venerdì, Novembre 29, 2024
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Live Streaming audio/video di qualità con Mixer Zoom LiveTrak L-8: video tutorial

Torniamo a parlare di Zoom LiveTrak L-8, il mixer pensato anche per lo streaming di qualità che consente ai produttori di podcast, ma anche anche alle band, di sfruttare gli otto canali disponibili on board, per diffondere i propri contenuti in diretta live sui più diffusi social network.

Dopo il primo video unboxing, e il secondo più specifico, dove vi abbiamo raccontato le funzioni che consentono di registrare interviste telefoniche di qualità, andiamo più a fondo, con altre funzioni, tra le innumerevoli che caratterizzano l’ottimo Mixer della Zoom.

Abbiamo quindi testato LiveTrak L-8 per la simulazione di una diretta streaming su YouTube, utilizzando il Mixer come Interfaccia Audio per PC e connettendo allo stesso, la videocamera Zoom Q4N per la parte video. Ecco il nostro video tutorial.

Zoom LiveTrak L-8, funzioni audio interface per la diretta streaming audio / video su Youtube

Per questo video tutorial abbiamo utilizzato un Mixer LiveTrak L-8 e una videocamera Q4n, entrambi dispositivi Zoom.

La Zoom Q4n è una videocamera adatta alle riprese live per l’ottica molto ampia, meno “spinta” di una Gopro e con un comparto audio notevole, adatta per la ripresa al volo di Jam Session in sala prove ma anche di live contenuti.

Un esempio del suo utilizzo può essere verificato nel format video prodotto da Indie-eye, One Camera Band Man, dove sono state utilizzate due videocamere Q4n per la ripresa e post-produzione di un set live.

Se interfacciata come Webcam, il microfono on board della Q4N viene disabilitato. Utilizzata in combinazione con L-8 è assolutamente efficace, perché tutti i flussi audio vengono gestiti dal Mixer, mentre Q4n viene utilizzata solamente per la parte video, così da ottenere potenzialità maggiori rispetto ad una tradizionale webcam.

Utilizzata in combinazione con il supporto MSM-1, può garantire riprese stabili e allo stesso modo una versatilità di posizionamento notevole; MSM-1 è infatti uno stativo a morsetto che consente l’avvitamento su mobili, tavoli, e su qualsiasi superficie che ne permetta l’aggancio.

Oltre ai dispositivi utilizzati nel video tutorial, ovviamente LiveTrak L-8 consente di connettere strumenti musicali, microfoni di ogni tipo e dispositivi di linea. Per la dotazione podcast, consigliamo oltre ai dispositivi indicati, l’adozione di un microfono a condensatore; L-8 monta infatti un selettore phantom power che consente l’utilizzo ottimale di microfoni di questo tipo.

Listino Zoom

Our Vision Touched the Sky – Fenomenologia dei Joy Division – a cura di Alfonso Amendola e Linda Barone

Non è il primo né sarà l’ultimo, ma il lavoro connettivo di Alfonso Amendola, professore di sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno e di Linda Barone, professoressa di linguistica inglese e traduzione presso lo stesso ateneo, è assolutamente unico nel contesto scientifico italiano. Parte della collana di Scienze di media e Sociologia della cultura, chiamata “La sensibilità Vitale” e diretta dallo stesso Amendola, “Our Vision Touched the sky” attraversa l’opera dei Joy Division con un procedimento interdisciplinare, affrontato mediante una pluralità di prospettive filosofiche, fortunatamente non sempre conciliabili tra di loro e per questo motivo, segno vivo della ricchezza segnica, storica e sociale di quel brodo di coltura in cui sono fermentati i germi del post-punk.

Diviso in quattro sezioni, rispettivamente indicate dai contenitori: Radici, Immaginari, Pensiero e Cartografie in Divenire, il volume è costituito da quasi trecento pagine divise tra più di venti mini saggi che analizzano il ruolo dei Joy Division e la figura di Ian Curtis secondo coordinate legate alla ricerca sociologica, agli elementi grafici e simbolici generati dal loro immaginario, ad altre iconizzazioni simboliche, fino alla titolarità del nome di una band e a tutto quello che è connesso alle tutele come marchio di impresa, nel percorso che dai Joy Division procede verso l’avventura dei New Order, per come viene analizzato nel bel saggio di Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio.

Al centro, una psicogeografia possibile, dove si cerca di costruire un ponte tra passato e futuro, nel continuo rimando tra interno ed esterno, città, suono, parola, segno e identità.

In questo senso il lavoro dello stesso Amendola in “Metropoli e spazio periferico nell’underground post punk inglese” dialoga a distanza con quelli di Emiliano Ilardi e Caterina Tomeo, impegnati a tratteggiare i confini della rave era tra suoni e spazi derealizzati, rispettivamente in “Dalla Factory records ai rave nelle factories” e “Tra il sound dei Joy Division e la Rave-Era“, mentre la relazione tra media ed estetica plasma un immaginario che esce dal periodo di riferimento, grazie a successive rimediazioni di istanze subculturali capaci di oltrepassare confini geografici e temporali.

Del resto, tutto il volume curato da Amendola e Barone, nell’intenzione mai celata di una progettualità magmatica e corale, cerca di mettere a fuoco una storia mai scritta del post-punk, come serbatoio ancora inesaurito di creatività, a partire dalla sua genesi storica, per superarla lateralmente e leggerne segni e cicatrici ancora vive.

I segni dicevamo, sono allora molteplici, e tra gli esempi più riusciti di questa gemmazione, il bel saggio di Linda Barone spicca per qualità analitica e capacità combinatorie: “Directionless so plain to see. (Di)Versioni stilistiche, letterarie traduttive” non è solo uno viaggio attraverso il mestiere di traduttore, come continuo (s)radicamento, ma un insieme di comparazioni tra poesia, letteratura e analisi testuale che si muove in forma oscillatoria a partire dai testi di Curtis. Si tratta di un movimento centripeto e centrifugo, un assorbimento rintracciabile nella prassi dello stesso Curtis, ma anche nella rilettura a posteriori delle sue liriche, come sentimento che ispira, genera, crea nuove forme. Dai testi posseduti e amati da Curtis (Ballard, Burroughs, Poe, Lovecraft, Kafka…) alla connessione con la poesia di T.S. Eliot, dove la Barone sistematizza in modo puntuale e preciso una suggestione che, a dire il vero, era già era stata sollecitata da altre intuizioni combinatorie collocate al di fuori del recinto accademico, come per esempio il poco noto mashup tra The Wasteland e Control di Anton Corbijn (n.d.a. piccolo saggio visuale in rete, per gli “ossessionati” come noi, sin dal 2009). La narrativa di Nicholas Royle, Jessie Greengrass, David Gaffney occupa la terza parte del saggio, alla ricerca di una disseminazione verso l’esterno dei testi di Curtis, mentre la sezione conclusiva è un’interessante analisi di alcune parole grammaticali ricorrenti, utilizzate per proporre una dimensione interpretativa differente da quelle più battute.

Alessandro Gnocchi, con identica passione, elabora un possibile percorso Burroughsiano e Ballardiano nei testi di Curtis in “Interzona“, evidenziando i rimandi più o meno evidenti e la mutazione che subiscono nell’elaborazione poetica fatta da Curtis.

Introduce Roberta Paltrinieri, tre pagine densissime dove la responsabile scientifica del DAMSlab dell’università degli studi di Bologna, recupera il Tondelli di Un Week end postmoderno, per definire il post-punk come forma culturale e chiave interpretativa di fenomenologie esterne ed interiori.

Nel bel mezzo di un crepuscolo farmacologico dove il dolore ha irrimediabilmente perso tutta la stratificazione simbolica, questa fenomenologia dei Joy Division, con tutte le contraddizioni interne del caso, è una lettura utile per ridefinire i confini identitari di una comunità senza limiti visibili, che ancora brucia sotto la cenere.

Our Vision touched the sky – Fenomenologia dei Joy Division sul sito di Rogas Edizioni

Our Vision touched the sky – Fenomenologia dei Joy Division – A cura di Alfonso Amendola e Linda Barone
Prefazione: Roberta Paltrinieri
Contributi: Alfonso Amendola, Novella Troianiello, Daniele De Luca, Eugenio Capozzi, Donato Guarino, Alfredo De Sia, Manolo Farci, Paolo Bertetti e Domenico Morreale, Jennifer Malvezzi, Andrea Rabbito, Fabio La Rocca, Alessandro Gnocchi, Vincenzo Romania, Linda Barone, Massimo Villani, Giuseppe Allegri, Fortunato M. Cacciatore, Francesca Ferrara, Caterina Tomeo, Emiliano Ilardi, Raffaele Federici, Giada Iovane, Giovanni Maria Riccio, Michele Grillo.
Editore: Rogas Edizioni
Pagine: 295
Prima Edizione: Marzo 2021
ISBN: 9788899700843
Prezzo: 19,70

Alfonso Amendola è professore di Sociologia dei processi culturali presso l’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di sociologia delle arti, dello spettacolo e della letteratura con particolari attenzioni verso le culture d’avanguardia, i consumi di massa, le innovazioni digitali.

Linda Barone è professoressa di Linguistica inglese e Traduzione presso l’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di linguistica testuale, multimodalità, didattica della lingua inglese, traduzione letteraria e traduzione audiovisiva.

R.E.M. – Daysleeper: il video di The Snorri Brothers

Mai stati fratelli gli Snorri Brothers. Amici per la pelle fin dall’85 quando si erano incontrati per un contest di Breakdance, i due islandesi hanno cominciato a sperimentare con la fotografia in madrepatria, per poi spostarsi negli Stati Uniti dove hanno investito il music business con una tempesta di idee creative memorabili.

Dalla fotografia al video il passo è veloce, siamo nella seconda metà degli anni novanta e il contesto dei video musicali viene ritagliato intorno all’identità di autori innovativi che cambieranno il volto e la concezione dei promo.

Tra le invenzioni del duo, la SnorriCam, uno dei dispositivi più utilizzati nell’industria creativa, costituita da una fotocamera e un rig installato, per esempio, su un corpo umano. Centrata su un asse fisso, la SnorriCam può quindi scattare, senza cambiare il corpo o il soggetto principale, mentre mutano costantemente lo sfondo, l’ambiente, i riferimenti, gli oggetti, la luce, lo spazio circostante.

Il video di Daysleeper per i R.E.M. primo singolo dall’album UP, viene realizzato con questa tecnica, scattando centinaia di foto e ricombinandole in uno stop motion metafisico e suggestivo.

Mentre Michael Stipe si fa ispirare da una scritta individuata fuori da un appartamento newyorchese, immaginandosi la vita e i bioritmi completamente sballati di un lavoratore, gli Snorri sviluppano una duplice elegia della luce, tra la produttività destinata al mattino e gli interni illuminati artificialmente, dove chi è costretto a vivere fuori tempo, immagina un altro luogo e un altro spazio.

Duran Duran – Union of the Snake: la storia del videoclip diretto da Simon Milne

Durante l’agosto del 1983 i Duran Duran si trovavano a Sidney per ultimare le fasi di missaggio di “Seven and the ragged tiger“, il loro terzo album. Russell Mulcahy, il regista australiano con cui avevano già stabilito un buon sodalizio, stava completando le trattative per Razorback, il suo debutto nel lungometraggio.

Il coinvolgimento nel video di “Union of the Snake” era quindi una connessione naturale e la sceneggiatura fu concepita da Mulcahy insieme a due manager e agli stessi Durans. Primo di una trilogia, secondo l’idea originaria del regista australiano, aveva un concept che risentiva delle atmosfere di Mad Max e Indiana Jones in egual misura e metteva al centro un manoscritto perduto e un mondo arcano nascosto sottoterra.

Fu sempre un’idea di Mulcahy quella di coinvolgere il coreografo Graeme Murphy per alcune sequenze che avrebbero dovuto animare il sottomondo, mentre nell’area desertica che copriva le attività di questa setta ancestrale, si muoveva una creatura metà uomo metà lucertola, ennesima rielaborazione dell’immaginario fantascientifico e horror che caratterizzava la visione di Mulcahy.

Il regista australiano dovrà abbandonare il progetto per dedicarsi anima e corpo a Razorback, tanto da spingere la EMI a rivolgersi ad un altro autore attivissimo nel campo dei videoclip, il neozelandese Simon Milne. Cresciuto in Italia e formatosi in Inghilterra, questi si era fatto le ossa come assistente alla regia, per poi passare al montaggio, scelta che lo condurrà dritto dritto nella fucina dei video musicali di quegli anni, proprio al centro dell’esplosione catodica veicolata da MTV.

Come regista era quindi attivo solo da due anni, ma aveva già diretto per band e muscisti di alto rilievo come Talk Talk, Kim Carnes, Marillon e Kajagoogoo.

Nonostante i tempi strettissimi, Milne accetta la commessa, anche perché aveva già avuto a che fare con i Duran Duran, sia come assistente sul set di Rio, sia per averli filmati live.
Lo sviluppo di “Union of the snake” fu quindi un lavoro collettivo, con Milne attivo sul set e il coordinamento coreografico di Murphy.
I temi e gli ambienti, incluso l’allestimento del set, erano fortemente legati alle idee di Mulcahy, anticipando in molte direzioni il video di Wild Boys che il regista australiano dirigerà personalmente l’anno successivo. Le analogie sono percepibili, ma anche le differenze nella gestione di set e movimenti, senza niente togliere a Milne.

In termini tecnici, fu uno dei primi video ad altissimo budget ad essere girato in pellicola 35mm, quindi abbandonando il nastro e introducendo la golden era di MTV come veicolo promozionale principale che stava letteralmente uccidendo le “radio star”.

Tant’è la clip fu veicolata una settimana prima rispetto alla diffusione radiofonica del singolo, creando un vero e proprio polverone interno alla gestione dei media in termini promozionali.

Il deserto australiano, il mondo sotterraneo, la creatura antropomorfa, il bimbo da salvare, provengono direttamente dall’universo di George Miller e dall’allora recente Mad Max 2, mentre lo spazio di convergenza ideato per il set, sarà una rilettura post moderna di quei props che avevano caratterizzato la storia del rock attraverso la televisione, praticabili che espandevano la possibilità dello studio televisivo, consentendo una fusione tra la magniloquenza delle produzioni cinematografiche, la danza e lo spazio performativo ritagliato intorno alle star, nella transizione tra finzione scenica e l’allestimento sempre più colossale dei concerti.

In questo senso il video inaugura una stagione importante, perché senza “Union of the Snake”, in termini di sforzo economico e produttivo, i video a venire non sarebbero stati possibili. Oltre al già citato Wild Boys è necessario ricordare i 17 minuti di New Moon on Monday, diretto da Brian Grant, ma soprattutto il progetto video-live Arena (An Absurd Notion) che connetteva un’imponente macchina live con una concezione narrativa più ampia, tanto da ideare i set di alcuni segmenti all’interno degli studi Pinewood a Londra, sfruttando i teatri di posa allestiti per le produzioni di 007. Frammenti che a loro volta vivranno autonomamente come videoclip .

I videoclip si configurano già come uno spazio intermedio, un luogo di convergenza dove confluiscono e allo stesso tempo esondano elementi provenienti o destinati ad altri ambiti, tra la danza, il Cinema e i grandi eventi performativi.


Duran Duran, il videoclip di Union of The Snake, da un’idea di Russel Mulcahy – Dir: Simon Milne

I Dolori Del Giovane Walter – Musica leggerissima: il videoclip live in anteprima

I Dolori Del Giovane Walter è il progetto di Walter Valletta, cantautore cilentano attivo dal 2015. Messa insieme la band nel 2017, focalizza subito le caratteristiche di un’anima pop intimista, confidenziale, ma che nelle intenzioni guarda anche alle sonorità del rock contemporaneo ad ampio raggio. Il singolo di esordio si intitola “Piano” ed è stato veicolato da un videoclip uscito lo scorso settembre e diretto da Marco Jeannin. In pochi giorni la clip ha totalizzato quasi 40mila visite, un risultato importante per un progetto che sta vedendo ufficialmente la luce in questi mesi e che conferma l’attenzione che si muove intorno alla scrittura di Valletta.

Musica leggerissima” chiarisce ancora di più le intenzioni de I Dolori del giovane Walter, perché trasforma il brano di Colapesce/DiMartino in una confessione introspettiva quasi sussurrata, vicina al cuore del progetto. Più di una cover, sarebbe giusto parlare di riscrittura.

A dirigere il video live che proponiamo in esclusiva su Indie-eye Videoclip, Denise Galdo, artista a tutto tondo (graphic designer, videomaker e musicista ovviamente), che ha interpretato il video valorizzando “l’intento carnale del brano“. La loro versione, ci ha detto Denise, “mi é apparsa subito estremamente calda, accogliente, cosa che ho provato ad esprimere stringendo sui dettagli della loro pelle, sugli occhi, le mani. Il tutto in un bianco e nero classico ed elegante ispirato dagli assoli di chitarra e piano.”

I Dolori Del Giovane Walter – Musica Leggerissima: il videoclip live diretto da Denise Galdo in anteprima esclusiva su indie-eye videoclip

La foto di copertina è di Denise Galdo

I Dolori del Giovane Walter su Spotify
I Dolori del Giovane Walter su Instagram
I dolori del Giovane Walter su Facebook
I dolori del Giovane Walter su TikTok
I dolori del Giovane Walter su Youtube

Guns For Bunnies, Denise Galdo Videographer

I Dolori del Giovane Walter sono:

Walter Valletta – voce/chitarra
Giuseppe Foresta – chitarra elettrica
Elio Basile – basso
Alberto Guzzo – piano/synth
Daniele Ripoli – batteria

Queen – Crazy Little thing Called love, il videoclip di Dennis De Vallance: recensione

Crazy Little thing Called Love (1979) vero e proprio pastiche rock’n’roll, fu uno dei singoli di maggior successo dei Queen, riguardo al quale è nota tutta la mitopoiesi legata alla stessa genesi del brano. Omaggio evidente ad Elvis, una delle passioni di Freddie Mercury, viene scritto e prodotto in gran velocità, con l’ambiente sonoro ricreato da Reinhold Mack, su imitazione di quell’aura old fashioned che aveva caratterizzato anche il metissage dell’album precedente della band britannica, il discusso, anche in termini visuali, “Jazz”.

Il video che veicolava “Crazy little thing called love”, non a caso, è il prosieguo della collaborazione con il regista Dennis De Vallance, che già aveva lavorato sulla censuratissima clip di Bicycle Race. In questo caso sceglie una strada solo apparentemente più convenzionale, ricreando in studio la dimensione performativa che caratterizzava l’immagine di Elvis, dai suoi film alle esibizioni allestite per la televisione.

Per la prima volta in un promo dei Queen compare un gruppo di ballerini, due donne e due uomini, mentre la band suona sullo sfondo e Mercury domina un catwalk oltre ad una serie di props iconici, tra cui una motocicletta.

Al di là della retromania che caratterizza la fine del decennio e l’inizio del successivo, il video è una rivisitazione irriverente di quei codici, proprio nei termini in cui la rappresentazione del genere, viene sottoposta a ribaltamento, se non erosione, come accade spesso nei video della band britannica e nel modo in cui Mercury gestisce il mash-up iconologico che caratterizza la sua persona scenica.

L’atto di guardare come possesso indirizzato verso il corpo femminile, annichilito nella forma di un oggetto inanimato, subisce un’inversione rispetto alla norma, prima di tutto perché avviene una sostituzione con il corpo di Mercury, la cui oggettificazione polarizza sia lo sguardo femminile che quello maschile.

Oggetto di più desideri, il genere si dissolve per un rifiuto di standard e punti di vista definiti. L’immagine virile dello stesso Elvis, che qui viene evocata in forma transtorica, dalle origini fino al noto concerto del 1968, viene moltiplicata e complicata con più di una rivendicazione delo sguardo desiderante.

L’alterità quindi, non viene rappresentata come uno stereotipo evidente, ma individuata come centro di un transito continuo, dove corpi maschili e femminili si sovrappongono e danno vita a nuove genesi dello sguardo.

Queen – Crazy Little thing called love – Dir: Dennis De Vallance

The Cure – A letter to Elise, il videoclip di Aubrey Powell: recensione

Robert Smith stava attraversando un difficile periodo di depressione durante la stesura dei brani che avrebbero costituito il nono album dei The Cure intitolato “Wish“. “A Letter to Elise” in particolare, viene definita dal musicista britannico come una canzone sulla rassegnazione. Ispirata a Les Enfants terribles, il romanzo di Jean Cocteau, recupera quel senso di isolamento dei giovani protagonisti e lo fonde con lo spirito di un’altra lettera, quella scritta da David Bowie a Hermione Farthingale nella sua “A letter to Hermione“. Per Smith, il suo brano pende maggiormente dalla parte del flusso di coscienza, con molti riferimenti personali e l’idea di fondo che la rassegnazione emerga di fronte all’inevitabilità dei cambiamenti.

In effetti, affrontata letteralmente è la storia di una separazione o di un abbandono, ma che assume a poco a poco le caratteristiche di un viaggio interiore, come sovente accade nei brani scritti da Smith per i Cure.

Il video della canzone fu realizzato tra il 18 e il 19 luglio del 1992 e filmato durante il soundcheck al Palace di Auburn Hills, nel Michigan. A dirigerlo è Aubrey Powell, una delle due menti straordinarie dietro lo studio Hipgnosis, co-fondato nel 1967 insieme a Storm Thorgerson. La carriera di Powell si allarga dal design ai video intorno ai primi anni ottanta, con la fondazione della Green Back Films con la quale dirige moltissime clip. L’estro delle copertine e degli artwork realizzati negli anni settanta non è indicativo per comprendere il lavoro di Powell regista, che sostanzialmente rimane un autore di live. Con i Cure in particolare collaborerà per The Cure Show.

A letter to Elise” è quindi un video live, ma molto particolare, senza pubblico e con il teatro vuoto, la troupe entra in campo e instaura una dialettica tra l’immagine filmata di Robert Smith, virata in un bianconero elettronico e quella effettiva a colori.
Nel continuo gioco di rimandi personali e interiori del testo, le immagini funzionano come uno specchio che scompone e riflette la performance dal vivo come un insieme specifico di gesti.

The Cure – “A letter to Elise” – Dir: Aubrey Powell (1992)

Video Verticali: espandere o contrarre la visione?

Nel passaggio da VHS a DVD, una delle caratteristiche negative che non è riuscito a salvare neanche il feticismo nostalgico, era rappresentata dall’attitudine a forzare il formato delle opere cinematografiche per la fruizione su schermi 4:3, i più diffusi per tutti gli anni ottanta. Il bruttissimo ricordo delle copie “scannate” ogni tanto si è riaffacciato con edizioni curate e trasferite con il culo, dove si è tentato di far cassa semplicemente sfruttando il catologo senza alcun investimento in direzione di un miglioramento qualitativo. Intendiamoci, è un problema enorme che affligge buona parte dell’home entertainment in Italia, tranne rarissime label, ovvero la scarsa cura nell’allestire edizioni al passo con la tecnologia, tanto da occupare un posto di retroguardia rispetto a rimasterizzazioni, restauri e aggiornamenti che al contrario caratterizzano la qualità delle edizioni inglesi, tedesche, francesi e statunitensi.

Ma non è questo l’oggetto della nostra breve analisi, quanto l’esplosione dei Video Verticali in ambito creativo, guardata a lungo con sospetto anche per le ragioni appena descritte. Conquistato il 16:9 come proporzione più adatta per vedere un’opera audiovisiva, videoclip inclusi, l’affermazione di YouTube come piattaforma principale per la diffusione di video legati alla promozione della musica, è andata di pari passo con il cambio radicale di priorità delle televisioni tematiche, MTV in testa. In questo contesto, le difficoltà di visualizzazione di un video verticale hanno dimostrato una integrazione difficoltosa dei dispositivi mobili con le necessità promozionali, creando un cortocircuito molto simile alla visione de “Il gigante” di George Stevens in una versione ridimensionata per gli schermi quadrati; come a dire, o un video Verticale viene pensato e concepito alla radice, oppure è un formato inutilizzabile.

Se su YouTube e sullo schermo del proprio computer, i video verticali occupano solo una porzione dell’area visibile, da TikTok alle stories, il formato si è imposto come un diretto prolungamento dei dispositivi mobili e una naturale adattabilità della visione all’ergonomia di uno smartphone. Tant’è, su Instagram, il problema è diametralmente opposto a quello di YouTube e una clip 16:9, pur pubblicabile sia su Reel che su IGTV, non si adatta alla fruizione immediata.


L’introduzione di Canvas, applicazione destinata ai creativi e agli artisti presenti su Spotify, ha seguito le sperimentazioni della piattaforma messe a punto prima insieme a Selena Gomez, successivamente e in modo più mirato con Billie Eilish e la sua “experience” visuale.
Brevi clip associate ad un brano, spesso in forma di loop, che estese a tutta la tracklist di un album, assolvono la funzione che un tempo era affidata alle cosiddette “liner notes” di un Long Playing. Quest’ultima funzione, nel tentativo di trasformare lentamente le piattaforme in wiki autosufficienti, Spotify sta cercando di incoraggiarla con la recente introduzione di Songwriter Pages, dove sostanzialmente è possibile sapere qualcosa in più sui crediti e i dettagli di un brano, in forma interattiva, mentre i video verticali sembrano aggiungere, in una direzione complementare ed aumentata, aspetti che riguardano il making di un video o il senso di un brano espresso in termini visuali.

Senza soffermarsi su lessico e qualità, i riferimenti sembrano ancora molto vicini alla fisiologia delle app per smartphone, con tutto il peso confidenziale della quotidianità.

Da questo punto di vista è interessante esaminare le regole e i parametri tecnici consigliati per lo sviluppo di una clip su Canvas, le cui regole ricordano la stessa normatività imposta da MTV negli anni ottanta, quando la libertà creativa doveva muoversi entro una parametrizzazione ben precisa.

L’utilizzo di Canvas su Spotify è possibile solo per chi possiede un account artista. I suoi video sono oggetti autonomi che non vengono sincronizzati con i brani della libreria, per questo il lyp sync e l’idea di una clip che metta al centro il cantato è completamente abolita. L’azione deve essere centrata perfettamente sull’asse verticale, sia per le proprorzioni dello schermo, ma anche per la presenza dei controlli che normalmente sono posizionati sulla seconda metà più bassa. I video ovviamente devono essere girati e post-prodotti in formato 9:16 e non superano gli otto secondi di durata.
L’aspetto più interessante è legato alla possibilità di creare un flusso narrativo che non si fermi ad un brano singolo, ma che possa attraversare tutto l’album, traccia dopo traccia, in modo che le brevi clip, in qualche modo, dialoghino tra di loro, per creare qualcosa che sfrutti l’impatto immediato dei pochi secondi a disposizione, ma anche una relazione più attiva con altre clip.

Il loop è la cellula base per sviluppare le clip, spotify ne individua tre: The Continuous Loop, il cui risultato è quello di una GIF senza inizio ne fine, The Hard Cut, con tagli di montaggio definiti, ma che possono essere mascherati ad arte ed infine The Rebound, che gioca con il tempo della sequenza, avanti e indietro, invertendola.
A questo proposito sono nate piattaforme come Rotor, che consentono lo sfruttamento di librerie video già pronte o più direttamente l’impiego delle proprie, per guidare in modo semplice gli utenti verso la creazione di una clip di otto secondi che soddisfi tutte le caratteristiche richieste da Spotify Canvas. Rotor è la via più semplice, rispetto all’utilizzo di software per il montaggio non lineare come Final Cut Pro X o Filmora X che consentono, con un controllo maggiore, di elaborare video per le Stories e per Spotify Canvas.

Reel di instagram, con la possibilità di caricare video di 60 secondi è a nostro avviso l’opzione migliore per i video verticali, se lo scopo prefissato è quello di elaborare una strategia visuale creativa. Nell’utilizzo più immediato, consente di riscrivere la promozione aziendale e di un brand, sfruttando una rotazione che in termini di visualizzazioni, rispetto a YoutTube, può essere più efficace e di maggior impatto, soprattutto sulla breve distanza.

Anche i creativi e i filmmaker possono sfruttare in modo intelligente lo strumento, utilizzando in modo totalmente legale la libreria musicale a disposizione su Instagram. L’associazione di un brano ad una clip caricata su Reel, come sappiamo, non viene fatta su una timeline dove usualmente è consentito decidere al millimetro il sync tra immagine e musica, ma è possibile, in fase di post produzione e se si usano programmi di montaggio non lineare, isolare i sessanta secondi interessati durante l’editing sul proprio computer e successivamente caricare una clip muta, da associare a quegli stessi sessanta secondi di musica, questa volta aggiungendo il brano dalla libreria di instagram e associando lo stesso punto di attacco.

Sto sperimentando le funzioni, per creare brevi videoclip pensati ad hoc per il formato verticale e destinati a sfruttare la libreria di Instagram, non solo perché mi sembra che nessuno al momento lo stia facendo, ma anche perché sono convinto si tratti di uno strumento formidabile a livello creativo.

Al momento, sul mio profilo @michelefaggi di Instagram, nella sezione reels, ho pubblicato quattro video verticali, con le musiche di Wildbirds & Peacedrums, Peter Gabriel, Madonna, Johnny Cash e non escludo collaborazioni più mirate, in sinergia con alcuni musicisti del panorama internazionale.

Oltre ad utilizzare lo spazio a disposizione, splittando l’area verticale e servendomi di un montaggio disgiuntivo basato sulla ripetizione di frammenti collocati in posizioni successivamente diverse, così da rompere quella relazione tra selfie e video verticale, cerco di capire se il formato mi consenta o meno di espandere il punto di vista, usando lo spazio e l’immagine al servizio di modalità narrative poco battute nei video musicali, tra cui quella legata alla simultaneità dei frammenti. Oltre a questo, con un account creator posso scegliere da una libreria musicale vastissima, cercando di promuovere per un pubblico più vasto, visuals da me creati.

Questa ipotesi di utilizzo di Reel, oltre a servirsi del formato video nativo per Instagram, è a mio avviso una via interessante per diffondere idee visuali e lavori creativi, ma potrebbe essere sfruttata in sinergia con artisti del panorama musicale, per creare uno spazio di convergenza alternativo a quello del videoclip per come lo fruiamo oggi.

Third Ear Band – Mosaics: The albums 1969-1979, la recensione e l’unboxing del cofanetto Cherry Red

Third Ear Band – Mosaics, Albums 1969 – 1972 – Box 3cd + Booklet (Cherry Red / Eosoteric Recordings) Unboxing Video.

L’origine della Third Ear Band è radicata nelle session londinesi che ogni settimana prendevano forma all’UFO club, la venue messa in piedi da Joe Boyd e John “Hoppy” Hopkins, dove si ospitavano poesia, jam, reading e improvvisazione.

Non solo i Pink Floyd e i Soft Machine bazzicavano quel palco, ma anche tutta la controcultura della città che si era concentrata intorno a Ladbroke Grove e Notting Hill, nel tentativo di trasformare gli stimoli che arrivavano dall’universo beatnik.

In quel contesto si delina la formazione di questo bizzarro e radicale ensamble che allargherà i confini della psichedelia britannica; Dave Tomlin, sassofonista e flautista, Glen Sweeney batterista dalla chiara impronta ed esperienza jazzistica, Roger Bunn, bassista. Durante le session all’UFO, il loro nome è Giant Sun Trolley, con il quale condividono il palco insieme ai già citati Pink Floyd e Soft Machine, sperimentando e applicando a modo loro la lezione minimalista di Terry Riley.

L’anno è il 1967 e la formazione si espande e si contrae in base alle occasioni; insieme allo stesso Sweeney che include nel suo campionario strumentale percussioni e tablas, si uniscono Paul Minns all’oboe e al registatore, Richard Coff con il violino e la viola e Mel Davis al violoncello. Nasce quindi la Third Ear Band, con l’aggiunta di Paul Buckmaster alla viola e un metissage unico di free jazz, musica colta per lo più legata alla tradizione medievale, avanguardia sperimentale e minimalismo, ma soprattutto un ponte tra occidente e molti stimoli che provenivano dalla musica orientale.

Il risultato è assolutamente diverso da quelle che poi sono diventate le consuetudini di certa psichedelia, anche nell’assorbimento del genoma musicale indiano, non solo perché incamerano influenze raga, lacerti di musica cinese, echi di koto music e ovviamente tutta l’influenza del mondo culturale legato alla meditazione trascendentale, ma anche per le modalità con cui tutti questi elementi confluiscono a creare un suono scarno e tagliente, ossessivo e potentemente rituale.

La ritualità è probabilmente l’aspetto che rende ancora la musica della Third Ear Band assolutamente attuale, rispetto soprattutto all’addomesticamento che nei decenni ha subito la cosiddetta world music.

Esoteric recordings e Cherry Red Records, pubblicano un bel cofanetto con booklet di approfondimento e tre CD ristampati nel rispetto delle edizioni originali gatefold (per i primi due) che costituiscono nell’insieme, tre dei quattro lavori pubblicati per la Harvest dalla Third Ear Band.

Il cofanetto si intitola Mosaics, The Albums 1969-1972 e comprende il bellissimo Alchemy, primo lavoro della band, l’omonimo Third Ear Band ed infine Music from Macbeth, colonna sonora del film diretto da Roman Polanski nel 1971, pubblicata l’anno seguente.

Ottimo il packaging come dicevamo e occasione unica per ascoltare queste ottime rimasterizzazioni che rendono l’esperienza immersiva e calda in termini di dettagli sonori.

Se il primo album è un viaggio ipnotico e mistico alla ricerca di quel crovevia alchemico tra la tradizione ermetica e le suggestioni legate a Stonehenge, il secondo viene registrato agli Abbey Road Studios sotto l’influenza dell’LSD, senza Mel Davis e con Ursula Smith che lo sostituisce al violoncello. L’album non ha un titolo, anche se diventerà noto con quello di “Elements“. Creerà non pochi problemi ai tecnici del suono e alla Harvest stessa, tutti perplessi per le scelte sonore della band. Il risultato è quello di un album molto vicino al precedente per unicità e approccio senza compromessi.

Mancano, nel cofanetto, tutti i bonus che erano presenti nel triplo CD pubblicato sempre da Esoteric/Cherry, dove oltre al secondo album erano presenti session, inediti tratti dal terzo album mai sviluppato che avrebbe dovuto intitolarsi “The Dragon Wakes.” e soprattutto la colonna sonora per una produzione televisiva tedesca degli anni settanta, intitolata “Abelard & Heloise“.

Nel 1970 la band viene contattata da Roman Polanski, per il suo adattamento dal Macbeth Shakespeariano, scritto insieme a Kenneth Tynan e prodotto dalla Caliban Films.
Torna anche Paul Buckmaster, che nel secondo album era assente, vengono aggiunti Denim Bridges alla chitarra e Simon House degli High Tide al violino, mentre della formazione originale rimangono solo Sweeney ovviamente e Minns. Già alla fine dell’estate, prima che Polanski contattasse Sweeney, la frammentazione della band era in atto, con un tentativo di cambiarne anche il nome in The Electric Earband, per registrare un album che non vedrà mai la luce, il già citato “The Dragon Wakes”. Tutte le intenzioni vengono dirottate verso il progetto di Polanski.

Nasce Music For Macbeth, forse il lavoro più accessibile della band, ma che mantiene il senso di mistero e perturbante richiesto dallo stesso Polanski e che aveva caratterizzato il suono alchemico dei precedenti lavori. L’oscurità che il regista polacco cerca di esorcizzare dopo i tragici eventi di Bel Air, attraversa sia la pellicola che i suoni del disco, perché se la linea medievale sembra quella più accentuata e sviluppata, c’è una stratificazione sonora inafferrabile e misteriosa che pervade atmosfera e sensi.

Il booklet di 21 pagine è curato da Luca Chino Ferrari, archivista e biografo ufficiale di Third Ear Band Ghettoraga, sito che cura dal 2009

Third Ear Band – Mosaics – The Albums 1969-1970, il box 3CD sul sito ufficiale Cherry Red.

News for Lulu – Could be you, il videoclip di Pino Sartorio: recensione

Pino Sartorio, dopo gli studi al politecnico di Milano Campus Bovisa, ha affrontato presto la carriera come grafico, approdando in Mondadori dove è rimasto per molto tempo, inventando e reinventando il proprio stile in base agli stimoli editoriali del momento. Questa lunga esperienza, l’ha portata con se in Spagna, quando si è trasferito per necessità famigliari e ha inaugurato una nuova prestigiosa collaborazione con Zara, dove il ruolo di graphic designer è presto mutato in quello di filmmaker.

Oltre alla regia tout court, Sartorio si occupa di art direction e project management e adatta lo stile comunicativo alle esigenze del brand. La connessione con il mondo dei videoclip, come accade da tempo nel contesto dei fashion movie, è quasi obbligatoria e trova nel formato contratto dei promo, uno spazio di creatività altrettanto veloce e semanticamente denso, ma allo stesso tempo libero dai vincoli del brand.

Per i pavesi News for lulu, Sartorio dirige la clip di Could Be You, contaminando l’estetica del ritratto e del modeling con esplosioni visual di natura organica, il cui scopo è quello di rendere l’assetto dell’inquadratura assolutamente perturbante.

C’è un chiaro tentativo di lavorare sull’idea di corpo e conoscenza sessuale, all’interno di un contesto visivo asettico, dove leccare, assaggiare, sanguinare possano apparire come qualità insolitamente oscene. Volutamente o meno, questa immagine pulsionale sembra raccontare trasversalmente la minaccia di un mondo senza contatto, dove la dimensione aptica esplode e ha finalmente la meglio sull’occhio e gli schermi.

Pino Sartorio su Vimeo