenuto alimentato e custodito. Per questo sosteniamo che Fernweh sia una sorta di fiaba per adulti.

Tra fotografia e scenografia, che ruolo ha la scrittura nella fase di pre-produzione e soprattutto quanto scrivete e quanto improvvisate sul set?

Entrambe facciamo sempre molta ricerca: mostre, cinema, teatro, concerti, libri e musica.
Così facendo, è come se preparassimo terreno fertile all’arrivo di un’idea che si materializza spesso improvvisamente e inaspettatamente dalle situazioni più improbabili. Successivamente vi è la fase di sviluppo ed esecutiva che viene da noi pianificata in ogni singolo dettaglio. Nonostante non crediamo nell’improvvisazione, questa attenta e minuziosa progettazione ci permette di lasciare aperte le porte sul set all’inaspettato: ad esempio, cogliere una luce o una particolare espressione o situazione che si verifica nella sua unicità in quell’attimo.

La post produzione che ruolo ha per voi? Chi si è occupato del montaggio per Fernweh e in che modo?

Il montaggio viene da noi deciso prima delle riprese, contemporaneamente alla scrittura. Il ritmo del video Fernweh è volutamente contemplativo: lo spettatore è sospinto ad immergersi nelle immagini che si susseguono come una sorta di onda.


Chiara, qual è stato il tuo ultimo lavoro come scenografa? Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Il mio ultimo lavoro come scenografa è stato il videoclip natalizio di Elettra Lamborghini. Si è dimostrato parecchio impegnativo ma anche molto soddisfacente, ho seguito la progettazione e l’intera realizzazione. Lavori commerciali di questo tipo per me rappresentano una sfida: cerco sempre di mantenere la mia firma stilistica e compositiva nonostante siano incarichi commissionati da terzi molto diversi dalla mia produzione personale.

Irene il tuo ultimo lavoro come fotografa invece si chiama “Britomarti”, come un personaggio della mitologia greca. Un concetto forte di sorellanza che mette al centro le donne della tua famiglia come parte di un processo di conoscenza identitaria….

Dopo essermi imbattuta nella lettura dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese sono rimasta colpita dal personaggio di Britomarti, ninfa di cui Minosse si innamora perdutamente ed inizia ad inseguire. La ninfa per sfuggirgli si tramuta in vari elementi e per essere finalmente libera si trasforma in schiuma d’onda.
Britomarti è ad oggi il mio progetto più maturo e nel quale più mi identifico da un punto di vista valoriale. E’ il risultato di una ricerca identitaria in quanto donna e un viaggio verso una dimensione spirituale e naturale. Il progetto è un tentativo di riconciliazione con l’archetipo di donna selvaggia, e nasce da un periodo trascorso nella natura con Chiara e le mie cugine.

Irene Trancossi – Britomarti agosto 2021 Cadaques, Spagna

Progetti futuri condivisi?

Abbiamo parecchi progetti in cantiere, sia singoli che condivisi. Sicuramente il più impegnativo ed ambizioso sarà il nostro primo cortometraggio, di cui abbiamo ultimato la sceneggiatura e siamo alla ricerca di sponsor e produttore. Non vediamo l’ora di svelarvi qualcosa in più!

The Weeknd, Gasoline è il nuovo video estremo della geniale Matilda Finn

Il racconto purgatoriale di The Weeknd prosegue anche in termini visuali. Dopo il video di Take My Breath diretto da Cliqua e diffuso sulle piattaforme social lo scorso agosto, tocca alla geniale Matilda Finn prendere in mano il percorso di espiazione indicato da Dawn FM, l’album del musicista e produttore discografico canadese.

L’ambientazione di Gasoline è simile a quella del video precedente, ma l’approccio è diametralmente opposto e assolutamente fedele alla ricerca della filmmaker londinese.

La formazione della Finn, lo ricordiamo, è preminentemente fotografica. Si è fatta le ossa nel campo della moda e ha plasmato la sua visione a partire dall’attenzione specifica al dettaglio.

I suoi video, che abbiamo analizzato più volte qui su Indie-eye, hanno un segno fortemente riconoscibile e rilanciano, da una prospettiva personale, alcune intuizioni della migliore videomusica degli anni novanta, con particolare riferimento alla videografia di Chris Cunningham soprattutto per i termini in cui la soggettiva ipnagogica plasma forme e parametri dell’immagine. Ciò che distingue il suo lavoro è l’emergere di una prospettiva rituale che rielabora i temi del desiderio e dell’ossessione secondo una traiettoria femminile che entra a gamba tesa dentro l’indicibile, riferendosi alternativamente al cinema di Cronenberg, Tsukamoto, Alison McLean, ma anche alla fotografia di Anna Gaskell per quanto riguarda gli aspetti legati alla mutazione identitaria, corporea e percettiva.

Ecco che il video di Gasoline è il rovescio della palpebra rispetto al lavoro sulla luce della clip precedente, perché a differenza della patina estetica presente nel lavoro di Cliqua, identica a tanti altri video che lavorano sull’immaginario clubbing, la percezione modificata dall’intermittenza illuminotecnica serve alla regista inglese per stabilire un continuo passaggio nella dimensione onirica, mutando a vista forma, distanze, prospettiva e dimensioni del set.

Gli aspetti performativi del video musicale e il modo in cui storicamente il set nei videoclip muta con la trasformazione del movimento ritmico, vengono sfruttati dalla Finn per creare un saggio formidabile sul disorientamento percettivo, dove al suo interno lo spazio di incontro tra sogno e veglia viene trattato come una variazione sul tema del doppio, ma anche come una personale lettura della realtà aumentata.

Nello scontro di Abel Makkonen Tesfaye con i mostri del proprio inconscio, Matilda Finn innesta altre prospettive, non immediatamente individuabili, tant’è chi ha scritto del video, incluso quelle poche realtà che in Italia si occupano di promo, spesso in modo improvvisato e maldestro, ha enumerato semplicemente i trascorsi del producer e musicista con le droge, l’alcool e altre forme di dipendenza. Questioni tematiche di poco conto rispetto all’analisi visuale.

Che la violenza estrema del video della Finn funzioni anche da cautionary tale, può starci, ma affidarsi in modo così netto all’interpretazione letterale del concept serve solo a delegittimare un lavoro molto più complesso sull’immagine.

L’involucro del video è quello del cinema horror. Il viaggio in macchina serve per oltrepassare la barriera del reale ed entrare in quella dell’incubo, almeno apparentemente perché la simmetria è evidentemente rovesciata. Il dettaglio introduttivo sul doppio marcescente di Abel, infestato di formiche, serve proprio per confondere i piani di realtà, la provenienza è infatti il regno della morte.

Il dancehall condivide quindi lo spazio semantico del cinema horror, ma anche quello delle arti performative, dalla danza al musical, per come sono state cannibalizzate dal videoclip industriale almeno dagli anni ottanta in poi.
Su questi due topoi, uno come dicevamo proveniente dall’immaginario cinematografico, l’altro da mondi creativi diversi, Matilda Finn gioca moltissimo e disattende continuamente la possibilità di individuare la realtà in modo univoco, sovvertendo la dinamica percettiva.

Straordinario in questo senso, al pari del disvelamento delle componenti RGB nel coup de théâtre di un famoso video di Rybczyński, l’improvvisa rivelazione scopica dei due piani di realtà, uno sopra l’altro, o forse uno dentro l’altro, e ancora, considerata l’allusione esplicita alla visione VR, l’uno generato dall’altro.

La posizione del sottosuolo allora non è così facile da individuare; certamente è una dimensione, intesa anche in termini interiori, che alla Finn interessa molto, come dialogo costante con la mutazione del meraviglioso nell’orribile. A questo proposito, si pensi al significato sessuale che investe la simbologia del germoglio e alle forme ibride che assume il corpo femminile, vero e proprio territorio dove la summa dell’immaginario desiderante, da vita ad una nuova esplosione creaturale, capace di scardinare il diavolo nell’occhio di chi guarda.

Swanz The Lonely Cat – My Soul’s Black Book. Il video di Cirkus Vogler: i migliori del 2021 #1

Le dieci migliori “cose” viste nel 2021, #1

A distanza di sedici giorni dal passaggio che tutto cambia per niente cambiare, abbiamo deciso di celebrare le dieci migliori “cose” nel 2021 senza compilare una lista acchiappacitrulli, ma dedicando lentamente e con i tempi dell’approfondimento, uno spazio redazionale a ciascun lavoro. Videomusica, ma eccentrica ed eccedente.

My Soul’s Black Book, il brano di Swanz The Lonely Cat e il Video di Cirkus Vogler

La prima di queste digressioni dal calendario corrente è “My Soul’s Black Book“, brano di Swanz The Lonely Cat, progetto solista di Luca Andriolo, già fondatore dei Dead Cat In a Bag.

In una forma inscindibile, ma allo stesso tempo del tutto autonoma, il video di Cirkus Vogler, moniker di Romina Bracchi, artista umbra di stanza a Todi, dove lavora da tempo come fotografa e pittrice, mescolando letteralmente supporti e media e servendosi di numerose tecniche di manipolazione della materia, tra cui il collage. Molte le personali collettive a cui ha partecipato, mentre dopo una serie di tentativi sperimentali, quello di “My Soul’s Black Book” è effettivamente il suo primo video.

Cirkus Vogler su Instagram

Swanz The Lonely Cat su Facebook

My Soul’s Black Book non è un semplice videoclip

Nella diffusione del progetto, Cirkus Vogler ci tiene a distinguere l’operazione dall’ambito strettamente videomusicale per il rigetto della tirannia narrativa tra liriche e immagine e per il ricorso ad un immaginario che segue altre logiche del racconto, tra cui quella della sollecitazione onirica.

I riferimenti ama citare sono “L’ora del lupo“, film di Ingmar Bergman girato nel 1968 e “Psicosi delle 4:48“, l’ultima opera teatrale di Sarah Kane prima del suicidio, vero e proprio rovescio oscuro della mente.

L’idea di infestazione, ovvero quel rovescio della palpebra che individua l’origine del mostruoso all’interno della propria storia, passa attraverso le liriche di Andriolo e la potente arte immaginale di Cirkus Vogler, in una delle cose più belle viste/sentite durante l’anno passato.

Il lavoro sulle fotografie, spiegato in dettaglio nel corso dell’intervista che proponiamo più avanti in questo articolo, viene combinato per creare una pulsazione materica in simbiosi con il battito del brano, il cui risultato è quello di un folk-industrial non convenzionale, vicino e allo stesso tempo lontanissimo dalla musica delle radici, per come la intendiamo comunemente.

Nello stesso modo in cui Andriolo tratta gli strumenti tradizionali, usandoli come oggetti da cui strappare un suono che riveli la loro natura più oscura, Cirkus Vogler compie una scansione tattile sulle immagini, ritardando il più possibile la forza livellatrice dell’editing non lineare.

In termini pratici, come ci racconta, strappa le foto, le modifica manualmente, sfrutta il difetto e forza gli agenti del tempo, costruendo una personale versione dello stop-motion, come aberrazione della sequenza temporale.

Il collage, invece di essere un gioco combinatorio di matrice pop, dove l’innesto normalmente punterebbe al grottesco o al linguaggio grafico del fumetto, qui esalta le pieghe, gli strappi, le ombre, ciò che nell’immagine sfugge. La mutazione mostruosa che è quasi sembre un cambio di prospettiva, emerge come un rimosso che prende vita dall’infinita possibilità che gli scarti offrono alla visione.

I videoclip d’animazione che circolano un po’ ovunque, rappresentano spesso un estremo perfezionamento delle tecniche di motion graphics, il cui motore creativo è prima di tutto un motore tecnico legato ai software di utilizzo, capaci di livellare il linguaggio in modo riconoscibile e quindi appiattendo il risultato. “My Soul’s Black Book” è in questo senso una brillante eccezione, perché è un lavoro più selvaggio, ma dall’altissimo standard qualitativo. Può indicare in questo senso una strada nuova, anche per la videomusica, piegando gli strumenti contemporanei del digitale e resistendo con una manualità ritrovata, alla dimensione negativamente risolutiva dell’editing.

Cirkus Vogler, una conversazione con Romina Bracchi

Cirkus vogler, il moniker, mette insieme il circo e la sua concezione come luogo polimorfo che unisce la magia del luogo e l’inquietudine della condizione umana, con il cognome che Ingmar Bergman spesso affidava ai personaggi dei suoi film, dall’illusionista Albert Emanuel Vogler ne “Il volto”, all’attrice Elisabeth Vogler di “Persona”. Come artista, questa dimensione emerge nell’esperienza fotografica fatta attraverso media eterogenei utilizzati in campo analogico (camera oscura, foro stenopeico, polaroid, cianotipia gomma bicromata, carta salata, solarizzazione), e successivamente digitale (dall’alta definizione al low-fi).
Le tecniche miste sono il segno distintivo della sua arte, realizzata servendosi di carta, foto vintage, materiali fotografici e iconografici di recupero.

Benvenuta su indie-eye, come è cominciata la collaborazione con Swanz per il video di My Soul’s Black Book e come si è sviluppata in termini di lavorazione?

Grazie, sono felice di essere qui. Credo che il tutto nasca da una reciproca stima artistica. Circa un anno fa, mentre facevo i miei esperimenti con il passo uno, Swanz mi ha detto che aveva una canzone in cantiere alla quale gli sarebbe piaciuto associare un video di quel tipo. Da lì ho cominciato a lavorarci confrontandomi con lui di tanto in tanto.

Questo non è il tuo primo approccio con il video, la tua arte era già confluita in alcuni esperimenti visual. Puoi raccontare qual è il processo che ti conduce dalla fotografia all’immagine in movimento?

Mi mancava qualcosa. Creare immagini in movimento fa parte della mia personale evoluzione artistica. Quando ho iniziato a sperimentare col video ho anche trovato enormi difficoltà perché ero abituata a immagini ferme e mi sono trovata in un mondo molto diverso da quello a cui ero abituata,ma con dei punti in comune: il montaggio per esempio è simile al processo di tagliare e incollare, che come collagista conosco bene ed è la parte più divertente.

Il video di My Soul’s Black Book è costituito da media eterogenei. L’accezione di mixed media per te include un approccio materico agli oggetti che confluiscono nell’insieme? In che modo, se puoi raccontarcelo?

Di solito lavoro assemblando gli elementi che ho a disposizione, cercando di sfruttare i limiti di quello che non ho. Sono un’accumulatrice seriale di reperti e scarti, non è raro che torni da una passeggiata con lo zaino pieno di foglie da essiccare o objects trouvée che attraggono la mia attenzione. Quando lavoro ad un’immagine mi piace mettere insieme diversi elementi in modo da dare un’idea di tridimensionalità.

Come mai la scelta dello stop motion?

Lo stop motion è una tecnica che mi ha sempre affascinata e avevo voglia di vedere le mie
immagini in movimento.

Il risultato mi è sembrato un sorprendente mix tra animazione e quell’attenzione alla vita degli oggetti inanimati che attraversa la cultura surrealista, dalle origini fino alle declinazioni più recenti, penso al radicalismo di Svankmajer…

Possiamo dire che il video è un compendio di influenze estetiche di varia provenienza, senza
sconfinare nel citazionismo. Ovviamente si possono menzionare Svankmajer, Bokanowski, ma anche Ballen, Witkin e persino Tsukamoto.

Non ti piace e non vi piace definire il video di My Soul’s Black Book un videoclip. Mi piacerebbe sapere perché. Sicuramente esce dal solco della videomusica tradizionale ma è anche vero che la rete ha cambiato le carte in tavola in termini di possibilità e ibridazioni…

Ci piacerebbe che la canzone e il video potessero essere considerate due opere distinte. In questo caso comunicano bene tra loro ma potrebbero anche non farlo. È un doppio racconto, sebbene in entrambi i casi affidato all’allusione.

Il difetto, il glitch, le fotografie strappate, l’incertezza del movimento a passo uno, sembra siano tra i tuoi interessi percettivi maggiori. Cosa ti attrae delle imperfezioni e soprattutto, come lavori sulle fotografie in particolare, come le tratti, le trasformi, le plasmi…

Il mio approccio all’arte è condizionato dalla mia mania personale di recuperare e ricostruire, un po’ come insegna la tecnica giapponese del kintsugi, che consiste nel valorizzare le crepe di un oggetto con l’oro. Non faccio quasi mai storyboard, parto da un’idea iniziale e vado avanti facendomi travolgere dall’ imprevisto. Uso tutte le imperfezioni della carta stropicciata enfatizzando i difetti, mi lascio ispirare dall’errore trasformandolo in strumento di espressione.

Analogico e digitale. Il primo è sicuramente predominante in termini di materiali, ma il secondo ti consente di combinarli. Come interagiscono questi due mondi apparentemente agli antipodi?

Ho manipolato a mano ogni frame, strappando, incollando e dipingendo, in un’era di editing
digitale. Se ci penso la cosa dovrebbe farmi sentire antiquata e mi dico che ho impiegato un tempo dieci volte maggiore. Forse, semplicemente, non mi piace il digitale puro e il mio amore per la matericità non mi permette di escluderla da ciò che faccio. Il risultato che ottengo unendo analogico e digitale ha un sentore di tecnologia ormai sorpassata, come potrebbe essere un video in VHS, ormai diventato con le sue imperfezioni una fonte di ispirazione per varie forme d’ arte. In fotografia potrei nominare il foro stenopeico, che non sostituisce la ripresa digitale (la quale, bizzarramente, si arricchisce continuamente di filtri vintage o low-fi). Potrei dire che quello che faccio è una sorta di glitch art analogica, una sperimentazione estetica ispirata da tecnologia ormai obsoleta. Però ritengo il digitale molto utile e cerco di sfruttarlo al meglio e combinarlo con la manualità. Non confondo il fine con il mezzo, o medium.

Qualche progetto futuro che si avvicini a questo e quindi alla videomusica contemporanea, nell’accezione più larga del termine.

Abbiamo in cantiere altri video, anche girati in modo tradizionale (tra l’altro i Dead Cat in a Bag, la band di provenienza di Swanz The Lonely Cat, ha sempre avuto un’attenzione particolare all’aspetto visivo), ma non strettamente musicali. Anzi, questa volta si partirà dal girato e la musica seguirà. Ci sono interi mondi da esplorare

The Vapors, tutta la discografia storica della punk band in un Box di 4CD

The Vapors Waiting For the Weekend, The United Artists & Liberty Recordings, 4CD

La benemerita Cherry Red Records pubblica un indispensabile box per tutti gli amanti del punk britannico. La discografia storica completa dei The Vapors, che include tutti i singoli, i due album e moltissimo materiale inedito registrato dalla band di Guilford tra il 1979 e il 1982.

Due gli album inclusi, “New Clear Days“e “Magnet“. Sono compresi anche tutti i singoli, b-sides e inediti. Ma non basta perché la tracklist complessiva, costituita da ben 76 tracce, raddoppia con la presenza di entrambi gli album citati, in versione demo, con tutte le versioni alternative disponibili e persino un live registrato al Rainbow nel 1979.

Oltre a “Turning Japanese“, che in qualche modo rimane il brano più famoso dei The Vapors, coverizzato anche da Liz Phair, sono molte le tracce che mantengono quello spirito catchy, immediato e urgentemente pop della band guidata da David Fenton.

Per farvi un’idea diretta e immediata, il nostro video unboxing che aggrega alcuni dei brani più belli della raccolta in pre-ascolto.

The Vapors, Waiting for the weekend, 4CD BOX: unboxing (Cherry Red Records)

Consulta la tracklist di Waiting For the Weekend dei The Vapors

Formati nel 1978 e scoperti da Bruce Foxton dei Jam, entrano nel management di John Weller, padre di Paul, e siglano un contratto con la United Artists nel 1979. Con il loro secondo singolo, “Turning Japanese“, conquistano il successo internazionale e il 36mo posto nelle charts statunitensi. Esce nel 1979 il loro primo album intitolato “New Clear Days” e due anni dopo il successivo “Magnets“. Riformatisi nel 2016, hanno pubblicato un terzo album intitolato “Together” nel 2020.
Il box Cherry Red non lo contiene, ma include tutto, ma proprio tutto, della discografia storica.

Valeria Caliandro – Firmamento: il video di Valeria Caliandro e Virginia Gradi

Firmamento, il video, è un vero e proprio lavoro di squadra. Ideato dalla stessa Valeria Caliandro per veicolare il suo nuovo singolo, è stato sviluppato a partire da un soggetto condiviso con la danzatrice e coreografa Virginia Gradi, che insieme alla musicista pratese firma anche la regia.

La fotografia, il montaggio e tutta la post-produzione sono invece affidati ad Agustin Cornejo di Arte Videomaking, che già avevamo apprezzato per il video di “Dei Due” diretto per Cristallo (N.d.r. ascolta il Podcast con Francesca Pizzo) e che in qualche modo è videomaker ufficiale di BlackCandy produzioni.

La clip ha una qualità performativa predominante, tanto da assegnare al gesto e al movimento un ruolo centrale, per inserirsi a pieno titolo in quel territorio di convergenza che il videoclip contemporaneo sta occupando, basta pensare in questo senso a Sufjan Stevens che collabora con un coreografo dal grande talento come Ezra Hurwitz.

L’esperienza dell’assenza come mutazione estrema della psiche, investe il corpo nella sua relazione con ciò che si situa fuori dai suoi confini. Senza poter stabilire connessioni tattili, cerca l’essenza del gesto per specchiare l’origine dell’immagine interiore. Il video si muove intorno a questi concetti plasmando l’idea del doppio come forma indicibile, perché costituito da pezzi ormai mancanti eppure così vicini alla mappatura del nostro vero volto.
In termini visuali, Firmamento sceglie la strada in mezzo a un bosco, un’abitazione dismessa, e soprattutto un tracciato matrilineare per definire i margini di questa cosmogonia intima.

Valeria partorisce Valeria in un gioco performativo con Virginia Gradi e si dirige verso quell’inciso Zen che sollecita a mostrare la faccia indossata prima di venire al mondo.

Da questo rituale emergono le immagini di un video misterioso, che interroga costantemente l’andamento tensivo di un brano che sembra non trovare requie.

Valeria Caliandro su Facebook
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Manuel Agnelli per Diabolik: la profondità degli abissi, il video dei Manetti bros.

Muoiono ad uno ad uno i componenti della band di Manuel Agnelli. Il videoclip diretto dai Manetti bros. veicola uno dei due inediti del musicista milanese, contenuti nella colonna sonora di Diabolik, il film dei Manetti bros. già in sala, interpretato tra gli altri da Luca Marinelli, Valerio Mastandrea e Miriam Leone. 

Nella clip si riconoscono oltre a Rodrigo D’Erasmo, Vittoria Burattini dei Massimo Volume alla batteria e Beatrice Antolini alle tastiere, impegnata in una performance indiavolata, prima di soffocare tra i fumi del gas letale immesso sul set.

Mentre la Burattini ha partecipato alla clip in forma amichevole, senza essere direttamente coinvolta nel possibile progetto solista di Agnelli, come ha dichiarato alla cronaca di Ancona del Resto Del Carlino, nel disco e nell’esibizione live andata in onda a sopresa durante la puntata di X-Factor dello scorso 3 Dicembre, alla sezione ritmica ci sono i Little Pieces of Marmelade, il duo di Filottrano che aveva partecipato al talent di Sky un anno fa, Rodrigo D’Erasmo e al piano Beatrice Antolini.

La clip dei Manetti bros. combina alcune immagini del film con una giocosa rielaborazione del set a metà tra uno studio vintage e l’attenzione al ruolo degli oggetti che caratterizza il film stesso.

Indie-eye ha già parlato della colonna sonora di Diabolik composta da Pivio & Aldo De Scalzi, con un numero di “artworks”, il format dedicato ai dischi in vinile, per raccontarvi l’edizione limitata e numerata del vinile gatefold a tre ante, pubblicato da Carosello Records

Diabolik, la colonna sonora di Pivio & Aldo De Scalzi in vinile limitato: il video unboxing

Un altro Natale perso per rilanciare il settore musicale: la nota dei Fonografici Italiani

Per Sergio Cerruti, presidente dell’AFI, Associazione Fonografici Italiani, il Natale di quest’anno non è di segno positivo. Il commento arriva a seguito della mancata approvazione dell’emendamento volto a ridurre temporaneamente al 4% l’IVA sui supporti fisici.

“Come troppo spesso accade, il periodo della Legge di Bilancio assomiglia sempre più ad un obiettivo di contenimento degli equilibri politici che alla volontà di promuovere misure di lungo raggio per far ripartire tanto il nostro settore quanto l’intero Paese” – continua il Presidente Cerruti – “Ci teniamo ad ogni modo, a ringraziare le forze politiche e, in particolare, il Presidente Nencini per aver supportato sino alla fine il settore della musica nella battaglia per la riduzione, seppur temporanea, dell’IVA. Una misura che cercava di dare respiro ad un settore che sta vivendo oggi un periodo di enorme criticità ma che da sempre non è adeguatamente inquadrato e valorizzato dalle Istituzioni”.

“In questi due anni, AFI si è messa ripetutamente in gioco presentando proposte concrete e mostrando la propria voglia di collaborare per far ripartire l’industria musicale italiana e renderla quanto più possibile competitiva a livello europeo e internazionale. La stessa Unione Europea ha da poco approvato il testo di compromesso sulle nuove regole in materia di Iva, aprendo alla possibilità di applicare l’imposta ridotta anche per il settore della cultura. Ci dispiace nuovamente notare che il nostro Paese non è attento alle nostre istanze, neanche quando le stesse provengono dai Ministri dell’Economia dell’Ue.

“Si è persa, nuovamente, l’occasione di approvare una misura da tempo attesa e condivisa dall’intero settore della cultura. Lo stesso rammarico infatti è espresso dal comparto dell’audiovisivo che, come noi, auspicava ad un cambio di passo da parte delle Istituzioni” – continua il Presidente di AFI Sergio Cerruti – “Un’indifferenza, quella del Governo, su cui non possiamo restare in silenzio. Continueremo pertanto a farci sentire per sostenere le nostre imprese, affinché il settore possa vedere riconosciuta quella auspicata normalità da troppo tempo rimasta inattuata”.

Lucca Summer Festival 2022: I nuovi nomi e i concerti confermati

La D’Alessandro e Galli ce la sta mettendo tutta per restituire al proprio pubblico quello che a tutti gli effetti è il festival più importante d’Italia nell’ambito della musica pop e rock, per storia, longevità e qualità delle selezioni.
L’emergenza epidemiologica ha costretto gli organizzatori a immaginarsi il nuovo palinsesto sulla lunga distanza e le date della nuova edizione del Lucca Summer Festival sono decise tra il 25 di giugno e il 24 luglio 2022.

La situazione dei concerti viene aggiornata giorno dopo giorno, mentre molte riconferme sono già stabilite. Cominciamo dall’ultima conferma, annunciata un’ora fa dal profilo instagram del Lucca Summer e relativa all’atteso concerto di Liam Gallagher. L’artista salirà sul palco di Piazza Napoleone il prossimo 6 luglio 2022, arricchito dalla presenza dei Kasabian per un vero e proprio Double Bill all’insegna del brit rock di qualità. I biglietti dei concerti sono disponibili a partire da questa mattina.

Tra i grandi colpi del festival annunciati come novità, il mitico Robert Plant insieme ad Alison Krauss, entrambi sul palco il 14 luglio 2022. I biglietti sono in vendita dal novembre scorso sempre sul sito ufficiale del festival.

I Concerti recuperati e le nuove date di riferimento sono:

  • Nick Mason’s saucerful of secrets – 25 giugno 2022
  • John Legend – 9 luglio 2022
  • Céline Dion – 15 luglio 2023
  • Ben Harper – 17 luglio 2022
  • Paolo Conte – 26 giugno 2022
  • Brunori SAS – 24 luglio 2022

Per informazioni in tempo reale vi consigliamo di seguire il profilo instagram ufficiale del Lucca Summer Festival

Stuart A. Staples, dai Tindesticks a Claire Denis: a Sesto Fiorentino per un doppio live

I Tindersticks sono tornati con un nuovo album pubblicato lo scorso febbraio. Registrato con tutte le difficoltà del momento, nella complessità di mettere insieme una band apolide che ormai vive in diverse località europee, Distractions non è un “lockdown album”. Stuart A. Staples, frontman e fondatore della band lo ha chiarito in varie occasioni, perché se la contingenza ha costretto ad un piano di lavorazione più sofferto, il percorso creativo non ha niente a che vedere con la pandemia.

Disco scabro, ridotto all’osso e lontano anni luce dal taste of honey orchestrale del loro secondo album, fa emergere l’anima più minimale e lunare della band formatasi a Nottingham nel lontano 1991, in sintonia con i lavori solisti dello stesso Staples e in particolare con la splendida colonna sonora di High Life, composta dal musicista britannico per Claire Denis e pubblicata da City Slang nel 2018.

Sono passati ventotto anni dalla pubblicazione del primo album dei Tindersticks, oggetto di culto pubblicato da This Way Up che rivelava il talento di una band capace di capitalizzare molte suggestioni della musica americana, rivestendole di uno spleen squisitamente europeo. Quella stessa formula gli aveva consentito di recuperare un brano come Kathleen di Townes Van Zandt, trasformandolo in un esempio dolente di chamber pop che nonostante l’orchestra, o forse proprio per quella, disinnescava gli elementi dell’estetica lounge, a cui spesso ed erroneamente i nostri sono stati accostati.

L’arredamento nella musica dei Tindersticks, da sempre punta verso una spoliazione degli elementi in gioco, dinamica sottrattiva che è diventata radicale.

Ecco perché la recente science fiction di Claire Denis diventa terreno adatto per far germogliare quelle intuizioni nel deserto dell’antimateria. Staples realizza la collaborazione più convincente con la grande autrice francese e rimane in bilico tra ambient ed elettricità, rumore bianco e un’elettronica personalissima che si definisce come tale non certo per l’impiego di suoni disumanizzati identici ad altre cose, ma per attitudine, visione, capacità combinatoria.

In fondo, adesso che il percorso di Staples e soci è giunto ad un traguardo estremo, la notizia che Stuart A. Staples sarà a Sesto Fiorentino il prossimo 11 dicembre 2021 per un vero e proprio double-bill presso il Teatro Della Limonaia, accompagnato solamente da un pianoforte, suona come un’occasione da non perdere.

Gli ottantotto tasti sono suonati da Dan McKinna e consentiranno alla voce particolarissima di Staples di cimentarsi per la prima volta in una dimensione solista, già sperimentata lo scorso novembre alla Fondazione Cartier di Parigi. Un raccoglimento necessario prima del grande tour che presumibilmente sarà allestito nel 2022 per celebrare il trentennale dei Tindersticks.

Staples rivisiterà quindi il suo repertorio, pescando dai tredici album della band e dai quattro solisti incisi tra il 2005 e il 2018. Non è escluso che tra i recuperi possa figurare una delle sue composizioni più recenti, la bellissima Willow, l’unica forma canzone scritta per High Life della Denis, ma interpretata da un notevole Robert Pattinson.

Sempre a proposito del percorso di radicalizzazione di cui parlavamo, assistere al concerto di Staples, sarà l’occasione per godersi il suo songwriting allo stato puro, in una dimensione formale ed espressiva votata all’essenzialità.

I concerti, organizzati dall’Associazione Culturale La Chute, specializzata in eventi musicali di qualità, sono previsti presso il Teatro Della Limonaia di Sesto Fiorentino il prossimo 11 dicembre 2021.

Due show, di cui il primo alle ore 18:00 e il secondo alle 21:30.

I posti a sedere disponibili sono 100, quindi limitatissimi. La prevendita dei biglietti è disponibile presso questo link.

Corteccia – Vorrei: il videoclip di Pietro Puccio

Che a dirigere i propri video siano gli stessi musicisti è ormai diventata una felice consuetudine.

Più vicini alla propria semantica e all’anima del progetto, evitano committenze non sempre permeabili e prolungano il discorso musicale sul piano visuale.

Talvolta la ciambella esce fuori con il buco nel posto sbagliato, ma da queste parti abbiamo sempre accolto con attenzione e curiosità tentativi di questo tipo, soprattutto in ambito sperimentale.

Pietro Puccio e Simone Pirovano in particolare, con il loro progetto “Corteccia“, non potrebbero rinunciare alla componente visuale, parte di una ricerca timbrica, che esonda da sempre nella produzione di video dalla qualità tattile. Questo accadeva quando il duo collaborava con Larissa Saldarini per la clip di Su una rivoluzione, ed è proseguito con il disegno animato di Oasi realizzato dallo stesso Puccio, di cui Solidi può essere considerata una variante vitalmente primitivista, il tutto culminato nel live streaming del 7 maggio 2020, dove in pieno lockdown i nostri utilizzavano lo split dei software per video conferenze con grande creatività performativa, mettendo insieme visual, musica e disegno.

Del resto l’attività di Puccio è questa: insegnante di disegno e illustrazione presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, allevato a Jazz e musica classica, fino alle performance di live drawings in contesti teatrali.

Puccio e Pirovano, coadiuvati da Sebastiano De Gennaro alle percussioni, Lorenzo Caperchi ad editing e riverberi e Simone Zeemo Beretta al sampling di vinili “rotti”, producono “Vorrei“, secondo estratto da “Quadrilogia delle distanze”, EP che sarà pubblicato nel 2022.

Traccia concepita durante il primo lockdown, esprime quell’urgenza di ritrovare spazi aperti che tutti abbiamo sperimentato.

Si tratta di un’esperienza sensoriale in termini di contenuto, ma anche nella forma visuale che veicola il brano. Le mani al lavoro sulla creta rossa diventano il centro di quel ciclo energetico che dalla creazione passa alla distruzione, secondo principi dinamici che il video decostruisce con un’impostazione di tipo metadiscorsivo.

Il soul eccentrico e fratto del brano ingaggia un serrato dialogo ritmico con le immagini, seguendo un percorso che nella videomusica spesso viene dimenticato, ovvero quello delle immagini che “suonano” letteralmente il brano, superando quindi la simmetria di certe sinestesie alla ricerca di analogie prevalentemente scopiche e irrimediabilmente binarie.

“Vorrei” al contrario ha una vitalità aptica davvero sorprendente, prima di tutto per la relazione erotica che il gesto stabilisce nel contatto con la materia, in secondo luogo per le modalità del montaggio, sottoposto a impercettibili vibrazioni interne all’immagine stessa, quasi a ricercare una dimensione totalizzante nell’immagine e non tra le immagini.

Il lavoro sulla creta si avvicina a quello dello scratching su vinile, genera un suono visuale potente quanto i pattern creati dal duo.

Tra le cose più belle ascoltate e viste nel panorama asfittico e agonizzante della musica italiana.