Con più di 44.000 visite ottenute in poco più di dieci giorni, il video di Pandem diretto da Mario Salanitro si preannuncia come un vero e proprio tormentone estivo. Il video corrisponde perfettamente allo spirito canzonatorio del brano, sfruttando pochissimi elementi e fondendo in modo onesto suggestioni tipiche del cinema di genere italiano, per sostenere il groove festaiolo della canzone. La Panda come alternativa allo sballo, retoricamente al centro di tutta la “cultura” trap, viene elevata a feticcio.
Perché il binomio Panda/Bamba?
Panda e Bamba, rappresentano la contrapposizione di due stili di vita diversi, griglie di lettura differenti per interpretare il mondo. Da una parte c’è la Bamba, rappresenta ostentazione, lusso, sete di potere, la scalata al successo. Dall’altra c’è la Panda, rappresenta la semplicità, la realtà più concreta ed umana in cui c’è bisogno di poco per essere felici, senza per tanto essere degli sfigati, al contrario. Questa contrapposizione è anche una sfida nei confronti di quella scena musicale che fonda le sue basi sui soldi, macchine, donne, lusso: guardateci, abbiamo una Fiat Panda, la voglia di vivere e siamo più fighi di voi.
Pandem, il nome, da dove deriva?
il nome è frutto di una storpiatura fatta dal mio gruppo di amici nel 2012. È un’evoluzione : Andrea – Andre – Pandre – Pandru – Pandem. Mi hanno battezzato così, in un contesto di skate, musica reggae, linguaggi inventati dal gruppo e tanta incoscienza. Non è un caso che l’evoluzione sia andata verso Pandem, perché è anche sinonimo di pandemonio, data la mia è energia travolgente ed altamente contagiosa. Quindi non ha niente a che fare con la pandemia, l’abbiamo anticipata a suon di musica jamaïcaina in cui Pandem vuol dire Put On Them, mettilo su di loro, riferendosi ad un messaggio divino penso, io ci metto il groove.
La scelta raggamuffin’ “hard” e crossover, due parole sullo stile musicale
Ci serviva energia, potenza per lanciare questa sfida, per rendere competitiva questa povera Fiat Panda, quindi questo groove si è imposto. Il mio genere è fra world Music, reggae, folk e latin. Tutto ciò che è ricco ritmicamente, con sonorità esotiche e tradizionali/etniche. La voglia è quella di farsi ascoltare ma anche di far ballare, offrendo più registri per la fruizione della mia musica. Panda No Bamba è una canzone più “hard”, avevo voglia di sfoderare gli artigli, e dimostrare un’altra faccetta del mio universo musicale
Raccontaci la tua collaborazione con Mario Salanitro, regista del video
Mario Salanitro è un filmmaker grossetano, ha cominciato a lavorare giovanissimo con la videocamera del padre, per filmare gli amici in skate.
E poi?
Poi, dopo l’adolescenza se ne è andato a Milano dove ha acquisito competenze e concluso la formazione accademica all’istituto europeo di design.
Finiti gli studi, cosa ha fatto?
Gavetta, ovviamente, nel mondo del lavoro, sui set di produzioni importanti. Appassionato da sempre dal mondo documentaristico nel 2016 ha intrapreso la via dell’esplorazione in luoghi remoti dove trova subito la sua dimensione. È li che condivide con me i primi progetti.
Nel 2019 si concretizza il progetto di collaborazione dando vita al videoclip del Marinaro prima ed infine Panda No Bamba
Dove è stato girato il videoclip?
È stato girato a fine settembre 2020 a Marina di Grosseto e dintorni. Il nostro quartier generale era una vecchia casa al mare che apparteneva a mio nonno
Come mai questa scelta?
La pineta è un luogo caratteristico della nostra zona, privilegiato anche dagli spacciatori per nascondere la droga. Tutto è partito da una festa di compleanno, fatta in pineta tra Marina di Grosseto e Principina nell’estate 2019.
Il viaggio sciamanico di Donovan, fuori dal tempo e dallo spazio, sembra quello che introduce il film meno amato da David Lynch. Irulan parlava del principio, periodo di delicati equilibri, e della spezia, surplus di conoscenza essenziale per annullare lo spazio. Ovvero, la capacità di viaggiare in ogni parte dell’universo senza mai muoversi. Per Donovan, sciamano che registra una delle sue ballad più dirette, urgenti e disarmoniche si tratta di rintracciare nuove relazioni tra comunità e forze della Natura. Un compito che non è certo riuscito al connubio militare tra scienza, politica e semiotica. Lasciamolo sognare come un Warlpiri allora, mentre Lynch continua a costruire in forma sempre più contratta e casalinga, un percorso trasparente tra le immagini, incatenate come una litania che si è finalmente sbarazzata del logos.
Il mare.
“I am the shaman”, il brano, è stato registrato nello studio losangelino di David Lynch. Il video è prodotto è diretto dal regista di Missoula. Donovan, che suona con “Kelly”, la sua acustica, viene accompagnato dallo stesso Lynch, che costruisce un’architettura modale, con alcuni accordi di chitarra ed effetti. Il video, in coda, sollecita donazioni per regalare la pratica della meditazione trascendentale ai bambini. L’account paypal è il seguente: paypal.me/donovanleitch
Potrebbe sembrare una vera e propria provocazione quella di Alberto Nemo. In realtà è qualcosa di più profondo, legato alla nostra relazione con la modernità. Il “Non video” che accompagna Merah , primo estratto dall’imminente “Opera 50” prodotto da Paolo Dossena per la prestigiosissima Compagnia Nuove Indye, riporta i sensi al centro, nella fruizione della musica. Lo schermo è nero, anche se Nemo più avanti ci spiega che non si tratta di un nero assoluto, perché capace di espandere i confini di tutte le visioni possibili, scaturite da una relazione profonda con la propria interiorità. Nemo sviluppa quindi un tipo di canto capace di suscitare le immagini che appartengono al nostro vissuto, come del resto aveva già teorizzato per la sua Pictura Vocalis.
Sul piano estetico concettuale Vengono in mentre i “Films fantômes” di Bertrand Bonello e tutti quei percorsi estremi che rimuovendo il dispositivo industriale diventano post-immagini. Succedeva con “Blu” di Derek Jarman o con i primi 75 minuti di “Branca de Nev” di João César Monteiro.
Succede con Alberto Nemo, per il quale il suo “non video” è una rifondazione della musica al tempo dell’immagine, intesa come capacità di sondare l’invisibile.
Il suono non necessita di immagini. Chiudi i tuoi occhi e immagina.
La musica al tempo dell’immagine, una riflessione di Alberto Nermo
La mia riflessione sulla musica continua il suo percorso che è, soprattutto, un’esigenza di chiarezza sulla sua natura e sul senso che ha nel nostro tempo. Questa chiarificazione di intenti giunge ora ad una nuova conclusione nella presentazione del video che accompagna il brano Merah estratto dal mio ultimo lavoro “Opera 50”.
Fin da bambino per vivere intensamente un’esperienza sensoriale chiudevo istintivamente gli occhi e lasciavo che un sapore, un profumo o un suono producessero in me il loro effetto evocativo, l’attivazione di una vista interiore capace di mostrare l’indicibile.
È il principio della meditazione che richiede di spostare l’attenzione in sé chiudendo momentaneamente le finestre dello sguardo esteriore. Per vedere le stelle occorre allontanarsi dalle luci della città e trovare un luogo buio, così come per ascoltare la musica occorre allontanarsi dal rumore e anche dalle immagini esterne che, inevitabilmente, ne confondono la fruizione.
Fratel Carlo Carretto pensò a “Il deserto nella città” quando durante il suo soggiorno ad Hong Kong ebbe l’intuizione che anche nella foresta dei grattacieli si poteva riuscire a trovare il proprio spazio di silenzio interiore, di deserto, recuperando così la giusta misura di tutto.
È quello che propongo ora nel presentare il mio “non video” come operazione concettuale per suggerire la giusta dimensione di ascolto. Non propongo immagini ma la visione di un solo colore che non è il nero assoluto, è quello che l’occhio percepisce quando le palpebre sono chiuse e hanno di fronte la luce del sole. Ciò che la retina registra è un buio rossastro, il colore che la luce assume attraversando i vasi sanguigni della pelle.
Il silenzio necessario alla musica e l’assenza di immagini esteriori deve essere un momento sacro, un luogo creato dalla volontà che ritrae solo per un momento la sua attenzione dalla vita esterna e la pone dentro di sé. La città e il sole sono importanti, non avrebbe senso chiudere gli occhi dentro una grotta buia o cercare solitudine in un deserto vero. L’ascolto della musica in una ritrovata dimensione di sé è la meditazione che vi propongo a questo punto della mia ricerca artistica come il migliore fermento per la nostra vita quotidiana.
Merah, il primo estratto dal nuovo album di Alberto Nemo: “Opera 50”
Esce oggi, in anteprima esclusiva su Indie-eye, il “non video” di Alberto Nemo del singolo Merah tratto da “Opera 50”.
Il disco uscirà il 7 maggio 2021 per CNI, la casa discografica fondata da Paolo Dossena che annovera nel proprio catalogo artisti del calibro di Ennio Morricone e Luis Bacalov.
Il cinquantesimo album di Alberto Nemo, uno dei più interessanti musicisti contemporanei, oltre alla produzione di Dossena (già produttore, tra gli altri, di Luigi Tenco e Francesco De Gregori), porterà in copertina la firma di Mark Kostabi, il più importante artista vivente della Pop Art.
Affascinata e influenzata dalla cultura beatnick, sin dagli esordi, Rickie Lee Jones assimila riferimenti e anche alcune posture, proprio quando la scena musicale losangelina degli anni settanta ne riscriveva i parametri attraverso gli show e le performance su palchi come quello del Troubadour. Qualcosa di più dell’aura maledetta condivisa in quegli anni insieme a Tom Waits, perché profondamente vissuta, al di là di un consapevole filtro culturale.
Quell’iconografia è lontana e dal 1979 ad oggi, Rickie Lee Jones ha rivisto le radici poetiche e letterarie del suo percorso, pur mantenendo un metodo coerente in termini di scrittura e approccio. Trasferitasi a New Orleans in forma stanziale e in tempi relativamente recenti dopo averla frequentata per decenni, ha assimilato definitivamente lo spirito della città, accogliendone l’influenza diretta sulla sua stessa musica.
“The Other Side of desire“, il suo ultimo album di inediti pubblicato nel 2015 è il primo capitolo di questa nuova avventura. Finalmente fuori da una Los Angeles che non ha più niente del mito e ormai “invivibile”, Rickie Lee si avvicina ad una città che definisce come “Eccentrica”
“Come in tutte le isole – scriverà sul suo blog – le persone vivono giorno per giorno senza pianificare troppo le loro vite, affrontando le cose con quello di cui dispongono. Ho visto una città di persone che non cercano di evitare la pesantezza delle cose. E ho anche guardato negli occhi dei bambini, vedendo me stessa. Disperati e alla ricerca di una vita migliore bussavano alla mia porta chiedendomi se potevano pulirmi il cortile o buttarmi via la spazzatura […] la città ha condiviso tutto con me. La sua pace, le sue persone, la sua musica”
Kicks è il quinto lavoro di cover realizzato da Rickie Lee Jones. Il primo, pubblicato a inizio carriera dopo due album da studio, è il bellissimo “Girl at Her Volcano“, mentre l’ultimo prima di questo risale al 2012 ed è “The Devil You Know“, prodotto da Ben Harper.
La musicista nata a Chicago e cresciuta con il paesaggio dell’Arizona a far da sfondo ai primi tentativi con la musica, ha sempre riservato un ruolo fondamentale alla rielaborazione dei brani che hanno formato la sua scrittura, tanto da inserire lungo una nutrita discografia, omaggi diretti e indiretti ai musicisti e agli standard che ha amato. Blues, pop, Jazz, doo-wop, soul, folk sono le carte che la Jones ha manipolato con grande abilità, giocando una partita scoperta grazie alle sue grandi capacità performative, decisamente oltre i confini e le possibilità del pop convenzionale.
Kicks non è lontano da quel ponte tra musica e gesto d’amore di cui scrivevo nella recensione per “The Other Side of Desire“, proprio perché esce dalla “maniera” dell’omaggio, recuperando l’arte dello standard come una tavolozza possibile da riempire con le proprie contaminazioni. Registrato a marzo, vicino ai giorni del Mardi Gras cittadino, coinvolge un gruppo di musicisti locali che le hanno consentito di radicarsi nei suoni e nella cultura della città per esplorare nuovamente l’artigianato più puro della canzone popolare. In questo senso mantiene un contatto ancora vivo con la migliore estetica pop, quella che riesce a bilanciare le esigenze autoriali con la ricerca della forma; quasi per rivendicare il suo sentirsi diversa dall’elitarismo cantautorale della generazione precedente, quella di artisti come Joni Mitchell, Laura Nyro, Jackson Browne. Consapevolezza che le ha consentito durante quaranta anni di carriera di sperimentare, forzare i limiti formali, così da uscire velocemente dal conforto offertole da un successo istantaneo ed esplosivo.
“Rickie Lee Jones“, il suo primo album, esce nella primavera del 1979 e ottiene subito un Grammy come miglior esordio, si piazza al terzo posto nella classifica Billboard dei migliori 200 album e al decimo per quanto riguarda la top 100 dei singoli, con “Chuck E.’s in Love“, il brano tra finzione e realtà, frutto dell’amicizia e degli anni condivisi al Tropicana Motel con Chuck E. Weiss e l’allora amante della musicista americana, Tom Waits; un triangolo che oltre al “romanzo”, conduce Rickie Lee verso conseguenze autodistruttive.
Quattro mesi dopo il debutto, Rickie Lee è sulla copertina di Rolling Stone; sarà la prima di una lunga serie di scatti per la rivista americana e il segno di una relazione proficua, spesso spregiudicata, con l’immagine.
Non è un caso che l’appellativo di “Duchess of Coolsville” arrivi proprio da Time Magazine dopo l’esibizione di “Chuck E’s In Love” al Saturday Night Live.
Per promuovere l’album viene scelta la via del promo video, due anni prima del lancio ufficiale di MTV. “Coolsville trilogy” include “Coolsville”, “Young Blood”, e “Chuck E’s in Love”, per una durata complessiva di quasi 13 minuti.
La struttura è quella dei primi Jazz films degli anni ’30 tra performance e storia minimale e a dirigerlo è Ethan Russell, fotografo di talento attivo dagli anni sessanta, che proprio tra il 1978 e il 1979 decide di sperimentare in modo pionieristico con i video musicali. Dopo aver realizzato gli artwork per The Rolling Stones, Beatles e Who, Russell contribuisce alla creazione di un’icona tra finzione e realtà, descrivendo un’elegia notturna che attinge in parte dagli interessi poetico letterari della Jones, alternando la performance dei musicisti alle immagini di una Los Angeles notturna.
Tutti gli stereotipi dell’icona beatnick, sigaretta e berretto inclusi, espandono il dialogo tra l’artwork dell’album e i promo video diffusi durante la promozione del 1979, ma allo stesso tempo riassumono la vita selvaggia e lo spirito libero della Jones, sin dal primo apprendistato, quando nel 1975 viveva nel vecchio quartiere beatnick di Venice, facendo la cameriera e suonando al Suzanne’s.
Al centro del video, la città come organismo pulsante, ricco di possibilità, ma anche di cicatrici, così come emerge dalle liriche
City will make you mean But that’s the make-up on your face Love will wash you clean in the night’s disgrace
Rickie Lee accentra lo sguardo e indirizza la macchina da presa, anche quando esce dal set per mostrarcelo. Quell’indomita energia erotica che Chuck E Weiss sperimenta quando per la prima volta nel 1977 la vede esibirsi al Troubadour, si attiva nuovamente nelle sue smorfie da bambina dispettosa, nell’indolente sfrontatezza davanti al microfono, nel suo deambulare senza soluzione di continuità tra la scena e la città.
“Mai avremmo pensato di dover rimandare il nostro appuntamento non una, ma due volte. La sicurezza di tutti rimane però l’assoluta priorità, e desideriamo garantirvi la migliore esperienza di festival possibile, quando la situazione ci permetterà di riunirci ancora.”
Con queste parole Live Nation Italia annuncia che Firenze Rocks tornerà nell’estate 2022 e si terrà nel capoluogo toscano dal 16 al 19 giugno alla Visarno Arena.
L’organizzazione di eventi che prevedono grande affluenza di pubblico è evidentemente ancora impensabile. Mentre in Germania il rafforzamento dell’Infection protection Act discusso e recentemente inasprito dal Bundestag, costringerà la Berlinale ad organizzare un probabile evento all’aperto per la già annunciata selezione estiva, le sale cinematografiche e i teatri tedeschi rimarranno sicuramente chiusi fino alla fine di Giugno per contrastare l’aggressività e la contagiosità delle varianti SARS-CoV-2.
In Italia, la timida riapertura degli spazi culturali pone una serie di problemi logistici e organizzativi non indifferenti, a partire dal discusso coprifuoco che consentirebbe il funzionamento di una minima parte di esercizi.
I grandi eventi, oltre ad una filiera lavorativa da tutelare, si portano dietro un modello che sembra difficilmente sostenibile di questi tempi.
(foto articolo: Archivio Pexels, utilizzo gratuito senza attribuzione. Autore: Dom Gould)
Se non si analizzano le questioni di genere in modo trasversale, si rischia di negare pluralitá di posizioni e ambiti storico temporali completamente diversi. Prendiamo il termine “femminismo”, assolutamente vago dal punto di vista teorico perché ricchissimo e denso. Si preferisce infatti parlare di “femminismi” per favorire la stratificazione, l’interdisciplinarietà, le culture, i luoghi e le possibili intersezioni. Lo stesso vale per tutte le questioni inerenti le comunità gay, lesbiche, bisessuali, transgender, intersessuali, bisessuali, queer accolte sotto l’ombrello in continua espansione LGBTIQ.
I video di Acquasintetica realizzati per i pugliesi Inude, uno dei quali (Shadow of a gun) è stato scelto da Michele Faggi per l’innovativa sezione dedicata ai video musicali, che cura da tre anni per Asolo Art Film Festival (ndr. Ancora attivo fino al 30 di aprile il bando per iscrivere le proprie opere all’edizione 2021, inclusa la categoria “music video”, ci si iscrive attraverso questa pagina su Film Freeway) , declinano parte di quella cultura risignificando alcuni stereotipi di genere e traghettando nello spazio sincretico del videoclip elementi conosciuti della cultura pop, che vengono ricontestualizzati.
Indie-eye è da tempi non sospetti interessato alla definizione di LGBTIQ come galassia in espansione, le cui qualità non sono recintabili (n.d.r. consulta la sezione LGBTIQ cinema) e dobbiamo ammettere che il lessico di Acquasintetica è tra i più stimolanti in questo senso, capace com’è di attingere al serbatoio di tutta la cultura pop, per disseminare una nuova percezione dei processi identitari attraverso i codici della comunicazione di massa: advertising, visuals, teaser, videoclip.
Gianvito Cofano, che insieme ad Alberto Mocellin condivide il progetto Acquasintetica, spiega molto bene questo processo nell’intervista in cui ci descrive il making del video realizzato per Bautista. I colori dell’animazione giapponese di massa, amplificatori del sentimento e delle identità dei personaggi, diventano parte di una nuova sinestesia che informa da una parte il genere videoclip come espansione (ma anche contrazione) della performance musicale o del musical come incubatore di segni. Dall’altra generano un cortocircuito con quello che siamo abituati a percepire, allargando i termini di relazione tra segno e senso.
Il video di “una buona storia” è uno dei più interessanti del momento tra quelli prodotti in Italia, perché elabora, finalmente, un vero e proprio linguaggio di sintesi che assolve la funzione promozionale, uscendo, allo stesso tempo, dai codici “alla moda” dei videoclip che si producono nel Belpaese. Diventa quindi un “testo” complesso, sospeso tra le istanze della videoarte e un superamento delle asfissie accademiche in cui questa è pericolosamente precipitata da qualche decennio.
In termini tematici, aspetto che ci interessa relativamente e che lasciamo a chi se ne occupa male o peggio rispetto a quello che potremmo fare se solo volessimo raccontar storielle, il nuovo singolo di Bautista, duo formato dal produttore italiano Machweo e dal cantante peruviano 999asura, definisce un racconto di perdita, legato all’entropia di un percorso relazionale. Anche questo, a ben vedere, viene raccontato con le scorie, i segni, le interpolazioni, gli innesti della cultura pop, come da vecchia tradizione che dalla black music ci ha condotto all’hip-hop fino alle recenti declinazioni “spoken”.
La strada come eterotopia e spaziotempo possibile, e quindi la tessitura lirica come definizione di un segmento potenziale, tra meme, citazioni, frammenti di cultura popolare.
Ecco allora che l’identità dei soggetti narrativi non viene più definita né orientata secondo coordinate sessualizzate, perché chi perde cosa o chi perde chi rimane nel regno delle possibilità.
Questa arte combinatoria gli Acquasintetica la interpretano con moltissime stratificazioni, inclusa la commistione tra purezza e perversione, sangue e santità, colore e luce che sembra rileggere la cultura visiva di Derek Jarman, grande autore di cinema libero ma anche di videoclip non conformi alle regole. Buona Visione.
Bautista – Una Buona Storia, il Making of del video di Acqusintetica: l’intervista a Gianvito Cofano
Cominciamo dall’inizio, la collaborazione con Bautista.
I Bautista ci hanno contattato perché gli piacevano i nostri ultimi lavori per gli Inude (i videoclip di “Ballon” e di “Shadow of a gun”). Ci siamo incontrati per un bicchiere di vino e abbiamo chiacchierato un sacco di tantissime cose, soprattutto di anime, di cui siamo tutti molto appassionati, sia noi che loro due.
Cosa vi piace degli anime?
L’amore con cui negli anime vengono narrate emozioni e fragilità e di elementi che tornano spesso, come ad esempio il cambiare colore di capelli per raccontare la trasformazione spesso causata da uno stato di sofferenza; basta pensare banalmente alla prima trasformazione di “Dragon ball” o a “Tokyo Ghoul” o a tanti altri cult dell’animazione giapponese.
In che contesto avete condiviso questi stimoli?
Tutte queste chiacchiere le abbiamo fatte a casa loro, una casa che, essendo semi interrata, aveva poca luce da finestre e molta luce da schermi, una cosa che ci ha molto colpito perché abbiamo parlato di anime che spesso sono rappresentazioni di mondi interiori, che guardiamo tramite uno schermo. Ci piaceva molto l’idea che uno schermo fosse una finestra sul dentro.
Nei vostri video sembra che ci sia un costante interrogarsi sulla ri-mediazione delle immagini, schermi che ne incorporano altri, ma anche una dimensione post-pittorica che estende il colore nella dimensione elettronica. Quali sono i vostri riferimenti?
La cosa bella dei videoclip è che possono essere tutto, non ci sono confini, si fa un po’ quel che si vuole e si sente. I nostri riferimenti arrivano molto banalmente dai maestri di questo mondo, Jonze, Glazer, Cunningham, ed ovviamente Gondry, che più di tutti non si è mai posto limiti tecnici per raccontare quello che gli pareva, non l’ha fatto neanche quando ha iniziato a fare cinema, ha portato con sé tutto.
Potete raccontarci la realizzazione tecnica del video. Dove l’avete girato e con che tipo di allestimento?
Il video l’abbiamo girato allo Ientu Film, uno studio in Salento, in un piccolo paesino che si chiama Depressa. Ci abbiamo montato all’interno un grande ledwall e insieme a Fabio Tresca, lo scenografo, abbiamo allestito la camera da letto dei Bautista. A parte i contenuti all’interno dello schermo (girati e montati prima) abbiamo girato tutto li, seguendo il nostro storyboard al dettaglio.
Molto bella la sezione in stop motion che utilizza un particolare impiego delle luci. Potete raccontarcela?
Abbiamo semplicemente fatto saltare Aaron più o meno un centinaio di volte (sorride) . Il lavoro sulle luci in parte è reale, a causa dei flare ottenuti dalle luci puntate in camera, in parte è implementato in post produzione. Volevamo valorizzare un pezzo del testo che troviamo veramente bellissimo, uno sfogo sulla stanchezza emotiva che ti fa sprofondare, la maestria nell’uso delle parole per raccontare sensazioni così intime è sinonimo di grande consapevolezza, per noi non c’era modo migliore che farlo volare. Lo stop motion è consapevolezza, è una magia di cui tutti sanno il trucco, e nonostante questo rimane magica.
Progetti per il futuro?
Stiamo per girare un cortometraggio, non vi diciamo nulla, tanto lo vedrete tra qualche mese!!
Stereonotte era un amalgama unico. Nel palinsesto di Radiorai, ma anche in relazione all’evoluzione delle Radio Libere, fino all’interconnessione dei network che si affacciavano sull’intero territorio nazionale. Unico si diceva, perché arrivava dopo l’attenta osservazione di quell’esperienza privata e selvaggia che caratterizzò la modulazione di frequenza dopo il 1974. La creatura di Pierluigi Tabasso, a partire dal 1982, capitalizzava quella rivoluzione disordinata, offrendo argini narrativi ben precisi, senza porre alcun confine. Questo equilibrio tra forma e sperimentazione, lo spiega bene Carlo Massarini nella sua prefazione al libro curato da Giampiero Vigorito e dedicato al programma trasmesso a reti unificate.
Quello che esisteva prima di Stereonotte era una ricerca, spesso arditissima, dell’interstizio e del possibile, ovvero la definizione di uno spazio “altro” dedicato alla musica, capace di aprire lo sguardo su territori sonori ancora inesplorati e sospeso tra l’interesse crescente degli ascoltatori e la diffidenza delle strutture Rai.
Tabasso, come racconta Marilisa Merolla nel suo fondamentale contributo, osserva altri fermenti, assimila la lezione delle radio straniere e trasferisce sul progetto una vastissima esperienza, inclusa quella più sperimentale di Radio Tre affidata alla direzione di Enzo Forcella.
In parallelo al lancio di Rai Stereo Uno e Rai Stereo Due nasce Raistereonotte, la copertura di un’amplissima fascia notturna fino alle sei del mattino. Un format esteso, libero, ma ogni volta ritagliato sulla personalità, competenza e capacità di visione dei numerosi conduttori che si sono avvicendati in questa straordinaria avventura sonora e narrativa.
Che si sia trattato anche di forza e seduzione del racconto è chiarissimo dal modo in cui è stato organizzato il volume in oggetto. Un insieme di testimonianze e di frammenti assemblati seguendo l’andamento di un documentario, dove l’unica possibilità di avvicinarsi ad una ricostruzione fedele di quell’esperienza, passa attraverso la narrazione di un frammento, il ricordo di una risonanza, l’idea di conduzione come piccolo, grande rituale sciamanico.
I due contributi per ogni conduttore, danno corpo ad un ricordo della radio e ai riferimenti musicali legati a preferenze, brani trasmessi, nuove sonorità da condividere. Ma è proprio la “rimessa in scena del vissuto” a creare una vera e propria mitopoiesi degli anni migliori di Raistereonotte, con un’aneddotica vitale, divertente e alla ricerca della commozione intesa proprio come movimento collettivo.
Tra gli ascoltatori che riconoscono improvvisamente una delle voci notturne e il dialogo che si instaura tra colleghi, tecnici, figure di passaggio nella notte o in una birreria senza nome, l’energia connettiva è sempre quella della narrazione musicale.
Nell’ipotesi che le nuove forme del racconto “on demand”, perdano consistenza proprio a causa di una ripetibilità statica, l’idea di potersi sintonizzare con un flusso di energia istantanea ed irripetibile, è emozionante come l’esperienza delle storie a veglia. Perché nella relazione collettiva e personale con il DJ, ci si affida ad un narratore che gioca con il tempo e con il concetto di durata con un rimario ogni volta diverso, sorprendendoci al di qua delle aspettative possibili.
Il lavoro di tessitura compiuto da Vigorito è davvero emozionante sotto questo punto di vista, perché consente di farsi un’idea del flusso nonstop di Stereonotte grazie alla frammentazione episodica e individuale del “programma” che ciascun conduttore aveva nel cuore.
Si racconta quella radio, dal 1982 al 1995, che non esiste più per intensità e scambio, dove la relazione con l’ascoltatore era un gioco alchemico tra prossimità e distanza, senza quella necessità di svelamento che ha reso pericolosamente concentrici i mezzi di condivisione di massa. Quei suoni e quelle voci davano corpo alla dimensione inabitabile della notte, più lieve per chi voleva viversela.
Chi era in ascolto, leggendo queste pagine potrà fare un salto dalla parola al suono, chi non c’era, immaginarsi più libero dalla dittatura degli algoritmi.
Raistereonotte -Il Libro – A cura di Giampiero Vigorito (Iacobelli Editore 2020) Prefazione: Carlo Massarini Contributi: Luca De Gennaro, Marilisa Merolla, Fabrizio Stramacci, Gaetano Barresi, Govanni de Liguori, Ernesto Assante, Marco Boccitto, Stefano Bonagura, Giuseppe Carboni, Alberto Castelli, Luciano Ceri, Marco Cestoni, Massimo Cotto, Carlo De Blasio, Patrizia De Rossi, Teresa De Santis, Emiliano Li Castro, Felice Liperi, Stefano Mannucci, Massimo Mapelli, Max Prestia, Alex Righi, Enrico Sisti, Fabrizio Stramacci, Ida Tiberio, Giampiero Vigorito, Il ricordo dei conduttori scomparsi, Il ricordo degli ascoltatori, I commenti dei personaggi famosi Editore: Iacobelli Editore Pagine: 320 + inserto colore di 32 pp Formato: 13,8 x18,6 Prezzo Consigliato: 19 Euro sul sito dell’editore
Giampiero Vigorito inizia la sua carriera giornalistica nel 1977, quando entra come collaboratore nella rivista musicale Popster. Per molti anni, dal 1983 al 1994, ha condotto RaiStereonotte, il programma notturno di Radio Rai. Nel 1981 è stato coautore per L’Enciclopedia del Rock di Teti Editore, ha pubblicato il libro Genesis con la Gammalibri nel 1982 e ha collaborato a La Grande Enciclopedia di Rockstar del 1987. Dal 1994 al 2001 ha diretto il mensile musicale Rockstar. In televisione è stato ospite di Quelli della Notte e ha collaborato ai testi per i programmi di Renzo Arbore DOC Offerta Speciale e International DOC Club. Dal 2001 ha presentato sulle tre reti radiofoniche della Rai trasmissioni come Radiouno Music Club, Zona Cesarini, Storyville, Fuochi, Baobab, Prima del Giorno, File Urbani, Passioni e Vite Che Non Sono La Tua. Nel 2012, in occasione delle Olimpiadi di Londra, ha scritto e condotto su Radio3 in 20 puntate il programma quotidiano Leggende Olimpiche; esperienza ripetuta due anni dopo con un ciclo di trasmissioni questa volta dedicato ai Mondiali di Calcio in Brasile intitolato Leggende Mondiali. Anche nell’estate del 2016, a ridosso delle Olimpiadi di Rio, ha ripreso il suo format Leggende Olimpiche su Radio3 in un nuovo ciclo di 16 puntate. Nel 2008 ha pubblicato per la Coniglio Editore il libro Burt Bacharach – The Book of Love. Nel 2014 ha curato il libro Xena Tango – Le Strade del Tango da Genova a Buenos Aires all’interno di un progetto musicale realizzato da Roberta Alloisio e il premio Oscar Luis Bacalov, pubblicato dall’etichetta Compagnia Nuove Indye. Dal 2013 è docente del Master in critica giornalistica dell’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma.
Le pubblicazioni che riguardano il percorso poetico, artistico e musicale di Patti Smith sono numerose e tra quelle disponibili in Italia, non è possibile tralasciare il lavoro attento e rigoroso di Tiziana Lo Porto che ha tradotto buona parte dei volumi scritti dalla stessa Smith, oltre alla biografia probabilmente più nota e diffusa, scritta da Dave Thompson.
Il lavoro di Patrizia De Rossi pubblicato recentemente per Diarkos si situa a metà tra il tracciato biografico e una lettura combinatoria della vasta produzione letteraria di Patti Smith. Una scelta intelligente e creativa che nel raccontare una storia apparentemente nota, cerca conferme nello scavo, anche interiore, della vicenda personale. Emerge, per esempio, una morfologia metropolitana che non sempre ha trovato spazio nelle ricostruzioni dedicate alla poetessa del rock, dove si rivela una relazione attiva, creativa e dolorosa con l’entità urbana. Sono le città a plasmarci oppure siamo noi a dar forma ai loro confini?
Deptford, New York, Parigi, Detroit, Firenze, Lisbona e moltissime altre città Europee, segnano la crescita e la definizione spirituale nell’arte della Smith. La De Rossi le racconta cercando di percepirne il fermento, la vitalità e anche la spaventosa oppressione cognitiva che possono generare.
Suddiviso in vere e proprie stazioni di viaggio, non necessariamente geografiche, il volume ripercorre l’ascesa e il successo dell’artista statunitense, cercando di definire gli elementi costitutivi di una poetica in costante movimento, eppure sempre fedele ai propri principi creativi.
Basta pensare ad un brano come “People Have the power“, forse uno dei più immediati e “commerciabili” tra quelli scritti dalla Smith, citato in occasioni alternative e con diverse prospettive analitiche da Massimo Cotto nella sua bella introduzione al libro e dalla stessa De Rossi, lungo il suo amorevole avvicinamento a Patti. Anthem rivoluzionario, occasione collettiva per riconoscersi, la rabbia che si trasforma in una marcia pacifica, oppure, aggiungo personalmente, un’affermazione, quasi zen, del potenziale spirituale insito in ogni individuo.
Centrale è anche il dolore, questa condizione inevitabile della vita che per Patti è propellente creativo, nella misura in cui il legame con le persone a lei più care e tutto l’amore donato e ricevuto, possono continuare a manifestarsi oltre la dimensione fisica, solo con l’ostinata necessità di ricerca attraverso la scrittura.
Rientra in questa necessità di “immediatezza”, soprattutto dopo la morte di Fred Smith, il ricorso alla fotografia istantanea. La De Rossi dedica un capitolo ai suoi lavori fotografici realizzati con la Land 250, una di quelle a soffietto prodotte fino agli anni ottanta. Vengono in mente i “polaroid diaries” di Linda McCartney, ma con l’intenzione chiarissima di sottrarsi alla tecnologia del tempo presente, mantenendo una flagranza completamente perduta con l’esplosione a venire dei dispositivi digitali. Patti si spinge idealmente verso il bianco e nero della dagherrotipia, cerca l’aura di persone e cose, mescola pubblico e privato con grande libertà creativa, mantenendo vicino a se l’urgenza presente del gesto punk come testimonianza attiva, traccia che può essere cancellata solo dall’azione del tempo e degli elementi.
Im-mediata, se non dalla mediazione della figura di Cristo, è anche la sua visione della religione, che la De Rossi ricostruisce con perizia attraverso interviste, dichiarazioni, stralci prelevati dai libri di Patti Smith.
Fuori dal rapporto coercitivo con le istituzioni, il dialogo di Patti con Dio è quello che emerge anche dal bellissimo “Song to Song” di Terrence Malick, una connessione accesa e ancora in fiamme con tutto l’amore che abbiamo potuto esprimere in vita; catena che è ben chiara sin dai versi esoterici e potenti di “Easter”.
Il volume percorre ovviamente tutte le tappe più importanti della produzione musicale di Patti Smith, dagli esordi fino alle “nuove suggestioni sonore” sperimentate insieme ai newyorchesi Soundwalk Collective. Lo fa comunque senza cedere ai pericoli del compendio o del resoconto esaustivo; qualsiasi tappa reagisce con un frammento poetico oppure una suggestione biografica evidenziata come se fosse un segno più importante di altri. Scrivere una storia è in fondo una relazione costante tra struttura e libertà e “Patti Smith. La forza della parola“, sin dal titolo, trova proprio in questa l’energia combinatoria per riscrivere un racconto conosciuto, come se fosse la prima volta.
Patti Smith – La Forza della Parola di Patrizia De Rossi (2021) Editore: Diarkos Collana: Ritmi Pagine: 336 Formato: 14.00×21.00 cm Legatura: Brossura Con alette Prezzo Consigliato: 18 EURO sul sito dell’editore
Patrizia De Rossi è nata a Roma, dove vive e lavora come giornalista, autrice e conduttrice di programmi radiofonici. Nel 2020 ha pubblicato il suo terzo libro su Luciano Ligabue intitolato “Re Start”. Nel 2014 ha scritto “Bruce Springsteen e le donne. She’s the one” un libro sulle figure femminili nelle canzoni del Boss. Nel 20212 scrive “Gianna Nannini Fiore di Ninfea”.
Amerigo Verardi, il videoclip di “Due Foglie” tratto dall’album “Un Sogno Di Maila”, pubblicato da The Prisoner Records lo scorso 12 Febbraio 2021. Regia TheDollMaker (Chiara Chemi)
Amerigo Verardi torna a cinque anni di distanza dal fluviale Hippie Dixit con un concept album che si muove intorno alla dimensione del sogno, territorio complesso che può interessare tanto la psicoanalisi quanto la ricerca esoterica. La figura centrale, Maila, attraversa un percorso che sembra influenzato dalla lettura delle Upaniṣad, osservata nelle sue numerose manifestazioni tra vita, morte e successive rinascite. Il confine tra realtà e finzione letteraria, autobiografia e invenzione mitopoietica diventa sottilissimo, mentre la ricchezza del tessuto sonoro prepara continue entrate ed uscite da numerose tradizioni musicali, quasi che Verardi le avesse incorporate al di là di una dimensione prettamente culturale e maggiormente rivolta all’ascolto interiore. Come era successo per “Due sicilie“, Verardi torna a collaborare con TheDollMaker, ovvero Chiara Chemi, videomaker di talento legata all’ambiente bolognese, che abbiamo ospitato varie volte su indie-eye videoclip. Le abbiamo chiesto di raccontarci la lavorazione del video di “Due Foglie”, primo estratto da un album concepito per un ascolto continuo e immersivo.
Chiara, rispetto ai tuoi video precedenti, mi sembra che tu abbia trasposto il mondo cromatico dei lavori più grafici all’interno del set. Puoi raccontarci il motivo di questo passaggio ad un set più tradizionale e il modo in cui mantieni ancora un contatto con la tua arte?
Una dicotomia definitiva del mio immaginario su medium diversi sarebbe impossibile. Ogni mezzo consente di plasmare la materia in nuove forme, offrendo svariate possibilità di sperimentazione tecnica e narrativa; ma il core, il DNA allegorico, è la costante che caratterizza uno stile e una poetica. Due Foglie si è sviluppato su un set più tradizionale, cinematografico, perché Un grande sogno di Maila, l’album di Amerigo, è praticamente un film, un trip lucido.
In che senso un trip lucido e soprattutto puoi raccontarci la genesi del progetto?
Quando Amerigo mi fece ascoltare il pre-master, avevamo entrambi la visione di trarne una trilogia di videoclip incentrati sul personaggio di Maila; progetto che purtroppo è stato ostacolato dall’attuale situazione epidemiologica. Dal punto di vista semantico, un linguaggio relativamente più ”canonico” è il mezzo per narrare la fantasia riguardante un personaggio dotato di umanità inserito in un contesto narrativo; in parole semplici, un set che simula un’idea di realtà la rende reale sotto un aspetto fenomenico, preservandone però la magia dell’immaginazione, poiché appunto, la narrazione non coincide totalmente e pragmaticamente con eventi ed elementi del mondo tangibile.
Ovvero?
La presenza di fondo del mondo fenomenico nell’atto della simulazione è icastica e necessaria alla rappresentazione di una dimensione ubersensoriale, trascendente, come il mood dell”album, che ha ha le atmosfere di una profonda sessione di meditazione, di un trip dell’anima o di un viaggio astrale, con una simbologia ben precisa appartenente al mondo dello spiritualismo e delle culture orientali.
Puoi raccontarci qualcosa del personaggio di Maila?
Era necessario aggiungere corporeità al personaggio di Maila; la sua presenza, come manifestazione di bellezza e sensibilità femminile, avrebbe perso poesia se inserita in un delirio alterato di intuizioni. Per esistere nella sua dimensione onirica , necessitava di uno spazio da trascendere per affermare la sua qualità di essere quasi assoluto, di simbolo, in un mondo fisico ma piegato a una visione, quindi ancora indefinibile e incollocabile. È dunque un immaginario pregno di simbolismo, anche cromatico. Per ricollegarmi alla tua prima domanda, è soprattutto in queste qualità che emerge la coerenza con i miei altri lavori, in primis quelli pittorici.
Anche il mondo “creaturale” del video mantiene una connessione con quello che hai sempre fatto, è così?
Sono sempre stata attratta dai “Mostri”, dal deforme, come icone di una parte interiore, non necessariamente negativa, che non riusciamo a esorcizzare o identificare e che può essere anche uno strumento di ribellione, intesa come rifiuto-decostruzione e ricostruzione; ma anche Mostri come mutazione, dell’inconscio, del pensiero, del mondo in relazione al nostro sentire e divenire e viceversa. In ambito pittorico e poetico ne ho fatto un nucleo a proposito della concezione sociale di femminilità e della sua negazione-abnegazione. Tutti questi sono microtemi incarnati da Maila, protagonista dell’album, una ribelle che travalica i confini di genere, corpo, spazio, tempo. Nel contesto specifico di Due Foglie le creature sono simulacri, residui di vite passate, inermi in un limbo spirituale, che può essere un locum di evoluzione tra morte e nuova vita, una dimensione della coscienza o altro, senza circoscriverlo in un campo interpretativo. Il fatto che siano delle vere e proprie opere d’arte ha un significato ben preciso: non esisteva simbolo più adatto a rappresentare l’elusione della morte effettiva e dell’oblio, la memoria e la perpetua rinascita o il legame tra anime. Sebbene ogni immagine nel video nasconda dei valori emblematici, il mondo creaturale è anche l’elemento con maggiore varietà d’interpretazione, la cui ambiguità è il linea con la mia visione e con la simbologia dell’album: la cripticità rinnova ciclicamente la vita di un’opera. Le interpretazioni univoche e determinate rischiano di essere frutti maturi destinati a marcire in fretta sotto raggi troppo intensi. Ovviamente l’enigma perde valore artistico se si esclude la potenza del sentimento. È una metafora che può adattarsi bene all’iter di un’anima.
“Due Foglie” – Making of – Gallery – seleziona un’immagine per attivare il lightbox
Chi ha realizzato le sculture del video?
Le sculture sono state realizzate dai geniali artisti di Mutonia (Santarcangelo di Romagna ), citati tra i crediti. Tutta la location è molto in linea con il mio ambiente e quindi il mio immaginario, quello un po’ punk un po’ bohème dell’underground bolognese, in cui, fino a tempi recenti, ho trascorso i primi anni fondamentali della mia crescita artistica che, dopo la scuola di cinema biennale, è stata autonoma e libera, “ per strada”.
Ovviamente questa non è la prima volta che collabori con Amerigo. Che tipo di interazione e sviluppo del progetto avete messo in gioco?
Collaborare con Amerigo è sempre un onore e uno stimolo immenso. Quando, parlandomi del bando di Puglia Sound, mi disse di aver già comunicato il mio nome come eventuale autrice dei videoclip per Un Sogno di Maila, mi sentii lusingata e colma di idee. Credo che abbia pensato a me, oltre che per il pre-esistente rapporto di collaborazione, anche perché come giovane donna avversa agli schemi avevo più possibilità di raggiungere un’intesa totale con Maila e con l’estetica della sua musica, così intrisa di armonia femminile e di simboli. In passato Amerigo mi aveva già parlato di spiritualismo e della sua visione, che permea la sonorità è le liriche dell’album, perciò scivolare nel suo mondo è stato un evento totalmente spontaneo. Come sempre mi ha lasciato carta bianca.
Hai avuto modo di avvicinare la filosofia che attraversa il lavoro di Amerigo?
Ho approfondito le filosofie a cui si ispira. Seppur io non sia vicina a nessun credo o a forme di spiritualismo, sono sempre stata affascinata dalla poesia di alcune teorie; quella della reincarnazione e rinascita, per ragioni personali, mi ha sempre incuriosita. Mi piace pensare che, tramite una memoria ancestrale, nel nostro codice genetico si preservino e tramandino informazioni mentali di vite precedenti, a livello neurale. Da un punto di vista più poetico, immaginare una ciclicità della vita , la reincarnazione, la metafora di un filo rosso del Fato attorno cui la nostra volontà di potenza tesse le nostre vite, sono immagini di profondo lirismo. Il video di Due Foglie si sviluppa attorno a questo sentimento.
Puoi dirci qualcosa del casting e della protagonista del video?
Flora Zeng è un’artista dalla ricettività unica. Anche lei sta vivendo la sua formazione a Bologna, studia presso l’ Accademia di Belle Arti. Da tempo volevamo collaborare e ascoltando l’album ho subito pensato a lei, perfettamente in simbiosi con lo spirito ribelle ma eufonico di Maila. Anche in questo caso la presenza di un’artista, e quindi di arte, ha valenza simbolica. Ci sono diverse affinità tra i nostri universi creativi e umani: entrambe siamo affascinate dal perturbante e dalla trasgressione, restando però innamorate della Bellezza e della gentilezza, dell’Armonia. L’arte di Flora è stata fondamentale; lei è capace di un transfert totale con l’immaginario e con il personaggio, in questo senso è un’anima che trasla tra corpi e cose e le rielabora secondo la sua personalissima visione. Inoltre anche lei ha esplorato ogni ambito creativo, nel suo caso focalizzandosi sulla ricerca pittorica e performativa, indagine che traspare in maniera evidente dai costumi che indossa nel video, opere da lei stessa concepite e realizzate (e così in linea con il mio universo visivo). L’essenza del suo percorso artistico traspira anche dalla grazia e delicatezza delle “danze dell’anima”. L’azione della stessa performer per entrambe i ruoli era importante ai fini di una pluralità esegetica. Anche il lavoro tecnico di Alessandro Mainetti e Luca Morselli, dop e operatori, è stato di vitale importanza per la riuscita delle atmosfere.
“Due Foglie” – Making of – Gallery – seleziona un’immagine per attivare il lightbox
Il casting come è stato svolto e come hai trovato la protagonista?
Nel momento in cui concepisco un video, che di solito coincide con l’esperienza del primo ascolto, mi lascio ispirare esclusivamente dalla musica e dalle parole, dove vi sono; cerco di cogliere senza filtri la folgorazione emotiva e suggestiva. Non presto molta attenzione a stimoli esterni per non viziare il mondo del brano e degli autori, né il mio sentire, con l’immaginario di terzi; ma sicuramente la cultura visuale relativa alla mia antecedente ricerca è radicata a livello inconscio. Dopo la prima visione del video, Amerigo mi disse che gli ricordava la poetica di Kim Ki-duk, scomparso poi pochi giorni dopo; sebbene io sia molto distante dai livelli del Maestro, dopo quel commento gustai di nuovo a distanza di anni alcuni suo capolavori, realizzando quanto mi avesse rivelato quando, da ragazzina, scoprii il suo cosmo iconologico di poesia crudele, dipinto con un tratto semplice e netto sulla pelle degli attori.
Come hai lavorato in regime di lockdown e più in generale cosa ha rappresentato per te, come creativa, questo lungo e difficile periodo che non sembra giunto alla fine?
Ho mosso i miei primi passi senza soldi e mezzi, sperimentando no budget, poi per parecchio tempo con piccole somme; e ne sono lieta, perché è stato fondamentale per apprendere e sfruttare ogni condizione come occasione di invenzione. Ovviamente il periodo storico attuale è piombato disastrosamente come un enorme meteorite nel mezzo delle strade di tutti; fino a Marzo 2020 avevo intrapreso un percorso tra gallerie d’arte con progetti per festival, e le richieste di videoclip da band interessanti fioccavano. Ora i giovani artisti non possono presentarsi ed esplorare l’ambiente durante le vernissage e il settore musicale “alternativo” è in stand-by, qualche video invece è saltato causa lockdown. Però, ad esempio, senza la prima quarantena il video per Podio dei Solaris non sarebbe stato un lavoro d’ animazione; avrei continuato il mio percorso tra le mostre, ma non avrei avuto modo di scoprire nuovi ambienti e ruoli e approfondire la parte tecnica nel mio attuale lavoro in una produzione lontana di miei standard estetici. Il punto è che, per quanto si tratti di una situazione ascosa e terribile, la passività è la resa della creatività: l’esistenza è fatta di azione e re-invenzione. Per restare in tema con Due Foglie, dobbiamo procurarci la nostra rinascita, e questa dovrebbe partire proprio dall’arte, per antonomasia il settore della novità, delle rotture con il passato. La mente umana è malleabile, i mezzi della società liquida consentono l’impensabile e l’umano è una creatura fatta per adattarsi, siamo l’uomo carente di Gehlen. Bisogna accettare la nostra versatilità e l’instabilità della realtà.
Atto Seguente è il moniker di Andrea Vernillo, ma anche la sigla di un progetto musicale che si lega a processi narrativi ben precisi. “Where i am” è il secondo singolo dopo “Open” ad anticipare “The Moment Before“, Ep in via di pubblicazione per l’etichetta Dirty Beach. Le sei tracce dell’album sono legate alla figura del Soccombente, personaggio in cerca di un’identità o di una storia, proprio nel momento in cui deve affrontare un possibile risveglio. A dirigere il video di “Where i am”, troviamo Chiara Rigione, regista di talento di cui abbiamo già parlato diffusamente e autrice, tra le altre cose, del video di “Amore un Cazzo“, realizzato per Paolo Pietrangeli; per la redazione di indie-eye in testa alla top ten del 2020. Apparentemente vicino al lavoro precedente, in realtà “Where I am” porta avanti un discorso coerente e rigoroso su forme e materiali della documentazione, aggiungendo un passaggio ulteriore alla ricerca. “Ho utilizzato VHS di famiglia degli novanta appartenenti ad Andrea Vernillo – ci ha detto Chiara Rigione – aggiungendo alcune riprese realizzate appositamente per lui, utilizzando una videocamera sony Hi8, questo per creare una continuità tra i due stati, passato e presente, come se in qualche modo le immagini venissero riscritte sullo stesso nastro dei vecchi filmati“
Un approccio davvero interessante che ancora una volta interroga la nostra relazione con la memoria, attraverso i dispositivi.
I nastri cancellati, le immagini inattese che emergono dal rumore bianco delle VHS, gli slacci e la materialità del montaggio, la fragilità del supporto, spalancano una riflessione sul tempo come se fosse una sequenza di cicatrici. Se con le immagini digitali abbiamo perso qualcosa, attraverso il processo di perfezionamento della definizione, questo è proprio l’indicibile, l’impermanenza, la possibilità che da una cassetta smagnetizzata possa emergere un rimosso. Il digitale subentra nuovamente come possibilità combinatoria, legata alla manipolazione del tempo e nel caso di “Where I am”, ad una sinestesia tra musica e tempo dell’immagine che Rigione raggiunge attraverso i piccoli difetti dei nastri analogici, utilizzati in direzione creativa e per creare vere e proprie cellule ritmiche.
Il movimento circolare che nel racconto di autocoscienza giunge a rivedersi e rivedere le proprie origini “è una presa di coscienza”, ha aggiunto Chiara: Il font utilizzato per i titoli è quello tipico dei filmati in vhs, ho “marcato” con where I am tutte le immagini ex novo per distinguerle da quelle del passato che talvolta riportano anche la data. Ma lui è davvero lì in quelle immagini oppure è altrove? Il montaggio così frenetico, compulsivo e a tratti insostenibile voleva rendere quella ricerca e quello smarrimento più evidenti. Cosa troviamo e cosa smarriamo cercando?“