mercoledì, Febbraio 19, 2025
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Denise – Fear of the Water: il videoclip di Denise Galdo

Il mondo creativo di Denise Galdo è un magma incandescente, non solo per l’intensa qualità dei suoi lavori, ma anche per le intersezioni tra più discipline che da sempre mette in gioco, oltre la dimensione cantautorale con cui si è fatta inizialmente conoscere.

Denise è anche una visual artist, un’interprete sensibile votata alla riscrittura di brani altrui, una videomaker che si bilancia tra i lavori per altri artisti e quelli sviluppati entro il suo personale recinto creativo.

Per la bella cover di Syml, a cui strappa un senso diverso e maggiormente trasformativo, realizza una clip intima e potente che rilancia l’idea di autoritratto come profonda esplorazione identitaria.

Da una parte una chiarissima dichiarazione di intenti a cui l’artista salernitana si affida per raccontare l’energia matrilineare che irradia il progetto, dall’altra una clip che esplora un territorio tattile, molto vicino alle pulsazioni del brano e che lambisce anche un’oscura alchimia dove creazione e distruzione possono coincidere.

L’orchidea, i frutti e la loro consistenza viscosa, il nutrimento, ma anche quella voracità che trasforma attraverso l’inglobamento.

Sceglie una strada sensoriale Denise, che si affranca da una rappresentazione binaria della femminilità e allo stesso modo concepisce un video “da camera”, intimo, potente, a tratti disturbante e fatto di poche semplici cose. Un video che ha l’ambizione di trasformarsi in un’esperienza visual ancora organica, senza l’ausilio di parafernalia digitali.

Fleet Foxes – Featherweight: il videoclip d’animazione di Sean Pecknold

Ha già fatto incetta di premi il video che Sean Pecknold ha da poco realizzato per i Fleet Foxes, ultimo di una serie di lavori davvoro magici prodotti per la band del fratello Robin.
Featherweight, storia di un rapace durante il suo ultimo, epico volo, segue un procedimento non dissimile da The Shrine / An Argument, nel mettere in relazione gli sfondi dipindi a mano da Sean Lewis con l’animazione stop motion di pupazzi 2D.

I due elementi si fondono perfettamente donando incredibile fluidità alla creatura di Pecknold e consentendo uno straordinario lavoro di luci e ombre.
L’artista di Seattle è sicuramente uno dei talenti più interessanti dell’animazione contemporanea, aspettiamo con vivo interesse “The last Forest“, ovvero quello che sarà il suo debutto nel lungometraggio, interamente realizzato con tecnica stop motion.
Il video di Featherweight è Vimeo Staff Pick tra settembre e ottobre.

Palace – Lover (Don’t Let Me Down): il videoclip di Theo Watkins

Il bristoliano Theo Watkins ha già diretto un buon numero di videoclip tutti elaborati a partire dall’idea di montaggio, ritmo e ripetizione. Non importa quale sia la forma scelta, più o meno narrativa, ma le modalità con cui il racconto si contrae come funzione stessa del ritmo. Il lavoro realizzato per i concittadini Palace, segue per certi versi un criterio non dissimile dalla frammentazione di movimenti, dettagli e corpi, che si può vedere nella clip realizzata per Model Man.

In quel caso era una personale revisione dei video performativi, con la danza che muoveva lo stesso frame, in questo è una dimensione psichica della memoria, che serve a Watkins per isolare con mascherini e illuminazione corpi, volti, gesti, come se le immagini provenissero da un vecchio dagherrotipo o dalle forme incerte della fotografia stenopeica.

Si tratta del lavoro più astratto e visual dell’artista britannico e a nostro avviso uno dei suoi più riusciti, che elabora le liriche estreme dei Palace ispirate alla formazione del ricordo e alla connessione tra memoria e desiderio.

Brano incentrato sul senso della perdita, “Lover”, identifica l’ossessione amorosa come una dimensione della mente, mentre le immagini di Watkins passano in rassegna un campionario visivo che decostruisce la ritrattistica degli album di famiglia, tra presenza ed evanescenza.

Aspect – Carrier: il videoclip di Martyn Thomas

Il video che ha segnato uno spartiacque nella carriera dell’artista londinese Martyn Thomas è sicuramente quello realizzato lo scorso maggio per San Holo. “Black and White” era una sperimentazione “estrema” sulle possibilità del rotoscope applicato all’animazione, capace di superare gli automatismi del processo, riconducendo i risultati dalla parte dell’artigianato compositivo.

I movimenti perfetti integravano delle interferenze che esplodevano, letteralmente nell’addizione di linee, colori, sfondi, fino ad immergere la forma nel collage.
Non è diverso il bellissimo promo diretto per Aspect, per il quale Thomas ha immaginato di immergersi in un rave con una cinepresa 16mm.

Costituito da linee e colori nel rapporto generativo con il nero, è anche questa una nullificazione dei principi che stanno alla base del rotoscope. Thomas seleziona, sceglie, riduce tutto ad un minimalismo esasperato, cercando di cogliere le pulsazioni del suono.

Da una parte le radici sembrano affondare nel lontano passato delle sinestesie tra jazz e animazione, dall’altra quella del geniale animatore britannico sembra una frontiera personale e creativa che elabora la cultura visual da una prospettiva nuova e più libera.

Aspect – Carrier. Video ufficiale, Dir: Martyn Thomas

DELAURENTIS – Unica’s Cloud: il videoclip di AB/CD/CD

Le relazione tra etologia e robotica è più stretta di quanto si possa pensare e aiuta a comprendere l’interazione uomo-natura-macchina in modo più specifico.
Lo studio del movimento collettivo tra gruppi di insetti e animali, ha sollecitato la progettazione di algoritmi di controllo per i cosiddetti sciami di droni.

Quella che è la capacità di adattamento all’ambiente per stormi di uccelli o banchi di pesci, nel veloce trasferimento di informazioni tra simili durante movimenti complessi, diventa una sfida parallela nel campo delle scienze informatiche e robotiche per la progettazione di un’architettura decentralizzata che possa controllare il comportamento di un numero elevato di droni. Da una parte microdroni con capacità di elaborazione limitate, dall’altra l’architettura di uno sciame, capace di trascendere tutti gli ostacoli tecnici, in una relazione virtuosa tra capacità individuale e movimento collettivo, funzioni percettive del singolo dispositivo e controllo di una visione più ampia.

Sembra che i geniali AB/CD/CD, da sempre interessati ad una prospettiva “immersa” nella prassi di produzione e fruizione dell’immagine digitale, si siano riferiti a questa nuova frontiera della robotica, individuandone le possibilità applicative che tutti temono, quelle in ambito militare. Camille Dauteuille e Clément Dozier collocano Helena Olmedo Duynslaeger in mezzo ad un’area aperta, dove questa donna dalle capacità psichiche e performative fuori dal comune, riesce a controllare lo sciame come nella coreografia di una parata militare.

La mutazione che subisce è improvvisamente percettiva quindi legata alla formazione della propria identità.

Fino a che punto è possibile controllare lo sciame e soprattutto, come è stutturata la visione robotica quando si fonde con la nostra?
AB/CD/CD scardinano la relazione binaria tra oggetto e soggetto della visione, elaborando una vera e propria infestazione cognitiva, prima ai danni di Helena e del suo sguardo interiore/esteriore, poi contro il nostro, improvvisamente reso impossibile dalla proliferazione di occhi elettronici che mandano in cortocircuito l’immagine, in una sovrapposizione ipertrofica di glitch, impedendoci di vedere la realtà per come la conosciamo.

David Bowie – Survive, il videoclip di Walter A. Stern: naked eye

Once I realized space is a dimension of time, the rest was easy!
(Michael Moorcock – The Visible Man or down the multiversal rabbit hole – 2006)

Nel breve speciale che VH1 dedicò al video di SurviveDavid Bowie sottolinea quanto il suo entusiasmo per i video musicali, sia diminuito con gli anni, soprattutto da quando questi hanno cominciato ad essere più accessibili, meno ingenui e quindi meno soggetti a forme di sperimentazione. Eppure, con rinnovata emozione, nel 1999 decide di collaborare con uno dei videomaker più originali degli anni novanta, quel Walter A. Stern che aveva realizzato i lavori più significativi per Massive Attack e Prodigy.

La macchina che si muove intorno agli affari discografici di Bowie ha rispolverato qualche ora fa la clip tratta da hours, scomparsa da YouTube e reperibile presso altre piattaforme, grazie alla “pirateria” positiva dei fans. L’occasione è festeggiare da una parte il lancio del video, trasmesso per la prima volta il 26 novembre del 1999 e lanciare il nuovo cofanetto “A Brilliant Adventure”, che prenderà in esame gli anni 1992-2001 nella carriera di Bowie.

Dal making VH1 è facile desumere il lavoro di Stern nell’allestire un set “meccanico”, adibito all’uso di props concepiti per far levitare il corpo di Bowie in questa grande cucina che sembra un luogo della memoria, ricostruito negli studi Tower Bridge di Londra.

Non è cosa da poco, perché la riduzione minima del digitale per favorire un approccio fisico e meccanico al set, affida a Bowie una centralità performativa importante.

L’attenzione specifica di Stern al senso del brano e ad alcuni elementi chiave delle liriche, si conferma anche in questo caso. Per la traccia più dolente di hours, materializza quell’aura negativa di rassegnazione e di perdita, che può essere indirizzata al di fuori delle presunte occorrenze biografiche a cui il brano alluderebbe.

Da una parte l’esca narrativa dichiarata dallo stesso Bowie, legata alla fiamma per un’amore mancato, adesso completamente svanita. Che si tratti di Hermione Farthingale o di Lesley Duncan poco importa, perché è semplicemente immagine dell’assenza e nel connubio con quelle ideate da Stern e la sua crew, si verifica il medesimo specchiarsi di Thursday’s Child, la clip precedente, diretta dallo stesso regista.

La dimensione confessionale dell’album viene in qualche modo riflessa nei due video di Stern che giocano in forma intima e introspettiva con un gesto tipico Bowiano, quello dell’obliterazione del proprio passato, giunto qui ad un denudamento radicale, con l’icona che si sfalda nell’anonimo quotidiano.

Space age e science fiction ridotte ad un’entropia personale, con i viaggi astrali e dimensionali di Bowie, riletti attraverso una lente interiore, dove Major Tom vive una nuova deriva, tra il tavolo da pranzo e il forno.

Dovessimo raccontare Bowie attraverso le stanze, i pavimenti, i lavandini, i letti pre-mortem, descritti tra artworks e canzoni, non finiremmo mai di cercare connessioni e infiniti vettori mitopoietici.

Ma Survive, nel video di Stern, sembra tornare dal passato come immagine davvero pregnante del presente, piccola elegia di resistenza dall’isolamento, lotta contro le inutili derive della passione, alla ricerca del proprio asse gravitazionale.

Inoki ft. Bresh & Disme – 100s: il videoclip di Pietro Biz Biasia

Pietro Biz Biasia è un vero talento e ci auguriamo si senta parlare di lui più spesso anche in Italia. Stanziato a Londra, si occupa di tutto quello che concerne la produzione audiovisiva, dalle riprese alla post produzione, muovendosi tra advertising e video musicali, ma senza perdere coerenza estetica e creativa. Legato ai nuovi fenomeni musicali e sociali vicini alla street culture, ha elaborato una sua poetica che dai video verticali a quelli più tradizionalmente destinati a YouTube, trattiene potenza e aggressività documentali, offrendo un punto di vista decisamente a fuoco rispetto al mare magnum di produzioni dove si respira la stessa aria. 
Mentre è possibile godersi il suo portfolio da questa parte, dove spiccano i lavori per Son of a Gun e Real Guns, è uscito da poche ore il video realizzato per Inoki girato nel Segundo Torrão di Trafaria vicino Lisbona. Per il brano prodotto da Chryverde come anticipo del nuovo progetto “NUOVO MEDIOEGO”, Pietro Biz Basia ha realizzato una sintesi del suo mondo espressivo e tecnico, realizzando un video ipercinetico dove l’attenzione al dettaglio e ad una serie di “nature morte” urbane, combina arte fotografica, digital art e videomaking d’assalto. Le similitudini con Wag1 per Real Guns sono fortissime, tanto che a interpretare la clip è lo stesso musicista portoghese, con una serie di immagini che sembrano uno spin off dal suo stesso vieo. Si tratta comunque di un lavoro molto bello, una sorta di “remix” di idee già elaborate, seguendo una tendenza che lo stesso YouTube sta incoraggiando, ma totalmente in linea con l’immagine e l’approccio di Inoki

Peter Gabriel ft. Kate Bush – Don’t Give Up: il video di Godley & Creme

Le origini visuali e politiche di Don’t Give Up, uno dei singoli che Peter Gabriel utilizzò per promuovere “So“, sono note. L’artista inglese rimane colpito da alcune foto di Dorothea Lange contenute nel volume “In this proud land: America, 1935-1943, as seen in the FSA photographs“. A polarizzare la sua attenzione, come dichiarerà ad NME, è la serie di foto che ritrae le condizioni dei contadini durante le cosiddette Dust Bowls, ovvero le tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939, durante la grande depressione. Gabriel fornisce una lettura più stratificata e sovrappone questo sentimento di disagio alle condizioni dei lavoratori nell’Inghilterra di Margaret Thatcher.

Con una copertina astratta curata da Peter Saville e Brett Wickens su foto di Trevor Key, il singolo esce il 27 ottobre del 1986 per raggiungere il nono posto nelle classifiche britanniche il mese successivo.

Verrano realizzati due videoclip, il più noto dei quali diretto dai geniali Godley & Creme, impegnati ad escogitare una soluzione visuale di impatto per rendere al meglio la forma antifonale del brano, nel dialogo tra Gabriel e Kate Bush.
Mentre Gabriel racconta la deriva di un uomo senza speranza, i versi pronunciati da Kate hanno il compito di infondere fiducia e di caratterizzare la forza ascensionale del brano.

Godley & Creme realizzano il video in un solo piano sequenza, collocando Gabriel e la Bush sullo sfondo di un intero ciclo solare, fino all’eclissi e ad una successiva riemersione della luce. In forma del tutto simmetrica rispetto alle liriche, questa doppia rotazione, dei corpi e della stella madre del sistema solare, consente una serie di combinazioni. Mentre le parti suddivise dalle liriche regolano la durata del movimento e della presenza in camera dei rispettivi interpreti, il sole raggiunge l’eclissi nel punto centrale del brano.

Godley & Creme sfruttano un immaginario molto vicino a quello dei corpi Hollywoodiani collocati “contro” il paesaggio, dall’esplosione del Technicolor in poi, elaborando una poetica elettronica tutta nuova e reiterando in loop un gesto che diventa infinito, come già accadeva nei video di Zbigniew Rybczynski, ma anche nell’advertising ideato dal geniale duo in quegli anni.

Don’t Give Up diventa allora un video Zen, nel rovesciamento continuo del bene dentro al male, nella luce del sole che incontra il lato più oscuro.

Live Streaming audio/video di qualità con Mixer Zoom LiveTrak L-8: video tutorial

Torniamo a parlare di Zoom LiveTrak L-8, il mixer pensato anche per lo streaming di qualità che consente ai produttori di podcast, ma anche anche alle band, di sfruttare gli otto canali disponibili on board, per diffondere i propri contenuti in diretta live sui più diffusi social network.

Dopo il primo video unboxing, e il secondo più specifico, dove vi abbiamo raccontato le funzioni che consentono di registrare interviste telefoniche di qualità, andiamo più a fondo, con altre funzioni, tra le innumerevoli che caratterizzano l’ottimo Mixer della Zoom.

Abbiamo quindi testato LiveTrak L-8 per la simulazione di una diretta streaming su YouTube, utilizzando il Mixer come Interfaccia Audio per PC e connettendo allo stesso, la videocamera Zoom Q4N per la parte video. Ecco il nostro video tutorial.

Zoom LiveTrak L-8, funzioni audio interface per la diretta streaming audio / video su Youtube

Per questo video tutorial abbiamo utilizzato un Mixer LiveTrak L-8 e una videocamera Q4n, entrambi dispositivi Zoom.

La Zoom Q4n è una videocamera adatta alle riprese live per l’ottica molto ampia, meno “spinta” di una Gopro e con un comparto audio notevole, adatta per la ripresa al volo di Jam Session in sala prove ma anche di live contenuti.

Un esempio del suo utilizzo può essere verificato nel format video prodotto da Indie-eye, One Camera Band Man, dove sono state utilizzate due videocamere Q4n per la ripresa e post-produzione di un set live.

Se interfacciata come Webcam, il microfono on board della Q4N viene disabilitato. Utilizzata in combinazione con L-8 è assolutamente efficace, perché tutti i flussi audio vengono gestiti dal Mixer, mentre Q4n viene utilizzata solamente per la parte video, così da ottenere potenzialità maggiori rispetto ad una tradizionale webcam.

Utilizzata in combinazione con il supporto MSM-1, può garantire riprese stabili e allo stesso modo una versatilità di posizionamento notevole; MSM-1 è infatti uno stativo a morsetto che consente l’avvitamento su mobili, tavoli, e su qualsiasi superficie che ne permetta l’aggancio.

Oltre ai dispositivi utilizzati nel video tutorial, ovviamente LiveTrak L-8 consente di connettere strumenti musicali, microfoni di ogni tipo e dispositivi di linea. Per la dotazione podcast, consigliamo oltre ai dispositivi indicati, l’adozione di un microfono a condensatore; L-8 monta infatti un selettore phantom power che consente l’utilizzo ottimale di microfoni di questo tipo.

Listino Zoom

Our Vision Touched the Sky – Fenomenologia dei Joy Division – a cura di Alfonso Amendola e Linda Barone

Non è il primo né sarà l’ultimo, ma il lavoro connettivo di Alfonso Amendola, professore di sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno e di Linda Barone, professoressa di linguistica inglese e traduzione presso lo stesso ateneo, è assolutamente unico nel contesto scientifico italiano. Parte della collana di Scienze di media e Sociologia della cultura, chiamata “La sensibilità Vitale” e diretta dallo stesso Amendola, “Our Vision Touched the sky” attraversa l’opera dei Joy Division con un procedimento interdisciplinare, affrontato mediante una pluralità di prospettive filosofiche, fortunatamente non sempre conciliabili tra di loro e per questo motivo, segno vivo della ricchezza segnica, storica e sociale di quel brodo di coltura in cui sono fermentati i germi del post-punk.

Diviso in quattro sezioni, rispettivamente indicate dai contenitori: Radici, Immaginari, Pensiero e Cartografie in Divenire, il volume è costituito da quasi trecento pagine divise tra più di venti mini saggi che analizzano il ruolo dei Joy Division e la figura di Ian Curtis secondo coordinate legate alla ricerca sociologica, agli elementi grafici e simbolici generati dal loro immaginario, ad altre iconizzazioni simboliche, fino alla titolarità del nome di una band e a tutto quello che è connesso alle tutele come marchio di impresa, nel percorso che dai Joy Division procede verso l’avventura dei New Order, per come viene analizzato nel bel saggio di Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio.

Al centro, una psicogeografia possibile, dove si cerca di costruire un ponte tra passato e futuro, nel continuo rimando tra interno ed esterno, città, suono, parola, segno e identità.

In questo senso il lavoro dello stesso Amendola in “Metropoli e spazio periferico nell’underground post punk inglese” dialoga a distanza con quelli di Emiliano Ilardi e Caterina Tomeo, impegnati a tratteggiare i confini della rave era tra suoni e spazi derealizzati, rispettivamente in “Dalla Factory records ai rave nelle factories” e “Tra il sound dei Joy Division e la Rave-Era“, mentre la relazione tra media ed estetica plasma un immaginario che esce dal periodo di riferimento, grazie a successive rimediazioni di istanze subculturali capaci di oltrepassare confini geografici e temporali.

Del resto, tutto il volume curato da Amendola e Barone, nell’intenzione mai celata di una progettualità magmatica e corale, cerca di mettere a fuoco una storia mai scritta del post-punk, come serbatoio ancora inesaurito di creatività, a partire dalla sua genesi storica, per superarla lateralmente e leggerne segni e cicatrici ancora vive.

I segni dicevamo, sono allora molteplici, e tra gli esempi più riusciti di questa gemmazione, il bel saggio di Linda Barone spicca per qualità analitica e capacità combinatorie: “Directionless so plain to see. (Di)Versioni stilistiche, letterarie traduttive” non è solo uno viaggio attraverso il mestiere di traduttore, come continuo (s)radicamento, ma un insieme di comparazioni tra poesia, letteratura e analisi testuale che si muove in forma oscillatoria a partire dai testi di Curtis. Si tratta di un movimento centripeto e centrifugo, un assorbimento rintracciabile nella prassi dello stesso Curtis, ma anche nella rilettura a posteriori delle sue liriche, come sentimento che ispira, genera, crea nuove forme. Dai testi posseduti e amati da Curtis (Ballard, Burroughs, Poe, Lovecraft, Kafka…) alla connessione con la poesia di T.S. Eliot, dove la Barone sistematizza in modo puntuale e preciso una suggestione che, a dire il vero, era già era stata sollecitata da altre intuizioni combinatorie collocate al di fuori del recinto accademico, come per esempio il poco noto mashup tra The Wasteland e Control di Anton Corbijn (n.d.a. piccolo saggio visuale in rete, per gli “ossessionati” come noi, sin dal 2009). La narrativa di Nicholas Royle, Jessie Greengrass, David Gaffney occupa la terza parte del saggio, alla ricerca di una disseminazione verso l’esterno dei testi di Curtis, mentre la sezione conclusiva è un’interessante analisi di alcune parole grammaticali ricorrenti, utilizzate per proporre una dimensione interpretativa differente da quelle più battute.

Alessandro Gnocchi, con identica passione, elabora un possibile percorso Burroughsiano e Ballardiano nei testi di Curtis in “Interzona“, evidenziando i rimandi più o meno evidenti e la mutazione che subiscono nell’elaborazione poetica fatta da Curtis.

Introduce Roberta Paltrinieri, tre pagine densissime dove la responsabile scientifica del DAMSlab dell’università degli studi di Bologna, recupera il Tondelli di Un Week end postmoderno, per definire il post-punk come forma culturale e chiave interpretativa di fenomenologie esterne ed interiori.

Nel bel mezzo di un crepuscolo farmacologico dove il dolore ha irrimediabilmente perso tutta la stratificazione simbolica, questa fenomenologia dei Joy Division, con tutte le contraddizioni interne del caso, è una lettura utile per ridefinire i confini identitari di una comunità senza limiti visibili, che ancora brucia sotto la cenere.

Our Vision touched the sky – Fenomenologia dei Joy Division sul sito di Rogas Edizioni

Our Vision touched the sky – Fenomenologia dei Joy Division – A cura di Alfonso Amendola e Linda Barone
Prefazione: Roberta Paltrinieri
Contributi: Alfonso Amendola, Novella Troianiello, Daniele De Luca, Eugenio Capozzi, Donato Guarino, Alfredo De Sia, Manolo Farci, Paolo Bertetti e Domenico Morreale, Jennifer Malvezzi, Andrea Rabbito, Fabio La Rocca, Alessandro Gnocchi, Vincenzo Romania, Linda Barone, Massimo Villani, Giuseppe Allegri, Fortunato M. Cacciatore, Francesca Ferrara, Caterina Tomeo, Emiliano Ilardi, Raffaele Federici, Giada Iovane, Giovanni Maria Riccio, Michele Grillo.
Editore: Rogas Edizioni
Pagine: 295
Prima Edizione: Marzo 2021
ISBN: 9788899700843
Prezzo: 19,70

Alfonso Amendola è professore di Sociologia dei processi culturali presso l’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di sociologia delle arti, dello spettacolo e della letteratura con particolari attenzioni verso le culture d’avanguardia, i consumi di massa, le innovazioni digitali.

Linda Barone è professoressa di Linguistica inglese e Traduzione presso l’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di linguistica testuale, multimodalità, didattica della lingua inglese, traduzione letteraria e traduzione audiovisiva.