Mai stati fratelli gli Snorri Brothers. Amici per la pelle fin dall’85 quando si erano incontrati per un contest di Breakdance, i due islandesi hanno cominciato a sperimentare con la fotografia in madrepatria, per poi spostarsi negli Stati Uniti dove hanno investito il music business con una tempesta di idee creative memorabili.
Dalla fotografia al video il passo è veloce, siamo nella seconda metà degli anni novanta e il contesto dei video musicali viene ritagliato intorno all’identità di autori innovativi che cambieranno il volto e la concezione dei promo.
Tra le invenzioni del duo, la SnorriCam, uno dei dispositivi più utilizzati nell’industria creativa, costituita da una fotocamera e un rig installato, per esempio, su un corpo umano. Centrata su un asse fisso, la SnorriCam può quindi scattare, senza cambiare il corpo o il soggetto principale, mentre mutano costantemente lo sfondo, l’ambiente, i riferimenti, gli oggetti, la luce, lo spazio circostante.
Il video di Daysleeper per i R.E.M. primo singolo dall’album UP, viene realizzato con questa tecnica, scattando centinaia di foto e ricombinandole in uno stop motion metafisico e suggestivo.
Mentre Michael Stipe si fa ispirare da una scritta individuata fuori da un appartamento newyorchese, immaginandosi la vita e i bioritmi completamente sballati di un lavoratore, gli Snorri sviluppano una duplice elegia della luce, tra la produttività destinata al mattino e gli interni illuminati artificialmente, dove chi è costretto a vivere fuori tempo, immagina un altro luogo e un altro spazio.
Durante l’agosto del 1983 i Duran Duran si trovavano a Sidney per ultimare le fasi di missaggio di “Seven and the ragged tiger“, il loro terzo album. Russell Mulcahy, il regista australiano con cui avevano già stabilito un buon sodalizio, stava completando le trattative per Razorback, il suo debutto nel lungometraggio.
Il coinvolgimento nel video di “Union of the Snake” era quindi una connessione naturale e la sceneggiatura fu concepita da Mulcahy insieme a due manager e agli stessi Durans. Primo di una trilogia, secondo l’idea originaria del regista australiano, aveva un concept che risentiva delle atmosfere di Mad Max e Indiana Jones in egual misura e metteva al centro un manoscritto perduto e un mondo arcano nascosto sottoterra.
Fu sempre un’idea di Mulcahy quella di coinvolgere il coreografo Graeme Murphy per alcune sequenze che avrebbero dovuto animare il sottomondo, mentre nell’area desertica che copriva le attività di questa setta ancestrale, si muoveva una creatura metà uomo metà lucertola, ennesima rielaborazione dell’immaginario fantascientifico e horror che caratterizzava la visione di Mulcahy.
Il regista australiano dovrà abbandonare il progetto per dedicarsi anima e corpo a Razorback, tanto da spingere la EMI a rivolgersi ad un altro autore attivissimo nel campo dei videoclip, il neozelandese Simon Milne. Cresciuto in Italia e formatosi in Inghilterra, questi si era fatto le ossa come assistente alla regia, per poi passare al montaggio, scelta che lo condurrà dritto dritto nella fucina dei video musicali di quegli anni, proprio al centro dell’esplosione catodica veicolata da MTV.
Come regista era quindi attivo solo da due anni, ma aveva già diretto per band e muscisti di alto rilievo come Talk Talk, Kim Carnes, Marillon e Kajagoogoo.
Nonostante i tempi strettissimi, Milne accetta la commessa, anche perché aveva già avuto a che fare con i Duran Duran, sia come assistente sul set di Rio, sia per averli filmati live. Lo sviluppo di “Union of the snake” fu quindi un lavoro collettivo, con Milne attivo sul set e il coordinamento coreografico di Murphy. I temi e gli ambienti, incluso l’allestimento del set, erano fortemente legati alle idee di Mulcahy, anticipando in molte direzioni il video di Wild Boys che il regista australiano dirigerà personalmente l’anno successivo. Le analogie sono percepibili, ma anche le differenze nella gestione di set e movimenti, senza niente togliere a Milne.
In termini tecnici, fu uno dei primi video ad altissimo budget ad essere girato in pellicola 35mm, quindi abbandonando il nastro e introducendo la golden era di MTV come veicolo promozionale principale che stava letteralmente uccidendo le “radio star”.
Tant’è la clip fu veicolata una settimana prima rispetto alla diffusione radiofonica del singolo, creando un vero e proprio polverone interno alla gestione dei media in termini promozionali.
Il deserto australiano, il mondo sotterraneo, la creatura antropomorfa, il bimbo da salvare, provengono direttamente dall’universo di George Miller e dall’allora recente Mad Max 2, mentre lo spazio di convergenza ideato per il set, sarà una rilettura post moderna di quei props che avevano caratterizzato la storia del rock attraverso la televisione, praticabili che espandevano la possibilità dello studio televisivo, consentendo una fusione tra la magniloquenza delle produzioni cinematografiche, la danza e lo spazio performativo ritagliato intorno alle star, nella transizione tra finzione scenica e l’allestimento sempre più colossale dei concerti.
In questo senso il video inaugura una stagione importante, perché senza “Union of the Snake”, in termini di sforzo economico e produttivo, i video a venire non sarebbero stati possibili. Oltre al già citato Wild Boys è necessario ricordare i 17 minuti di New Moon on Monday, diretto da Brian Grant, ma soprattutto il progetto video-live Arena (An Absurd Notion) che connetteva un’imponente macchina live con una concezione narrativa più ampia, tanto da ideare i set di alcuni segmenti all’interno degli studi Pinewood a Londra, sfruttando i teatri di posa allestiti per le produzioni di 007. Frammenti che a loro volta vivranno autonomamente come videoclip .
I videoclip si configurano già come uno spazio intermedio, un luogo di convergenza dove confluiscono e allo stesso tempo esondano elementi provenienti o destinati ad altri ambiti, tra la danza, il Cinema e i grandi eventi performativi.
Duran Duran, il videoclip di Union of The Snake, da un’idea di Russel Mulcahy – Dir: Simon Milne
I Dolori Del Giovane Walter è il progetto di Walter Valletta, cantautore cilentano attivo dal 2015. Messa insieme la band nel 2017, focalizza subito le caratteristiche di un’anima pop intimista, confidenziale, ma che nelle intenzioni guarda anche alle sonorità del rock contemporaneo ad ampio raggio. Il singolo di esordio si intitola “Piano” ed è stato veicolato da un videoclip uscito lo scorso settembre e diretto da Marco Jeannin. In pochi giorni la clip ha totalizzato quasi 40mila visite, un risultato importante per un progetto che sta vedendo ufficialmente la luce in questi mesi e che conferma l’attenzione che si muove intorno alla scrittura di Valletta.
“Musica leggerissima” chiarisce ancora di più le intenzioni de I Dolori del giovane Walter, perché trasforma il brano di Colapesce/DiMartino in una confessione introspettiva quasi sussurrata, vicina al cuore del progetto. Più di una cover, sarebbe giusto parlare di riscrittura.
A dirigere il video live che proponiamo in esclusiva su Indie-eye Videoclip, Denise Galdo, artista a tutto tondo (graphic designer, videomaker e musicista ovviamente), che ha interpretato il video valorizzando “l’intento carnale del brano“. La loro versione, ci ha detto Denise, “mi é apparsa subito estremamente calda, accogliente, cosa che ho provato ad esprimere stringendo sui dettagli della loro pelle, sugli occhi, le mani. Il tutto in un bianco e nero classico ed elegante ispirato dagli assoli di chitarra e piano.”
I Dolori Del Giovane Walter – Musica Leggerissima: il videoclip live diretto da Denise Galdo in anteprima esclusiva su indie-eye videoclip
Crazy Little thing Called Love (1979) vero e proprio pastiche rock’n’roll, fu uno dei singoli di maggior successo dei Queen, riguardo al quale è nota tutta la mitopoiesi legata alla stessa genesi del brano. Omaggio evidente ad Elvis, una delle passioni di Freddie Mercury, viene scritto e prodotto in gran velocità, con l’ambiente sonoro ricreato da Reinhold Mack, su imitazione di quell’aura old fashioned che aveva caratterizzato anche il metissage dell’album precedente della band britannica, il discusso, anche in termini visuali, “Jazz”.
Il video che veicolava “Crazy little thing called love”, non a caso, è il prosieguo della collaborazione con il regista Dennis De Vallance, che già aveva lavorato sulla censuratissima clip di Bicycle Race. In questo caso sceglie una strada solo apparentemente più convenzionale, ricreando in studio la dimensione performativa che caratterizzava l’immagine di Elvis, dai suoi film alle esibizioni allestite per la televisione.
Per la prima volta in un promo dei Queen compare un gruppo di ballerini, due donne e due uomini, mentre la band suona sullo sfondo e Mercury domina un catwalk oltre ad una serie di props iconici, tra cui una motocicletta.
Al di là della retromania che caratterizza la fine del decennio e l’inizio del successivo, il video è una rivisitazione irriverente di quei codici, proprio nei termini in cui la rappresentazione del genere, viene sottoposta a ribaltamento, se non erosione, come accade spesso nei video della band britannica e nel modo in cui Mercury gestisce il mash-up iconologico che caratterizza la sua persona scenica.
L’atto di guardare come possesso indirizzato verso il corpo femminile, annichilito nella forma di un oggetto inanimato, subisce un’inversione rispetto alla norma, prima di tutto perché avviene una sostituzione con il corpo di Mercury, la cui oggettificazione polarizza sia lo sguardo femminile che quello maschile.
Oggetto di più desideri, il genere si dissolve per un rifiuto di standard e punti di vista definiti. L’immagine virile dello stesso Elvis, che qui viene evocata in forma transtorica, dalle origini fino al noto concerto del 1968, viene moltiplicata e complicata con più di una rivendicazione delo sguardo desiderante.
L’alterità quindi, non viene rappresentata come uno stereotipo evidente, ma individuata come centro di un transito continuo, dove corpi maschili e femminili si sovrappongono e danno vita a nuove genesi dello sguardo.
Queen – Crazy Little thing called love – Dir: Dennis De Vallance
Robert Smith stava attraversando un difficile periodo di depressione durante la stesura dei brani che avrebbero costituito il nono album dei The Cure intitolato “Wish“. “A Letter to Elise” in particolare, viene definita dal musicista britannico come una canzone sulla rassegnazione. Ispirata a Les Enfants terribles, il romanzo di Jean Cocteau, recupera quel senso di isolamento dei giovani protagonisti e lo fonde con lo spirito di un’altra lettera, quella scritta da David Bowie a Hermione Farthingale nella sua “A letter to Hermione“. Per Smith, il suo brano pende maggiormente dalla parte del flusso di coscienza, con molti riferimenti personali e l’idea di fondo che la rassegnazione emerga di fronte all’inevitabilità dei cambiamenti.
In effetti, affrontata letteralmente è la storia di una separazione o di un abbandono, ma che assume a poco a poco le caratteristiche di un viaggio interiore, come sovente accade nei brani scritti da Smith per i Cure.
Il video della canzone fu realizzato tra il 18 e il 19 luglio del 1992 e filmato durante il soundcheck al Palace di Auburn Hills, nel Michigan. A dirigerlo è Aubrey Powell, una delle due menti straordinarie dietro lo studio Hipgnosis, co-fondato nel 1967 insieme a Storm Thorgerson. La carriera di Powell si allarga dal design ai video intorno ai primi anni ottanta, con la fondazione della Green Back Films con la quale dirige moltissime clip. L’estro delle copertine e degli artwork realizzati negli anni settanta non è indicativo per comprendere il lavoro di Powell regista, che sostanzialmente rimane un autore di live. Con i Cure in particolare collaborerà per The Cure Show.
“A letter to Elise” è quindi un video live, ma molto particolare, senza pubblico e con il teatro vuoto, la troupe entra in campo e instaura una dialettica tra l’immagine filmata di Robert Smith, virata in un bianconero elettronico e quella effettiva a colori. Nel continuo gioco di rimandi personali e interiori del testo, le immagini funzionano come uno specchio che scompone e riflette la performance dal vivo come un insieme specifico di gesti.
The Cure – “A letter to Elise” – Dir: Aubrey Powell (1992)
Nel passaggio da VHS a DVD, una delle caratteristiche negative che non è riuscito a salvare neanche il feticismo nostalgico, era rappresentata dall’attitudine a forzare il formato delle opere cinematografiche per la fruizione su schermi 4:3, i più diffusi per tutti gli anni ottanta. Il bruttissimo ricordo delle copie “scannate” ogni tanto si è riaffacciato con edizioni curate e trasferite con il culo, dove si è tentato di far cassa semplicemente sfruttando il catologo senza alcun investimento in direzione di un miglioramento qualitativo. Intendiamoci, è un problema enorme che affligge buona parte dell’home entertainment in Italia, tranne rarissime label, ovvero la scarsa cura nell’allestire edizioni al passo con la tecnologia, tanto da occupare un posto di retroguardia rispetto a rimasterizzazioni, restauri e aggiornamenti che al contrario caratterizzano la qualità delle edizioni inglesi, tedesche, francesi e statunitensi.
Ma non è questo l’oggetto della nostra breve analisi, quanto l’esplosione dei Video Verticali in ambito creativo, guardata a lungo con sospetto anche per le ragioni appena descritte. Conquistato il 16:9 come proporzione più adatta per vedere un’opera audiovisiva, videoclip inclusi, l’affermazione di YouTube come piattaforma principale per la diffusione di video legati alla promozione della musica, è andata di pari passo con il cambio radicale di priorità delle televisioni tematiche, MTV in testa. In questo contesto, le difficoltà di visualizzazione di un video verticale hanno dimostrato una integrazione difficoltosa dei dispositivi mobili con le necessità promozionali, creando un cortocircuito molto simile alla visione de “Il gigante” di George Stevens in una versione ridimensionata per gli schermi quadrati; come a dire, o un video Verticale viene pensato e concepito alla radice, oppure è un formato inutilizzabile.
Se su YouTube e sullo schermo del proprio computer, i video verticali occupano solo una porzione dell’area visibile, da TikTok alle stories, il formato si è imposto come un diretto prolungamento dei dispositivi mobili e una naturale adattabilità della visione all’ergonomia di uno smartphone. Tant’è, su Instagram, il problema è diametralmente opposto a quello di YouTube e una clip 16:9, pur pubblicabile sia su Reel che su IGTV, non si adatta alla fruizione immediata.
L’introduzione di Canvas, applicazione destinata ai creativi e agli artisti presenti su Spotify, ha seguito le sperimentazioni della piattaforma messe a punto prima insieme a Selena Gomez, successivamente e in modo più mirato con Billie Eilish e la sua “experience” visuale. Brevi clip associate ad un brano, spesso in forma di loop, che estese a tutta la tracklist di un album, assolvono la funzione che un tempo era affidata alle cosiddette “liner notes” di un Long Playing. Quest’ultima funzione, nel tentativo di trasformare lentamente le piattaforme in wiki autosufficienti, Spotify sta cercando di incoraggiarla con la recente introduzione di Songwriter Pages, dove sostanzialmente è possibile sapere qualcosa in più sui crediti e i dettagli di un brano, in forma interattiva, mentre i video verticali sembrano aggiungere, in una direzione complementare ed aumentata, aspetti che riguardano il making di un video o il senso di un brano espresso in termini visuali.
Senza soffermarsi su lessico e qualità, i riferimenti sembrano ancora molto vicini alla fisiologia delle app per smartphone, con tutto il peso confidenziale della quotidianità.
Da questo punto di vista è interessante esaminare le regole e i parametri tecnici consigliati per lo sviluppo di una clip su Canvas, le cui regole ricordano la stessa normatività imposta da MTV negli anni ottanta, quando la libertà creativa doveva muoversi entro una parametrizzazione ben precisa.
L’utilizzo di Canvas su Spotify è possibile solo perchi possiede un account artista. I suoi video sono oggetti autonomi che non vengono sincronizzati con i brani della libreria, per questo il lyp sync e l’idea di una clip che metta al centro il cantato è completamente abolita. L’azione deve essere centrata perfettamente sull’asse verticale, sia per le proprorzioni dello schermo, ma anche per la presenza dei controlli che normalmente sono posizionati sulla seconda metà più bassa. I video ovviamente devono essere girati e post-prodotti in formato 9:16 e non superano gli otto secondi di durata. L’aspetto più interessante è legato alla possibilità di creare un flusso narrativo che non si fermi ad un brano singolo, ma che possa attraversare tutto l’album, traccia dopo traccia, in modo che le brevi clip, in qualche modo, dialoghino tra di loro, per creare qualcosa che sfrutti l’impatto immediato dei pochi secondi a disposizione, ma anche una relazione più attiva con altre clip.
Il loop è la cellula base per sviluppare le clip, spotify ne individua tre: The Continuous Loop, il cui risultato è quello di una GIF senza inizio ne fine, The Hard Cut, con tagli di montaggio definiti, ma che possono essere mascherati ad arte ed infine The Rebound, che gioca con il tempo della sequenza, avanti e indietro, invertendola. A questo proposito sono nate piattaforme come Rotor, che consentono lo sfruttamento di librerie video già pronte o più direttamente l’impiego delle proprie, per guidare in modo semplice gli utenti verso la creazione di una clip di otto secondi che soddisfi tutte le caratteristiche richieste da Spotify Canvas. Rotor è la via più semplice, rispetto all’utilizzo di software per il montaggio non lineare come Final Cut Pro X o Filmora X che consentono, con un controllo maggiore, di elaborare video per le Stories e per Spotify Canvas.
Reel di instagram, con la possibilità di caricare video di 60 secondi è a nostro avviso l’opzione migliore per i video verticali, se lo scopo prefissato è quello di elaborare una strategia visuale creativa. Nell’utilizzo più immediato, consente di riscrivere la promozione aziendale e di un brand, sfruttando una rotazione che in termini di visualizzazioni, rispetto a YoutTube, può essere più efficace e di maggior impatto, soprattutto sulla breve distanza.
Anche i creativi e i filmmaker possono sfruttare in modo intelligente lo strumento, utilizzando in modo totalmente legale la libreria musicale a disposizione su Instagram. L’associazione di un brano ad una clip caricata su Reel, come sappiamo, non viene fatta su una timeline dove usualmente è consentito decidere al millimetro il sync tra immagine e musica, ma è possibile, in fase di post produzione e se si usano programmi di montaggio non lineare, isolare i sessanta secondi interessati durante l’editing sul proprio computer e successivamente caricare una clip muta, da associare a quegli stessi sessanta secondi di musica, questa volta aggiungendo il brano dalla libreria di instagram e associando lo stesso punto di attacco.
Sto sperimentando le funzioni, per creare brevi videoclip pensati ad hoc per il formato verticale e destinati a sfruttare la libreria di Instagram, non solo perché mi sembra che nessuno al momento lo stia facendo, ma anche perché sono convinto si tratti di uno strumento formidabile a livello creativo.
Al momento, sul mio profilo @michelefaggi di Instagram, nella sezione reels, ho pubblicato quattro video verticali, con le musiche di Wildbirds & Peacedrums, Peter Gabriel, Madonna, Johnny Cash e non escludo collaborazioni più mirate, in sinergia con alcuni musicisti del panorama internazionale.
Oltre ad utilizzare lo spazio a disposizione, splittando l’area verticale e servendomi di un montaggio disgiuntivo basato sulla ripetizione di frammenti collocati in posizioni successivamente diverse, così da rompere quella relazione tra selfie e video verticale, cerco di capire se il formato mi consenta o meno di espandere il punto di vista, usando lo spazio e l’immagine al servizio di modalità narrative poco battute nei video musicali, tra cui quella legata alla simultaneità dei frammenti. Oltre a questo, con un account creator posso scegliere da una libreria musicale vastissima, cercando di promuovere per un pubblico più vasto, visuals da me creati.
Questa ipotesi di utilizzo di Reel, oltre a servirsi del formato video nativo per Instagram, è a mio avviso una via interessante per diffondere idee visuali e lavori creativi, ma potrebbe essere sfruttata in sinergia con artisti del panorama musicale, per creare uno spazio di convergenza alternativo a quello del videoclip per come lo fruiamo oggi.
Third Ear Band – Mosaics, Albums 1969 – 1972 – Box 3cd + Booklet (Cherry Red / Eosoteric Recordings) Unboxing Video.
L’origine della Third Ear Band è radicata nelle session londinesi che ogni settimana prendevano forma all’UFO club, la venue messa in piedi da Joe Boyd e John “Hoppy” Hopkins, dove si ospitavano poesia, jam, reading e improvvisazione.
Non solo i Pink Floyd e i Soft Machine bazzicavano quel palco, ma anche tutta la controcultura della città che si era concentrata intorno a Ladbroke Grove e Notting Hill, nel tentativo di trasformare gli stimoli che arrivavano dall’universo beatnik.
In quel contesto si delina la formazione di questo bizzarro e radicale ensamble che allargherà i confini della psichedelia britannica; Dave Tomlin, sassofonista e flautista, Glen Sweeney batterista dalla chiara impronta ed esperienza jazzistica, Roger Bunn, bassista. Durante le session all’UFO, il loro nome è Giant Sun Trolley, con il quale condividono il palco insieme ai già citati Pink Floyd e Soft Machine, sperimentando e applicando a modo loro la lezione minimalista di Terry Riley.
L’anno è il 1967 e la formazione si espande e si contrae in base alle occasioni; insieme allo stesso Sweeney che include nel suo campionario strumentale percussioni e tablas, si uniscono Paul Minns all’oboe e al registatore, Richard Coff con il violino e la viola e Mel Davis al violoncello. Nasce quindi la Third Ear Band, con l’aggiunta di Paul Buckmaster alla viola e un metissage unico di free jazz, musica colta per lo più legata alla tradizione medievale, avanguardia sperimentale e minimalismo, ma soprattutto un ponte tra occidente e molti stimoli che provenivano dalla musica orientale.
Il risultato è assolutamente diverso da quelle che poi sono diventate le consuetudini di certa psichedelia, anche nell’assorbimento del genoma musicale indiano, non solo perché incamerano influenze raga, lacerti di musica cinese, echi di koto music e ovviamente tutta l’influenza del mondo culturale legato alla meditazione trascendentale, ma anche per le modalità con cui tutti questi elementi confluiscono a creare un suono scarno e tagliente, ossessivo e potentemente rituale.
La ritualità è probabilmente l’aspetto che rende ancora la musica della Third Ear Band assolutamente attuale, rispetto soprattutto all’addomesticamento che nei decenni ha subito la cosiddetta world music.
Esoteric recordings e Cherry Red Records, pubblicano un bel cofanetto con booklet di approfondimento e tre CD ristampati nel rispetto delle edizioni originali gatefold (per i primi due) che costituiscono nell’insieme, tre dei quattro lavori pubblicati per la Harvest dalla Third Ear Band.
Il cofanetto si intitola Mosaics, The Albums 1969-1972 e comprende il bellissimo Alchemy, primo lavoro della band, l’omonimo Third Ear Band ed infine Music from Macbeth, colonna sonora del film diretto da Roman Polanski nel 1971, pubblicata l’anno seguente.
Ottimo il packaging come dicevamo e occasione unica per ascoltare queste ottime rimasterizzazioni che rendono l’esperienza immersiva e calda in termini di dettagli sonori.
Se il primo album è un viaggio ipnotico e mistico alla ricerca di quel crovevia alchemico tra la tradizione ermetica e le suggestioni legate a Stonehenge, il secondo viene registrato agli Abbey Road Studios sotto l’influenza dell’LSD, senza Mel Davis e con Ursula Smith che lo sostituisce al violoncello. L’album non ha un titolo, anche se diventerà noto con quello di “Elements“. Creerà non pochi problemi ai tecnici del suono e alla Harvest stessa, tutti perplessi per le scelte sonore della band. Il risultato è quello di un album molto vicino al precedente per unicità e approccio senza compromessi.
Mancano, nel cofanetto, tutti i bonus che erano presenti nel triplo CD pubblicato sempre da Esoteric/Cherry, dove oltre al secondo album erano presenti session, inediti tratti dal terzo album mai sviluppato che avrebbe dovuto intitolarsi “The Dragon Wakes.” e soprattutto la colonna sonora per una produzione televisiva tedesca degli anni settanta, intitolata “Abelard & Heloise“.
Nel 1970 la band viene contattata da Roman Polanski, per il suo adattamento dal Macbeth Shakespeariano, scritto insieme a Kenneth Tynan e prodotto dalla Caliban Films. Torna anche Paul Buckmaster, che nel secondo album era assente, vengono aggiunti Denim Bridges alla chitarra e Simon House degli High Tide al violino, mentre della formazione originale rimangono solo Sweeney ovviamente e Minns. Già alla fine dell’estate, prima che Polanski contattasse Sweeney, la frammentazione della band era in atto, con un tentativo di cambiarne anche il nome in The Electric Earband, per registrare un album che non vedrà mai la luce, il già citato “The Dragon Wakes”. Tutte le intenzioni vengono dirottate verso il progetto di Polanski.
Nasce Music For Macbeth, forse il lavoro più accessibile della band, ma che mantiene il senso di mistero e perturbante richiesto dallo stesso Polanski e che aveva caratterizzato il suono alchemico dei precedenti lavori. L’oscurità che il regista polacco cerca di esorcizzare dopo i tragici eventi di Bel Air, attraversa sia la pellicola che i suoni del disco, perché se la linea medievale sembra quella più accentuata e sviluppata, c’è una stratificazione sonora inafferrabile e misteriosa che pervade atmosfera e sensi.
Il booklet di 21 pagine è curato da Luca Chino Ferrari, archivista e biografo ufficiale di Third Ear Band Ghettoraga, sito che cura dal 2009
Pino Sartorio, dopo gli studi al politecnico di Milano Campus Bovisa, ha affrontato presto la carriera come grafico, approdando in Mondadori dove è rimasto per molto tempo, inventando e reinventando il proprio stile in base agli stimoli editoriali del momento. Questa lunga esperienza, l’ha portata con se in Spagna, quando si è trasferito per necessità famigliari e ha inaugurato una nuova prestigiosa collaborazione con Zara, dove il ruolo di graphic designer è presto mutato in quello di filmmaker.
Oltre alla regia tout court, Sartorio si occupa di art direction e project management e adatta lo stile comunicativo alle esigenze del brand. La connessione con il mondo dei videoclip, come accade da tempo nel contesto dei fashion movie, è quasi obbligatoria e trova nel formato contratto dei promo, uno spazio di creatività altrettanto veloce e semanticamente denso, ma allo stesso tempo libero dai vincoli del brand.
Per i pavesi News for lulu, Sartorio dirige la clip di Could Be You, contaminando l’estetica del ritratto e del modeling con esplosioni visual di natura organica, il cui scopo è quello di rendere l’assetto dell’inquadratura assolutamente perturbante.
C’è un chiaro tentativo di lavorare sull’idea di corpo e conoscenza sessuale, all’interno di un contesto visivo asettico, dove leccare, assaggiare, sanguinare possano apparire come qualità insolitamente oscene. Volutamente o meno, questa immagine pulsionale sembra raccontare trasversalmente la minaccia di un mondo senza contatto, dove la dimensione aptica esplode e ha finalmente la meglio sull’occhio e gli schermi.
Il premio per il miglior videoclip di Asolo Art Film Festival 2021, nella sezione Film d’arte/Music Video curata da Michele Faggi, va a Paolo Santamaria per la clip di “Dormo poco e sogno molto“. Realizzato con le animazioni di Gianpaolo Calabrese per gli España Circo Este, come veicolo promozionale per l’album Machu Picchu pubblicato da Garrincha Dischi, è prodotto dalla The Factory dello stesso Santamaria. Il video, uscito nel 2020. Da questa parte è possibile leggere l’intervista esclusiva concessa a indie-eye e condotta da Michele Faggi. Il video elabora in modo emozionale e grazie alle tecniche di animazione un passaggio senza soluzione di continuità tra realtà e schermo, nuove tecnologie e consistenza tattile, ma ci interroga anche, come scriveva Faggi: “sul nostro ruolo rispetto al filtro mediale che quotidianamente circoscrive le tragedie più piccole e quelle globali, spingendoci in una pericolosa comfort zone scopica dove lo spettacolo scorre e non ci macchia di sangue”
“Filmammo il videoclip ad inizio Marzo nei giorni di poco antecedenti al primo lockdown – racconta Santamaria – momenti in cui risultava difficile persino concentrarsi per fare la spesa, figuriamoci per costruire un simile viaggio onirico. Nel nostro studio, la The Factory improvvisamente impregnata di alcool ed amuchina, ci ritrovammo io, Marco Anselmi (il nostro tuttofare) e Gianpaolo in compagnia di una 50ina tra iPhone ed iPad ed una scena da allestire (le mani presenti nel video sono le loro). Fu un primissimo esperimento di set con mascherine ffp2, complesso e surreale“
Paolo Santamaria ha ritirato ad Asolo Art Film Festival 2021 alle 17:25 di domenica 29 agosto sul palco del Teatro Duse, alla presenza del direttore artistico del Festival Thomas Torelli e della direttrice Annamaria Sartor.
Dormo Poco e Sogno Molto, il video ufficiale di España Circo Este diretto da Paolo Santamaria
Gli altri premi di Asolo Art Film Festival 2021
Gran Premio di Asolo: ‘Anima’ di Liliya Timirzyanova.
Film sull’arte- cortometraggi: ‘Parizad’ di Mahed Imani Shahmiri.
Film sull’arte- lungometraggi: ‘Mathius marvellous shop’ di Paolo Álvarez e Manuel Escorihuela.
Film d’arte- videoclip musicale: ‘Dormo poco e sogno molto’ di Paolo Santamaria.
Film d’arte: ‘Sproloquio d’estate’ di Luca Delfini.
Nuovi Linguaggi: ‘Under the cold stars’ di Stefano Giacomuzzi.
Espressioni Prime: ‘Time is’ di Zaur Kourazov.
Italiae: “Eterotopia – La Maddalena” di Ivo Pisanti
Menzione Speciale Mediterrano Corto Film Festival: “Tempo d’acqua” di Uros Vukovic
Menzione Speciale Associazione AAFF: “Travel Notebooks: Rome – Italy” di Silvia De Gennaro
Menzione Speciale Ibrida Film Festival: “Milano di Carta” di Gianmarco Donaggio
Menzione Speciale Festival Internazionale del Cinema di Frontiera: “Head” di Esmaeil Gorji”
Sezione Tema dell’anno “Fai della tua vita un’opera d’arte” (1): “Outside my window” di Sonia Gemmiti
Sezione Tema dell’anno “Fai della tua vita un’opera d’arte” (2): “My body given for you” di Anna-Claria Ostasenko Bogdanoff
Premio Città di Asolo: “Conz. L’ultimo collezionista” di Roberto Delvoi
Giuseppe Lanno è un regista palermitano con base a Bologna. Negli ultimi anni ha realizzato numerosi videoclip, oltre a cimentarsi con il documentario. Entrambi gli ambiti gli hanno consentito di contaminare il linguaggio dei video musicale con intuizioni che provengono dal cinema sperimentale, dalla video arte, da un’attenzione specifica agli spazi architettonici e alla composizione dell’inquadratura, che a sua volta fa tesoro dell’esperienza con il cinema del reale per spingersi in territori più interiori. Al centro una galleria di straordinarie figure femminili, raccontante fuori dagli stereotipi di genere e affrontate con grande intensità.
Uno dei suoi video più recenti, realizzato per un veterano del pop europeo come Sondre Lerche si intitola “I Could not love you enough” ed è una vera sorpresa, per qualità e forza ed è in concorso insieme ad altre 19 opere ad Asolo Art Film Festival 2021, nella sezione Film D’Arte / Video Musicali, curata da Michele Faggi per il Festival diretto da Thomas Torelli.
“Il video è stato girato interamente in Lettonia, a Rīga – ci ha detto Giuseppe – Essendo stato girato in pandemia il video nasce dal quotidiano di chi lo gira e della protagonista nella condivisione dello stesso spazio e dello stesso tempo. I mezzi, quasi del tutto assenti, sono limitati alla videocamera, l’improvvisazione dei set a seconda della luce di quel determinato giorno. L’idea è stata concepita dopo numerosi e ossessivi ascolti, con uno “studio” del brano, come è nella mia personale prassi. Una volta discussa con Sondre Lerche, l’idea è stata nella nostra vita, nella nostra casa, nelle nostre passeggiate per giorni. Dei momenti di normalità sono stati trasformati in materiale, non sempre in modo consapevole. Una volta trovato il ritmo nel montaggio finale, il video è stato messo nelle mani di Dario Baldini che ha contribuito con la sua color, realizzata a distanza“
Dopo il videoclip, l’intervista completa a Giuseppe Lanno
Puoi raccontarci la tua collaborazione con Melqart Production. Come é nata e come si é articolata.
Melqart Production è una realtà siciliana con cui ho cominciato il mio lavoro in maniera professionale. Ancora oggi collaboro e porto il nome pur non vivendo in Sicilia, come fossi una succursale con l’idea di promuoverne l’espansione. Francesco Murana, il fondatore, è la persona con cui mi sono formato e che continua il lavoro di Melqart con un occhio speciale.
Come si é delineata la collaborazione con Sondre Lerche?
Sono un fan di Sondre Lerche dai tempi in cui vidi una commedia dal titolo Dan in real life (2007, regia di Peter Hedges) in cui lui figurava come compositore della colonna sonora. Nel tempo ho ascoltato tutti i suoi dischi apprezzando la vena pop a mio parere molto sofisticata. Con l’avvento dei social è diventato più semplice anche mettersi in contatto con i propri beniamini. Su Instagram ho scritto a Sondre, prima solo per chiacchiere normali e poi per proporgli un videoclip. Avendo anche del tempo per dedicarmi a dei progetti personali, essendo in piena seconda ondata, gli ho proposto un’idea con script e moodboard e lui mi ha dato via libera. Ci siamo un po’ confrontati su un primo montaggio e poi abbiamo concluso col montaggio definitivo insieme al suo manager. Sondre è una persona dai modi davvero gentili.
Come hai lavorato allo sviluppo della sceneggiatura?
La quotidianità, l’intimità, sono argomenti per me di costante riflessione. Credo che ci si dovrebbe confrontare con grande attenzione con le proprie idolatrie giornaliere, con le proprie esagerazioni allo stesso modo in cui ci si dedica al proprio sentimento, alla propria capacità emotiva. Da qui l’idea di mostrare il quotidiano di un occhio che guarda e che reagisce. Vede l’idillio e vede la violenza o forse pensa di vedere. A volte una parola può sembrare uno strangolamento, un rifiuto come una morte. Di base credo che una relazione umana possa aprire uno sguardo, illudere dei sensi, raccontare.
Rita Tura, interprete del video di Giuseppe Lanno in uno scatto realizzato sul set
Puoi raccontarci qualcosa sulla location del video?
La location esterna è la Lettonia. Ci sono dentro delle vere passeggiate nei pressi dell’appartamento, ci sono boschi, il mar Baltico, il centro di Riga, i quartieri con i palazzoni sovietici. E’ un paese con una bassa densità demografica, è possibile camminare incontrando poche persone e questo consente anche di riprendere con molta calma. La location interna è l’appartamento, la casa. Il luogo in cui penso di più e decido di più. La vita in casa è oggetto di grande interesse per me.
Dettagli sul casting e sulla protagonista principale
La protagonista era per me già implicita nella creazione del video. Conosco Rita da otto anni e con le sue fattezze, i suoi modi, per me rappresenta la visione e la trasfigurazione di quel sentimento che metto in mostra nel video. Abbiamo ironizzato con i coltelli, le arrabbiature, le pose vere e quelle false, il nascondersi e il mostrarsi. Avendo già una quotidianità è stato (non sempre) semplice esagerare alcuni aspetti della vita quotidiana, i dolori possibili. Lei porta con sé il fascino di un pianeta lontano che può essere avvicinato. Una volta approdati sul pianeta si scopre sempre di più dove accamparsi e dove il territorio diventa ostile. Si vedono le proprie paure nella persona che si guarda. Ho già lavorato con Rita e pur non essendo lei un’attrice professionista, è molto attenta ai messaggi di una scena, ai cromatismi, all’estetica. E’ stata importante nel costruire anche alcune visioni, pur fidandosi di me.
I tuoi video sviluppano una poetica del quotidiano che si trasforma in altro. Trovi l’astratto in una sospensione spazio temporale senza forzare mai la cornice, ma esaltandone la forza espressiva. Puoi raccontarci come si verifica questo nel video di “I could not love you enough”?
Non so quanto sia facile rispondere a questa domanda, perché è ciò che tu hai letto nel mio percorso visivo. E diventa difficile rispondere perché è vero, esiste questa sospensione. Penso che la quotidianità sia un luogo con un tempo tutto suo, uno spazio con leggi fisiche particolari. Credo che la forza di gravità agisca diversamente e quindi tutto ha risposte da verificare nuovamente. Lo straordinario ha leggi più semplici molto spesso, essendo unico, paradossalmente lo viviamo con il criterio della sorpresa che per me è più ovvio. Un uragano è un evento talmente forte che è più semplice farne racconto. Questo vale per me. Nella quotidianità è più complicato astrarre e mi piace farlo, provarci. Sono molto legato all’ambito quotidiano della vita.
Rita Tura, interprete del video di Giuseppe Lanno in uno scatto realizzato sul set
L’attenzione al mondo femminile é una costante dei tuoi video…
Credo sia un modo, se vuoi banale, prima di tutto di entrare in contatto con il me al femminile. Non so se ho un’attenzione particolare. Le mie storie di amicizia, di lavoro, di famiglia, sono più legate alle donne che agli uomini. Forse questo mi ha reso più sensibile ad alcuni argomenti e ha creato una tendenza a riflettermi sulle donne. Provo un dispiacere profondo e anche tanto imbarazzo quando mi rendo conto di come i retaggi culturali ci influenzino nel nostro modo di interagire con le donne. Forse il punto è che cerco di avere attenzione.
Il colore mi sembra che sia una dimensione fondamentale nel video, attraverso la mutazione di texture e dominanti racconti quella del sentimento amoroso. Puoi soffermarti su questo aspetto e raccontarci il contributo del colorist Dario Baldini Macchia?
Dario Baldini, detto Macchia, è mio fratello. Siamo cresciuti insieme ai tempi dell’università. Abbiamo messo mano alle prime camere, ai primi software, creando video ironici. Poi realizzare video è diventato il nostro lavoro. Ci siamo sempre confrontati anche nei momenti di lontananza, vivendo in posti diversi. Negli ultimi anni Dario si è dedicato all’attività di colorist oltre che DOP, a mio parere con grande sensibilità. Per me è difficile restringere il suo contributo a quello di colorist perché con lui discuto le immagini ancora prima che esistano. Ma in questo caso specifico lui ha visto il materiale già montato e ha lavorato su qualcosa di già costruito. Abbiamo lavorato a distanza nel pieno delle ondate covid. In generale mi piace molto lavorare sulle texture e sui fondali, lo faccio nei miei ritratti che sono seriali e molto codificati, questo si estende poi a questo video in modo molto forte. Mi interessa che ci siano sensazioni legate ai colori perché spesso succede molto poco nei miei video (per me nel senso migliore della cosa) e preferisco sottolineare con questo altro livello piuttosto che inserire altri elementi gestuali o narrativi. Dario ha potenziato i colori e le texture già presenti, ha manipolato le immagini in modo che il colore corrispondesse a ciò che volevo dire in quel frame. Ha saputo dare rilievo alle mie intenzioni. Ha detto, col suo linguaggio, il suo punto di vista. Mi ha fatto delle proposte, ci siamo allineati subito. Inoltre il mio materiale, in questo caso, era spesso molto istintivo ed estemporaneo. Dario ha donato coesione e ha contribuito al racconto.
Rita Tura, interprete del video di Giuseppe Lanno in uno scatto realizzato sul set
Due parole sullo stato dell’arte del videoclip per te, come autore e come spettatore e un’impressione a caldo sull’inserimento nella sezione videoclip curata da Michele Faggi per Asolo Art Film Festival 2021
L’arte del videoclip, come in generale quella del cinema, ha la qualità intrinseca di poter essere realizzata secondo l’unica discriminante davvero importante: l’idea. Vedo videoclip molto complessi, ma assolutamente irrilevanti e videoclip semplici ed efficaci. Qualche giorno fa, in albergo, con indole masochista ho deciso di guardare l’intera Top 20 di MTV con i relativi videoclip. Alla fine ho provato grande imbarazzo per molte delle cose viste. Gli unici degni di nota (non certo dei capolavori) erano Industry Baby (Lil Nas X, Jack Harlow) e NDA (Billie Eilish). E stiamo parlando dei video che dovrebbero corredare le canzoni più ascoltate al mondo. In questo senso ammiro molto Billie Eilish che ha idee molto precise sui suoi video, ha un suo immaginario e lo porta avanti dirigendo con grande intuito tutto quello che produce anche in termini visivi. Credo che il videoclip sia troppo spesso qualcosa di unicamente promozionale, che pur essendo realizzato bene, non sia necessario. Se un videoclip non aggiunge niente al significato della canzone (fosse anche un’estensione estetica) è qualcosa che non ha senso di esistere. A volte siamo pagati per fare cose di cui il mondo non ha bisogno, ne sono certo. Sono abbastanza fortunato da poter dire che questo mi succede raramente. Sono molto felice di far parte di questa selezione perché ha preso in considerazione un lavoro molto personale che risponde a criteri intimi e questo mi dà la sensazione che ci sia grande sensibilità da parte del Festival. Mi inorgoglisce che un lavoro così spontaneo sia intercettato, mi rende speranzoso.
Rita Tura, interprete del video di Giuseppe Lanno in uno scatto realizzato sul set
Giuseppe Lanno, Biografia artistica
Giuseppe Lanno nasce a Palermo nel 1989. Nel 2008 si trasferisce a Bologna, città in cui studia cinema presso il DAMS. Successivamente, nel 2012, si trasferisce a Los Angeles dove si specializza in sceneggiatura presso il Film Connection Institute. Dal 2013 inizia a lavorare attivamente su progetti video di vario genere, sia personali che su commissione, instaurando però un intenso rapporto con il mondo della musica come regista di videoclip e documentari. Con uno di questi (AUDIOGHOST68’) apre nel 2016 l’edizione di Artecinema al Teatro San Carlo di Napoli. Collabora con artisti di rilievo nazionale (Iosonouncane, Dimartno, La rappresentante di lista, Cesare Basile, etc.) e grandi teatri italiani (Teatro Massimo di Palermo, Teatro Arena del Sole, Teatro Manzoni, Angelica Teatro San Leonardo, etc), lavorando spesso a eventi culturali di natura isttuzionale e indipendente. In ambito fotografico realizza shooting per artisti per la loro promozione, reportage di eventi, spettacoli teatrali e musicali oltre ai propri progetti personali di ritrattistica. Vive e lavora attualmente a Bologna.