venerdì, Novembre 29, 2024
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Matteo Faustini, 1+1: il video di Nicola Conversa

Per tradurre visivamente le banalità di Faustini/Rettani/Palmosi sulla coppia, il regista tarantino Nicola Conversa ce la mette tutta per trovare una forma fresca e di impatto. Sceglie lo split screen come luogo virtuale della commedia e trova quel tono già sperimentato nei suoi lavori per l’universo seriale (School Hacks).
Senza infamia e senza lode, può forse funzionare per il target dei tredicenni.

Fulminacci – Tattica: il videoclip di Bendo

Quello che ci piace del collettivo Bendo è una sorprendente capacità dissimulativa: calare i colori del pop in un contesto più ampio, dove il ventre che produce tutto l’immaginario è quello della città.
Per Fulminacci rileggono L’ingorgo di Comencini e ne fanno un claustrofobico ritratto di un’Italia immutata dagli anni settanta, dipinta con i tratti di quel quotidiano “troppo umano”, che supera la necessità di ricorrere al grottesco. La provincia stipata sotto un raccordo autostradale è quella che si porta dietro il proprio microcosmo ed è immagine altrettanto forte e non scontata, delle sclerosie che abbiamo alimentato durante il lockdown.
Al di là del senso, il segno è quello di un video pop nella migliore accezione del termine: ritmo, rimario, colori e taglio che si accordano con i tempi e l’incedere del brano.

Il disordine delle cose – Buona sorte: il videoclip di Raffaele Matrone

Non è la spiaggia di Passoscuro, ma un meleto di Sozzago, in provincia di Novara. Il volto che ci sorride per poi allontanarsi dalla videocamera con una corsa verso il sole, forse non ha l’intensità di Valeria Ciangottini a quattordici anni, ma Sofia Sempio riesce a trattenerne la freschezza e quella commistione tra serenità e malinconia, senso della fine e capacità di guardare l’orizzonte.
Risiede tutto nell’ultima sequenza di “Buona Sorte”, il senso del video girato da Raffaele Matrone per Il disordine delle cose e tratto dal loro ultimo album intitolato “Proprio adesso che ci stavamo divertendo”.

La produzione Broski Film realizza un gioco campestre, semplice e riflessivo come il songwriting popolare. Non è il dopo sbornia di una Dolce Vita, perché la festa e la dissoluzione non c’erano. La dimensione è quella atemporale del ricordo, e con una fotografia che richiama volutamente filtri e colori degli anni settanta.
Non la vigilia del disastro, ma un altro tempo fuori da qualsiasi cronologia.

In quello spazio si può ancora sognare.

Don Said – Mi Amor: il videoclip di Cage Moss

Cage Moss, al secolo Giuseppe Maggio, solo negli ultimi quattro anni ha diretto un numero considerevole di videoclip, soprattutto nel contesto street, hip-pop, rap.
Il giovane regista siciliano ha quindi sviluppato una poetica urbana, sondando periferie sconosciute e contrapponendo spesso l’occhio panoramico del drone ad un’immersione diretta in ambienti, luoghi e situazioni , frutto visivo della contaminazione tra nuovo “pulp” e descrizione sociale.
Il nuovo video realizzato per Don Said, nell’apparente giocosità del brano, tiene saldi questi elementi, continuando a raccontare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, nel legame tentacolare, difficile e senza prospettive della città contemporanea.
Luoghi abbandonati e fatiscenti, clandestinità notturna, e una gioventù che comunica attraverso i tatuaggi sul corpo, come segni di appartenenza.

Rachele Bastreghi – Penelope e il corpo potenziale di Silvia Calderoni

Mischia gli ambiti, gli stimoli, i mondi creativi. Silvia Calderoni ha sempre preferito il transito alla staticità di un solo luogo specifico. Teatro, moda, cinema, linguaggio politico, cultura Queer e femminismi. Lungi da essere una purista, ha preferito la contaminazione, usando il proprio corpo come strumento potenziale. Allo stesso tempo, la stratificazione esperienziale non è scindibile e si interconnette, ogni volta, nello spazio immaginale in cui il suo corpo si trova a riconfigurare la nozione acquisita di identità e realtà: Teatrino Clandestino, Teatro della Valdoca, Raffaello Sanzio, Masque Teatro, Motus, Fanny & Alexander, le sfilate per Gucci, il grande manifesto della campagna Cheap in via dell’Indipendenza a Bologna.

La “resina” dell’Androgino rende fluido anche il video di Giulia Achenza. La filmmaker di Olbia, ma attiva a Milano, ha specializzato il suo occhio nell’ambito dei fashion film, senza irrigidirlo entro la formula iconologica della distanza. I suoi lavori realizzati per Pucci, Etro, Armani, Marras, trattengono una dinamicità quasi alchemica e un lavoro sul corpo che parte dal contrasto tra luce interiore e impatto con la superficie.

Il corpo irregimentabile di Silvia Calderoni e l’architettura visuale della Achenza, tessono alcuni fili intorno alla decostruzione del mito di Penelope interna alle liriche di Rachele Bastreghi.

Al di là dell’indicazione esplicita nella sezione “spoken” interpretata dalla Calderoni, la diversità intesa come punto di forza innerva un dissidio più ampio tra interiorità e rappresentazione, sole e confusione, margini e mondo.
Ogni elemento figurativo che nel testo ha il compito di infrangere i segni contro la superficie, emerge nella simbologia simultanea del tableaux vivant complessivo.

La contemplazione e il movimento furioso.

L7 – Wargasm – The Slash Years 1992-1997: I 3 album in un box CD

Formatesi nel 1985, le L7 di Donita Sparks e Suzi Gardner debuttano su Epitaph tre anni dopo, pubblicando un primo urticante album, a cui seguirà il secondo stampato per Sub Pop, con la formazione al completo, che includeva anche Jennifer Finch al basso e la batterista Dee Plakas. “Smell the Magic” accrebbe la fama delle quattro riot grrrls e consentì loro di calcare gli stessi palchi dei Nirvana.
Ma l’attenzione nei confronti della band crescerà solamente quando firmeranno un contratto con la Slash Records, per il primo dei tre dischi che pubblicheranno con l’etichetta. “Bricks are Heavy” viene pubblicato nel 1992 e prodotto dal grande Butch Vig, che compatta il suono, contiene tutta la rabbia e contribuisce a creare una serie di episodi taglienti e marmorei, attraversati tanto dall’estetica grunge coeva, quanto da un approccio ondivago tra punk e metal.
Ad aprire le danze, un singolo come “Pretend We’re Dead“, per il quale viene girato un videoclip a bassissimo budget.

Wargasm“, opener dell’album, è anche il titolo della raccolta che Cherry Red dedica al periodo Slash (1992-1997) delle L7. Un digipack a quattro ante che oltre a “Bricks are Heavy”, include anche i successivi “Hungry For Stink” e “The Beauty Process: Triple Platinum“.

Come da tradizione Cherry Red, il cofanetto è corredato di un booklet molto approfondito e di alcuni inediti (session live, versioni demo e versioni edit) disseminati per ciascuno dei tre CD.
Hungry For Stink“, realizzato sulla scia commerciale del precedente, fu registrato da Gggarth Richardson e pubblicato nel 1994. Ma il risultato è più oscuro e pessimista rispetto agli anthem dell’album precedente.

Il disco contiene più bonus degli altri due e include una versione live di ‘Baggage’, un’ottima b-side intitolata ‘Punk Broke My Heart’ e una folle audio-intervista radiofonica della durata di 15 minuti.

Nel 1997 la bassista Jennifer Finch lascerà la band durante le registrazioni del quinto album della band intitolato “The Beauty Process: Triple Platinum“, prodotto da Rob Cavallo e Joe Baressi che infonderanno un suono più vicino alla scena indipendente, mitigando molto la rabbia complessiva. Rappresenta comunque il testamento di una band che ha dato il meglio di se in questo periodo e che si scioglierà nel 2001, poco dopo aver pubblicato il sesto e ultimo album. Si riuniranno nel 2014, insieme a Jennifer Finch, ricostituendo la lineup e pubblicando il settimo album intitolato “Scatter the rats”. Ma questa è un’altra storia.



Al Stewart – Year of the cat. I due box per il 45/mo anniversario

Esoteric Recordings, specializzata nella ristampa di classici più o meno noti, in collaborazione con Cherry Red Records, pubblica un bel box dedicato al 45/mo anniversario di “Year of the Cat“, l’album che consacrò definitivamente Al Stewart fuori dai confini britannici, spingendolo a trasferirsi in California e cambiando radicalmente la sua musica, dopo più di un decennio legato al contesto folk.

“Year of the Cat”, prodotto da Alan Parsons è un esempio di pop melodico sofisticato e piacione, che mantiene ancora la sua forza evocativa, grazie ad arrangiamenti che, nel bene e nel male, faranno scuola.
Pubblicato nel 1976 in versione vinile gatefold con la grafica curata dal celeberrimo studio Hipgnosis, legato anche ai Pink FLoyd, segue la scia del precedente “Modern Times“, per allontanarsi definitivamente dalle radici folk di Stewart, con il supporto di musicisti come, Tim Renwick, George Ford, Peter Wood, già insieme al musicista inglese sul precedente album, coadiuvati da Peter White e Stuart Elliott, che con Ford condivideva l’esperienza nei Cockney Rebel.
Ma è la produzione di Parsons a fare la differenza e a traghettare completamente Stewart in un ambito più pop.

Il cofanetto Esoteric Recordings/Cherry Red è un digipack a 4 ante che contiene due CD. Il primo con la versione rimasterizzata del disco, il secondo con un raro concerto registrato nel 1976 a Seattle, durante il tour americano di “Year of the Cat”. La qualità della registrazione del live è assolutamente ottima.

Completano la dotazione del box, un booklet approfondito con testimonianze, flyer pubblicitari e tutta la storia del making del disco, realizzato con la consueta cura che Cherry Red dedica ai suoi prodotti, con note, saggi e approfondimenti di primo livello. Incluso anche un poster pieghevole che riproduce un poster pubblicitario dell’epoca.

La versione esaminata da indie-eye con il video unboxing è quella 2 dischi appena descritta, ma Cherry Red rende disponibile anche una versione 4 dischi che include oltre all’album rimasterizzato, una versione 5.1 mixata dallo stesso Alan Parsons. Gli altri due dischi del set includono una versione estesa e più lunga del live a Seattle.

“Year of the Cat” si trova sul sito Cherry Red da questa parte

Grandi eventi Covid-Free, quanto ci costeranno?

La recente iniziativa di TicketSms e Mitiga per agevolare eventi covid-free, nasce sulla scia delle nuove regolamentazioni turistiche che introdurranno l’utilizzo di green card specifiche, unitamente alla verifica tramite tampone, effettuato nelle 48 ore precedenti rispetto ai tempi del viaggio.
In un contesto più circoscritto come quello degli eventi con più di 1.000 spettatori, le due startup del nord Italia, hanno probabilmente ascoltato con attenzione le intenzioni di Eventim e Live Nation, impegnate a concepire un protocollo condiviso per la ripresa dei grandi eventi.

Unendo le forze, TicketSMS e Mitiga hanno messo a punto una piattaforma e un’app che interagiranno per garantire lo svolgimento degli appuntamenti “live” secondo ipotetici protocolli di sicurezza.

Al momento l’app TicketSMS è in una fase di marketing affidata alla Pkcommunication, dal cui comunicato stampa abbiamo desunto le informazioni tecniche sul funzionamento. La prima è braccio tecnico di un evento test previsto per il prossimo 5 giugno presso la discoteca all’aperto Praja, ubicata a Gallipoli, a cui ne seguirà un secondo tutto milanese, in data da stabilire, che si svolgerà alla discoteca Fabrique.

Per dieci euro, costo che gli organizzatori del Praja dichiarano a copertura delle spese tecniche relative ai tamponi, sarà possibile partecipare all’evento, sperimentando l’app specifica che gestirà bigliettazione e monitoraggio sanitario sviluppata da TicketSMS in collaborazione con Mitiga.
I passaggi tecnici sono i seguenti: Acquisto del biglietto nominale sul sito ufficiale di Ticketsms, associato ad anagrafica e codice fiscale del cliente. Mitiga, piattaforma convenzionata con alcune farmacie e laboratori di analisi, potrà a questo punto ricevere informazioni relative al tampone eseguito dal cliente nelle 24/36 ore precedenti all’evento e consentire a Ticketsms una verifica in base al risultato.

Se gli esiti del tampone saranno negativi, TicketSMS sbloccherà il biglietto in standby e consentirà la partecipazione all’evento con la sola scansione di un QR code generato dalle applicazioni, per smaltire la carta e velocizzare le code.

Partecipare all’evento renderà obbligatoria l’esecuzione di un secondo tampone, che dovrà svolgersi dopo cinque giorni.

Come dicevamo, il costo del biglietto per l’evento di Gallipoli, viene fissato a 10 Euro, a copertura dei costi tecnici per effettuare i tamponi; una convenzione, come ha dichiarato Pierpaolo Paradiso, amministratore unico della discoteca gallipolina al Corriere della Sera, concordata con i laboratori accreditati che normalmente vendono un tampone antigenico a 20 euro.

Il tampone offerto, non è quindi quello molecolare, il cui costo usualmente si aggira tra le 70 e le 100 euro, ma quello antigenico, più veloce come tempistica e quindi più adatto per affrontare l’allestimento di eventi, e considerevolmente meno affidabile sul piano della sensibilità e della specificità.

Fuori dalle simulazioni e dagli eventi test, ovvero quando metodi e sistemi di monitoraggio come questo, saranno adottati in modo estensivo e commerciale, quanto costeranno al consumatore?
Sarà in ogni caso l’organizzazione eventi ad offrire un tampone, oppure sarà responsabilità dell’utente rivolgersi, a spese proprie, ad un laboratorio di analisi, 24/36 ore prima dello show?

A Gallipoli sono previste 2.000 persone per l’evento test del prossimo 5 giugno; c’è da sperare che il potenziale livello di falsi negativi rilevato in varie circostanze dai tamponi antigenici, non si riveli troppo alto.

[Foto dell’articolo, archivio Pexels.com – di Artem Podrez – libero utilizzo, attribuzione non necessaria]

Popa – Psicomagia – il videoclip diretto da Ghia Valabrega

Popa, al secolo Maria Popadicenko è un’artista lituana trapiantata a Milano. Nel capoluogo meneghino lavora come designer per alcune case di moda, mentre con il compagno Carlos Valderrama, già parte dei Fitness Forever, lavora ad un progetto musicale che fonde suggestioni dancefloor seventies con quel gusto nu-soul che attraversa in egual misura l’esperienza dei Pizzicato 5 e dei Dirotta su cuba.
Psicomagia è il nuovo singolo dopo Mare su Milano, e mantiene tutte le promesse sonore che ci potremmo aspettare da un progetto del genere: freschezza, gioco, disimpegno un pizzico di nostalgia.

Per quanto le connessioni con il tempo infausto che stiamo vivendo siano comunque affrontate, tutto è all’insegna di una prospettiva multicolore che è maggiormente legata alla vita milanese , invece che ai ludici deliri di Jodorowsky, le cui attitudini servono da scusa narrativa per parlar d’altro

Milanesissimo anche il video, affidato alla regia di Ghila Valabrega, vicina al mondo della Popadicenko per il suo lavoro nell’advertising legato al mondo fashion e luxury. Regista, direttrice creativa, designer grafica, illustratrice e direttrice artistica. Questa è la dimensione in cui si muove la creativa milanese, attraverso una cifra stilistica che mette al centro colori, movimento, gioia di vivere; tutte qualità ad alto rischio in tempi di pandemia.
La sua formazione è eminentemente visuale: ha cominciato a lavorare come scenografa collaborando con Moma Mrdakovic, assistente di Kusturica per diversi lustri e impiegando il suo talento sul set de “ll turno di notte lo fanno le stelle” di Edoardo Ponti. Dopo un master a Los Angeles, è attiva come autrice più o meno dal 2013, anno in cui ha aperto la sua casa di produzione, la Ananim Production.
Nel campo dei videoclip ha realizzato una serie di prodotti dal respiro conforme alla sua formazione apolide, ma fortemente ancorati al territorio lombardo anche in termini di riscoperta e mappatura visuale dei luoghi. Citiamo Zemer atik per i Nefesh Trio, il progetto Moths to flame di Marco Pellegrino e Luca Jankovic dove ha ricoperto il ruolo di produttrice con la sua Ananim Production.

Con Psicomagia, oltre agli elementi visuali di cui abbiamo parlato, recupera il formato panoramico delle commedie anni sessanta girate in Eastman color (Colazione da Tiffany tra tutte), spostando tutto nei settanta attraverso decor, ritmo e rimario, incluso il lettering vagamente pulp. Un pastiche postmoderno.

Popa – Psicomagia – il video di Ghia Valabrega

Franco Battiato: la morte non è niente

La prossima tappa
Del mio cammino in me
Per trovare la mia stella
E i cieli e i mari
Prima dov’ero

(Franco Battiato, Giubbe Rosse)

Il “personal Juke box” di Franco Battiato, ad ascoltarlo tutto d’un fiato, in quel rapporto spesso sbilanciato tra le condizioni dell’ascolto e gli ingranaggi di una macchina live collaudatissima, lungo i decenni si è rivelato al contrario vivo e pulsante, come uno spiazzante racconto esoterico che sfiora la memoria collettiva di un paese intero.

Una comunione mai interrotta tra l’artista Siciliano ed un pubblico eterogeneo, inafferrabile, in continuo ricambio, descrivendo quella relazione complessa fatta di viscere e di spirito, di amore per il gioco e di volontà di superarlo che caratterizza tutta la produzione dell’artista sicialiano. Luminosa superficie pop che consolida e infrange il dispositivo, perché in grado di toccare molteplici corde; tra queste, quella nostalgica si manifesta come strana sovrimpressione tra la memoria popolare e la qualità interna al suo comporre, due binari che imboccano strade diverse. Per chi ascolta è forse l’immagine di una stagione di grande creatività Pop, attualissima proprio per il suo essere esemplarmente assente dal panorama Italiano contemporaneo; mentre per il tessitore, è “un’altra vita”, un vortice di rimandi, frammenti di una lingua fuori dalle convenzioni, un tracciato sempre diverso che innesca diversi processi di identificazione.

Brani come Up patriots to arms, Povera patria, Inneres auge, No time no space, l’Animale, Summer on a solitary beach, insieme ai vecchi amanti di Brel, al di là della loro forma im-mediata nell’involucro “canzone”, vengono spinti in un tempo dove lo spazio non è quello del fantasticare ma può assumere le caratteristiche della meditazione. Crocevia tra sogno e veglia dove vive la sua musica; da una parte il corpo del Pop, con i suoi agganci mnemonici e un’alchimia di tipo combinatorio, dall’altra la qualità di una voce che ancora riesce a suggerire altro, in quel dissidio tra sogno e poesia che John Keats descrive distinguendo il Poeta dal sognatore, il primo “versa un balsamo sul mondo, l’altro lo tormenta”.

I segni di una nazione ferita a morte, dove lo stato di diritto è un miraggio prendono forma sui volti e nei corpi di chi ascolta, nella reazione emotiva e transgenerazionale alla forza invettiva di alcuni testi dell’artista Siciliano. Up Patriots to Arms può diventare una cosa sola con Povera patria e Inneres Auge, una forza che smuove ritmicamente e interiormente, una coincidenza di opposti che risuona, per metamorfosi, anche sul suo pubblico, disposto ad accogliere in forme diverse, gli elementi che costituiscono la complessità di un “sentimento popolare”.

E nel tentativo di queste ore di confinare negli spazi culturali RAI, omaggi montati in fretta, emerge comunque la qualità eccentrica delle sue apparizioni televisive, fatte di registri opposti tra occorrenza promozionale e disinnesco; un truffatore di fiducia Melvilliano in grado di raccontare l’illusione anche contaminandosi con la frode e la volgarità del mercato, perché l’esoterico, proteso a scoprire energie essenziali pure senza attributi morali, sa benissimo che tutto è illusione, e non giudica.

Anche i suoi film occupano una dimensione sempre “fuori formato” e quindi interna ad una forma-Cinema che supera se stessa, dall’uso selvaggio dei mezzi digitali ad una riassunzione feroce del punto di vista.

Viene in mente, in un ambito diverso, il percorso stratificatissimo di Elemire Zolla, ultimo degli sciamani occidentali che in un ambito solo apparentemente più specifico ha fatto del rapporto, anche giocoso, con il “mondo” uno degli strumenti accessibili per comprendere il suo “isolazionismo” esoterico, che è stato distanza dal mondo e penetrazione assoluta e generosa dello stesso, basta pensare alla sua infatuazione precognitiva e illuminante sul virtuale e alle sue definizioni di Cyberspace in tempi non sospetti in un continuo ondivagare tra pulsioni pre-moderne e previsioni di un arcaismo archetipico e futuribile. Lo ha fatto gettando alle ortiche tutta la stagione post-moderna; la conoscenza di Zolla, per chi scrive, è arrivata negli anni ’90, dieci anni dopo aver avvistato l’eccentrico Battiato durante una gita scolastica insieme ai compagni di scuola media, con l’autista della corriera e l’insegnante di storia in piena sbornia da “La voce del padrone”, uscito quella stessa stagione. Il cortocircuito è stato fortissimo, perché in modo volutamente apocrifo ed eretico, mi sono trovato spesso ad intrecciare questi due mondi “testuali” come stazioni di un pensiero creativo e artistico palindromo.

Battiato ha sicuramente incontrato Zolla e la sua opera in più di un’occasione, ne sono testimonianza e traccia i continui scambi con Grazia Marchianò nel ricordo dei “carteggi invisibili”, negli interventi a convegni, negli atti di questi che non stiamo qui ad enumerare.

Che i tempi per amarsi non siano mai sincroni ce lo racconta questo piccolo, flagrante confronto: Francesco Bianconi ha “candidamente” confessato di aver considerato il titolo di un noto album dei Baustelle solo dopo per aver visto una copia de “I Mistici dell’occidente” esposta su di una bancarella; in fondo sempre un livello dell’ispirazione, seppur al grado più superficiale della frode; un procedimento che non si avvicina minimamente alla genesi acuminata, cinica e generosa di un titolo come “Non Conosco Nessun Patrizio”, incluso in uno degli ultimi album di Milva/Battiato, segno di come il caos possa trasformarsi in un’arte combinatoria ludica e serissima allo stesso tempo.

Per chi si fosse impegnato nella lettura delle Upanishad, le liriche di “Torneremo Ancora” potrebbero risuonare, proprio in questo momento, come famigliari. Gli stati del sogno a cui Franco Battiato si riferisce, poco hanno a che vedere con quella dimensione onirica che usualmente fa parte del bagaglio critico occidentale, ad uso e consumo di visioni dopate o peggio ancora, aumentate. Il musicista siciliano sonda un mondo parallelo, di densità ascetica, confinando le illusioni nello spazio materiale e la definizione di reale in quello del sogno. Impulsi della coscienza che indicano le tappe di un nomadismo spirituale, qui sollecitato dal riferimento ai pellegrini di Ganden, il monastero tibetano fondato nel 1409 dietro la spinta di una riforma radicale della disciplina monastica, poi messo a dura prova dalla violenza assoluta del comunismo maoista.

Juri Camisasca, che ha scritto il brano insieme a Battiato, chiarisce proprio questo aspetto: “I migranti di Ganden sono qui chiamati a rappresentare il percorso delle anime al termine della vita terrena e le vicissitudini che questa nostra esistenza comporta. Nel contesto del brano, la migrazione non va interpretata nell’ottica delle problematiche politiche. Migrante è ogni essere senziente chiamato a spostare la propria attenzione verso Cieli Nuovi e Terre Nuove, piani spirituali che sono dimore di molteplici stati di coscienza e che ogni essere raggiunge in base al proprio grado di evoluzione interiore“.

Disinteressati alle polemiche da clickbait che ammorbano il giornalismo italiano, ormai totalmente “abusivo” nello svolgimento di una funzione culturale sempre meno specifica, non ci soffermeremo sul riciclaggio di notizie scadute, motti di spirito scambiati come slogan, frasi estrapolate che stanno facendo il giro dei quotidiani e della rete che compatta li sostiene in modo gregario. Quello di Franco Battiato è stato un sincretismo rarissimo, in un panorama complessivo che ancora si nasconde dietro lo scudo distruttivo delle utopie modellate sui bisogni della società di massa. Ecco che il viaggiatore Battiato ha più volte liberato l’essenza del suo “daimon”, con un’intuizione che, come il suo Cinema, procedeva ad un’altra velocità.

La morte non è niente