sabato, Novembre 30, 2024
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Lux vivens – Jocelyn Montgomery e David Lynch: il fuoco vivo del rito

“Le piace?”
“Si”
“Ma capisce le parole?”
“Bé, quando suonano quelli, nemmeno una…”
“Dunque le piace la musica o le parole?”
“Veramente la musica…”
“E se ci fossero, su questa musica, altre parole, le piacerebbe lo stesso?”
“Certo!”

Tra i brevi scambi di battute che l’Unità del 28 aprile 1966 riporta all’indomani della prima Messa Beat allestita a Roma presso la Sala Borromini, le risposte donate da una spettatrice interpellata “a caso”, infrangono le pie illusioni del Concilio Vaticano II con sole undici parole.

Messa Beat, rinnovamento di massa

Giacomo Lercaro, allora presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, definiva la Messa ye-ye come espressione di “quel senso religioso che resta nel fondo dell’anima“. Nei suoi foglietti di meditazione, scritti tra il 1958 e il 1973 rivelava di averne abbastanza dei “concerti liturgici, delizia dei tradizionalisti, destinati ad ascoltarsi seduti, sventolando graziosamente i ventagli del primo Ottocento“. Al cardinale, in accordo con lo spirito riformista del Concilio, stava a cuore la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia, azione che “I capelloni – figli prodighi, stanchi di stare con i porci – lo fanno come sanno“.

Nelle brevi considerazioni tratte dai diari privati di Lercaro, c’è quell’epiteto dispregiativo che serviva a circoscrivere grossolanamente la questione giovanile. Il disprezzo viene immediatamente mitigato da un abbraccio paternalista. Si cerca quindi di agganciare la lingua comune del beat, brodo di coltura della canzone politica, per sollecitare un nuovo interesse del popolo e ridurre la separazione tra vita quotidiana ed esperienza liturgica. Un terremoto sociale ed estetico che cancellerà ogni possibilità di ricerca interiore, imboccando direzioni eterogenee, ma assolutamente convergenti. Dal repertorio dello stesso Marcello Giombini, musicista certamente scaltro e di talento, membro del Clan Alleluia e figura centrale della sbornia discografica confessionale in salsa beat, si arriva al cantautorato giussaniano di Claudio Chieffo, fino alla musica dei popoli che contaminerà il repertorio musicale dell’esperienza focolarina legata ai complessi GEN.

Il propellente che spinge verso il rinnovamento, parodiato ferocemente da Guido Morselli nel suo postumo “Roma senza Papa”, ma anche dal Gaber de “La chiesa si rinnova” con un bizzarro cortocircuito, contribuisce nella pratica a cementare l’idea collettiva e “dal basso” della liturgia. Sul piano musicale viene adattata la tradizione pop italiana con il filtro dell’esecuzione amatoriale partecipativa e talvolta inserendo tiepidissime imitazioni “sincopate”, prese in prestito dalla cultura afroamericana; quest’ultime sradicate e riprodotte senza alcuna possibilità di dar nuova vita a quella straordinaria possessione.

Messa Beat , S. Maria di Cafaggio (Prato), Contributo Istituto Luce 19-2-1969 – Guarda il Video

Sperimentazione? Purché sia vera arte

La costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, emanata dal Vaticano II, colloca ancora il gregoriano in una posizione centrale, ma tra altri generi di musica sacra, “purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica” e sviluppati secondo regole compositive che “possano essere cantate non solo dalle maggiori scholae cantorum, ma che convengano anche alle scholae minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli“.

Alle spalle, una lunga storia di riforme liturgiche radicata negli studi di Ecclesiologia di inizio Ottocento, dove si comincia a spingere sulla possibilità di introdurre la lingua corrente, fino al Motu Proprio di Pio X, con l’assemblea dei fedeli posta al centro della liturgia stessa. La restaurazione del Gregoriano, il cui abbandono era stato denunciato nel 1749 dalla Annus Qui Hunc di Benedetto XIV dopo un secolo di concertismo, è un vero e proprio recupero e rinnovamento del canto, elaborato grazie ai benedettini francesi di Solesmes nei primi anni del Novecento a partire dai manoscritti originali, fino alla Musicae Sacrae Disciplina di Pio XII del 1955: “Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa“.

Nella pratica, le Scholae monopolizzeranno il canto destinato alla liturgia, separando l’assemblea da un vero e proprio concerto. Il Vaticano II si incunea in questo contesto e con la già citata Sacrosanctum Concilium indica le caratteristiche ideali dei riti, animati da principi di semplicità, comprensibilità dei testi, facilità di esecuzione, partecipazione comunitaria.

La successiva Istruzione Musicam Sacram del Marzo 1967, firmata, tra gli altri, dall’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro, ribadisce gli stessi principi, sottolineando l’esigenza di sviluppare melodie in lingua volgare, ma con un percorso di assimilazione e sviluppo ben preciso, ovvero: ” un periodo di esperienza per poter raggiungere sufficiente maturità e perfezione. Tuttavia si deve evitare che, anche soltanto con il pretesto di compiere degli esperimenti, si facciano nelle chiese tentativi che disdicano alla santità del luogo“. Ci si riferisce, con molta probabilità, al fenomeno delle messe beat e alla concitata esecuzione de la “Messa dei giovani” di Giombini del 1966 presso l’Oratorio dei Filippini, di cui si accennava all’inizio, dove “sulla pedana gli esecutori si presentavano in varie fogge – scrive sempre l’Unità nel già citato articolo del 28 aprile – dal nero e argento dei Bumpers, al costume Sardo dei Barrittas, a quello verdognolo dei Brains. Grandi impianti di amplificazione, naturalmente, e tante chitarre elettriche simili a scimitarre. Hanno cominciato i sardi e nell’assordante “dum-dum-dum” dell’impasto, ricamato con rapidi mugolii delle corde alte delle chitarre, si poteva ascoltare di tanto in tanto il grido “…fu crocifisso” oppure “…tu che seduto stai – alla destra di tuo padre”. Difficile sentire altro“.

Marcello Giombini – Camminiamo Nella Speranza – Clan Alleluia – Pro Civitate Christiana 1970 (Artwork Originale)

L’Unità fa anche un resoconto del dibattito incorporato nell’evento, raccogliendo pareri contrari e favorevoli. Tra quelli che salutavano con interesse l’esperimento, Salvatore Marsili, presidente dell’Istituto Liturgico S. Anselmo e il domenicano Padre Gabriele Sinaldi, secondo il quale: “non si tratta di musica Sacra – riporta sempre l’Unità – Bisogna vedere, sperimentare con quale spirito i giovani d’oggi possano avvicinarsi alla liturgia […] naturalmente non bisogna giudicare le intenzioni, ma i risultati. Se questa musica è artistica, bene“. L’ultima frase riprende quel “che sia cioè vera arte” di Pio XII nella già citata Musicae Sacrae del 1955, quando scrive della possibilità di comporre nuove melodie, per le feste recentemente introdotte.

Sul solco di un’ansia di rinnovamento che ha radici molto lontane si alternano, talvolta in modo ambiguo, interpretazioni contrastanti. Lercaro, in fondo, è lo stesso che firma l’Istruzione del Marzo ’67, quasi un freno d’emergenza sui rischi introdotti dalle Messe Beat presto dismesse in termini di apparato, e che nei diari privati, come abbiamo ampiamente riportato, si esprime con toni ferocemente “progressisti” e forme diametralmente opposte, relegando il repertorio gregoriano nell’ambito del concertismo passivo.

La prassi gli ha purtroppo dato ragione, perché se al “wall of sound” elettrico del primo Giombini, si sono quasi immediatamente sostituite forme di accompagnamento strumentale minimali ed acustiche, brani come “Le tue mani“, “Gloria“, scritti originariamente per il progetto editoriale “Beat” del Clan Alleluia condiviso con la Pro Civitate Christiana, hanno allietato l’assemblea dei fedeli fino a poco tempo fa, con aggiornamenti irrilevanti sul piano del metodo e dell’approccio e soprattutto identificandosi, nella prassi popolare, con il repertorio della musica liturgica attualmente disponibile e praticato nelle chiese.

Allora, i “capelloni” diventavano parte attiva della liturgia come potevano e come sapevano, grazie ad un adeguamento del linguaggio alle sollecitazioni di una musica già massificata dal mercato, adesso le omelie Rap di Don Alberto Balducci, tra tenerezza e sconcerto, fanno parte della stessa illusione: barattare la ricerca interiore con un sistema accessibile di segni, per favorire aggregazione sociale.

La scomparsa dei riti, ovvero, democraticismo

Il rifiuto della “tradizione”, termine troppo spesso associato a pulsioni reazionarie, si salda con l’adesione a metodi, linguaggi e prassi di consumo già cannibalizzate, simboli depotenziati che negano lo spessore della storia simbolica. Nel suo rivolgersi direttamente al popolo, il punto di vista democraticista omologa ogni differenza servendosi di un apparato talmente piatto da diventare normativo e soffocante.

L’abiura del Canto Gregoriano, considerato ormai incomprensibile per la massa, interrompe la presenza del rito in Occidente, ma chiude anche una delle rare porte d’accesso all’esperienza ascetica, se pensiamo al modello di respirazione ritmica così vicina al metodo di meditazione esicastica.

Il sincretista Elémire Zolla, in una rara intervista rilasciata per TSI nell’ottobre del 1997, lo dice chiaramente: “[…] Si cantava il gregoriano, cioè si era immersi in una realtà ancora anteriore al cristianesimo: perché il gregoriano è musica romana, è musica ebraica, è musica greca, che si fondono in questa miracolosa creazione dei primi secoli. E quindi si adempivano certi gesti alle necessità del rito, […] distaccati dal momento presente

Un bozzetto ironico e preciso dell’incapacità di “uscire da sé” dell’assemblea dei fedeli postconciliare, lo disegnava Franco Battiato nella ferocissima Scalo a Grado, pubblicata nel 1982 all’interno dell’album “L’arca di noè”: “Ci si sente in paradiso / Cantando dei salmi un poco stonati“. L’accecamento definitivo della visione interiore.

Jocelyn West: sulle tracce di Ildegarda di Bingen

E talvolta, non di frequente, in quello stesso lume scorgo un’alta luce, che si è chiamata per me con il nome di luce vivente, della quale non so dire in che modo la vedo, e nel tempo in cui ne ho l’intuizione ogni tristezza e ogni dolore mi è cancellato dalla memoria, per cui sono allora nella condizione di una semplice fanciulla e non di una vecchia donna
(Ildegarda di Bingen, Epist. CIII)

Nell’autunno del 1996, Jocelyn West, allora sposata con Monty Montgomery, produttore che aveva già lavorato insieme a David Lynch, intraprende un viaggio lungo la valle del Reno insieme ad Heidrun Reshoeft, un’altra figura vicina all’artista di Missoula durante la lavorazione di “Wild at Heart”. Lo scopo è quello di visitare i luoghi dove Hildegard Von Bingen aveva vissuto e operato. La West segue il tracciato cronologico della mistica tedesca, a cominciare dalle rovine dell’Abbazia di Disibodenberg, dove Hildergard era stata educata sin dall’età di otto anni da Jutta di Sponheim, aristocratica ritiratasi in convento, prima di prendere i voti tra il 1112 e il 1115.

Da quei luoghi, il viaggio procede verso l’abbazia di Ebingen, uno dei due monasteri fondati da Hildegard, dove la West si esibisce davanti alle sorelle benedettine ogni mattina per un periodo imprecisato e con un repertorio scelto tra i canti composti da Santa Ildegarda.

L’idea di farne un album parte da questa esperienza e come racconta David Lynch in una lunga intervista sulla sua carriera musicale, rilasciata al Los Angeles Weekly nel gennaio del 2011, si concretizza grazie alla connessione con Monty Montgomery e ad una visita di Jocelyn nello studio Newyorchese di Artie Polemis. Lynch stava lavorando insieme ad Angelo Badalamenti ed è in questo contesto che la West, con il contributo del suo violino, si trova casualmente a cantare un brano scritto quindici minuti prima dal regista americano insieme al suo fedele compositore, Artie e la moglie Estelle.

La traccia, pubblicata più di dieci anni dopo come file FLAC dalla David Lynch Music Company, si intitola “And Still” ed è in un certo senso un banco di prova della collaborazione più strutturata tra Lynch e l’ex Miranda Sex Garden.

Dopo un accordo stipulato con la Mammoth Records, la lavorazione di “Lux Vivens“, l’album che Jocelyn Montgomery aveva progettato sui canti composti da Hildegard Von Bingen inclusi nella Symphonia armonie celestium revelationum (1151-1158), prende forma alla fine degli anni novanta come primo prodotto effettivo registrato agli Asymmetrical Studios di David Lynch.

Lynch si occupa della produzione artistica, mentre quella esecutiva è affidata a Monty Montgomery. In consolle c’è John Neff, che arrangia e suona i brani con Jocelyn, Lynch e Mark Seagraves.

Hildegard Von Bingen: la musica

Tra i numerosi talenti di Ildegarda, la composizione della musica occupa gran parte della sua vita. Il corpus delle sue composizioni ha assunto forma in una fase tarda grazie alla stessa, per favorirne la diffusione al di fuori del monastero. Una seconda trascrizione fu compilata poco dopo la sua morte, mentre la notazione utilizzata per il monastero, seguiva criteri meno formali e antecedenti al XII secolo, per ragioni funzionali all’esercizio quotidiano del canto. Se le due trascrizioni si servono della scrittura neumatica su tetragramma secondo le consuetudini della musica del periodo, la notazione utilizzata da Ildegarda per ragioni di velocità pratica era quella chironomica, forma costituita da piccoli segni stenografici, annotati solamente sul testo e senza rigo musicale.

La ricostruzione della sua musica attraverso i frammenti sarebbe stata impossibile, ecco perché tutte le interpretazioni e gli studi possibili sul corpus delle sue opere musicali vengono sviluppate a partire dal confronto delle due trascrizioni in nostro possesso. Mentre le strutture musicali costruite da Ildegarda sono organizzate su un telaio essenziale e rigido, difficile dire la stessa cosa sulle segnature dei tempi, assenti dalla notazione, tanto da lasciare ancora aperta la questione interpretativa legata al ritmo delle sue composizioni.

Non è affatto rigida la combinazione di variazioni che “muovono” la sua musica, perché sul numero limitato di tonalità utilizzate rispetto alle otto disponibili, applicava una gamma vocale amplissima, tanto da rendere l’esecuzione un compito arduo per qualsiasi interprete. Le gamme tonali servono ad Ildegarda per compiere una vera e propria sinestesia tra testo e musica, enfatizzando alcuni aspetti del primo oppure sottolineandone la drammaticità. In questo senso c’è una maggiore alternanza tra melismatico e sillabico rispetto alla musica corrente, laddove il melisma, al di fuori dell’uso comune nella composizione degli Alleluia, caratterizza la qualità trascendente della musica di Ildegarda, frutto di una connessione diretta con quella visionaria dei suoi testi.

Con grande capacità combinatoria mette insieme occhio interiore cosciente con una formazione teologica dove confluiscono gli insegnamenti di Plotino, S. Agostino, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Scoto e Ugo di San Vittore, per citare i principali che hanno avuto maggiore influenza sulle sue opere. Se quindi l’alternarsi di immagini, segni e strategie della scrittura modale, costruiscono di fatto una “sinfonia” di significati comprensibili solo ai suoi contemporanei, la musica muove vibrazioni tra natura e cosmo che possono essere trasmesse oltre la dimensione simbolico-liturgica.

Symphonia armonie celestium revelationum, la parola o il flusso

La qualità modale del canto gregoriano è totalmente in contrasto con la ricchezza cromatica della musica che siamo abituati ad ascoltare, tanto da suscitare un livello specifico di attenzione sulla fluidità ritmica che si muove con le sillabe, senza la necessità di comprendere “la parola”.

Senza voler forzare la mano enumerando le connessioni che possono esserci con differenti pratiche di meditazione, volevamo riferirci all’esperienza pratica di Marzia Da Rold, musicoterapeuta che si occupa anche della relazione tra musica e cervello in ambito neuroscientifico. Tra i pazienti che segue c’è una ragazza bellunese con Sindrome di Rett, malattia neurologica dello sviluppo che colpisce il sistema nervoso centrale e causa una serie di ritardi psicomotori gravi, oltre all’assenza di linguaggio.

L’intervallo di quinta utilizzato frequentemente da Ildegarda nella sua musica, spesso spinto fino all’ottava per ragioni sia descrittive che mistiche, quasi mai ornamentali, viene impiegato dalla Da Rold nella sua versione di O Dulcis Divinitas cantata per la paziente. Con buona pace di Charles Singer ed Oliver Sacks, che hanno attribuito alle visioni mistiche di Ildegarda fenomeni di scotomi scintillanti, preludio ad attacchi di emicrania in forma allucinatoria, l’ascolto della sua musica, ha generato nella paziente della De Rold amplificazione del respiro, reazione fisica, emissioni di suoni vocali che si avvicinano all’urgenza del canto, un vero e proprio attraversamento trasversale dove la vibrazione dell’essere trova spazio nell’esistere.

David Lynch e Lux Vivens, la lavorazione

Non è difficile immaginarsi l’interesse di David Lynch per la musica di Ildegarda se consideriamo la pratica assidua con la meditazione come forma curativa, presente nella sua vita molto prima che si concretizzasse in termini organizzativi attraverso la Fondazione.

“Lux Vivens”, del resto, ha numerosi elementi in comune con quella metodologia che procede dalla drone music verso il sound design, dove nella carriera del regista di Missoula confluiscono derivazioni di volta in volta desunte dalla psichedelia, dal blues, dalla musica industriale e dal pop tra gli anni cinquanta e i sessanta. Dal sound design di Alan Splet, suo collaboratore fino a “Blue Velvet”, Lynch ha esteso quel senso di straniamento spaziotemporale, per creare simultaneità invertite tra aurale e visuale, cosa vista e sorgente sonora, rumore e confini del visibile.

Lux Vivens, The Music of Hildegard Von Bingen – Jocelyn Montgomery With David Lynch (Cd Enhanced, 1998- Artwork)

Non è diverso il suo contributo al lavoro vocale di Jocelyn Montgomery. L’architettura modale dei canti Ildegardiani eseguiti dalla cantante di origini scozzesi sembra tener presente l’esecuzione di Emma Kirby con la direzione di Christopher Page, una delle più note, pubblicata dalla Hyperion negli anni ottanta. L’interpretazione delle segnature temporali è simile, ma l’ex Miranda Sex Garden piega la sua notevole estensione verso una dimensione liricamente meno presente e maggiormente sospesa.

L’ambiente riprodotto dalle registrazioni all’Asymmetrical studio genera un’espansione dello spazio percepito, un non luogo diverso dall’eco naturale dei siti ecclesiastici, dove la trascendenza della voce si eleva rispetto agli FX preposti da Lynch per alcune tracce.
Per quanto i titoli siano trasformati e interpretati liberamente rispetto al codice (“O Viridissima Virgo” diventa “Viridissima“, spostando l’asse sulla contemplazione della natura più che sulla centralità della Vergine) i testi sono assolutamente fedeli e indicano la direzione al sound design, attraverso il significato e il florilegio melismatico.

Se Lynch aiuta l’ascoltatore a penetrare la qualità descrittiva delle visioni di Ildegarda, incorporando i suoni della natura e quindi affrancandoci dall’obbligo di comprendere pienamente la dimensione poetica attraverso la parola, la Montgomery è libera di scolpire tempo e spazio della narrazione melodica, riaffermando le qualità meditative del percorso modale. Lynch stesso, dichiara a questo proposito di percepire immediatamente gli elementi, la natura, la presenza della fauna e l’interpretazione di Jocelyn che scorre insieme a tutto questo; la parola invece arriva per ultima.

Si assiste quindi ad un’inversione rispetto alle complesse teofanie costruite da Ildegarda come sintesi di un sistema simbolico e retorico, capace di combinare le visioni mistiche e le ardite metafore con premesse teologiche ben precise. Ciò che non è più possibile cogliere da parte dell’ascoltatore comune, nel lavoro di Montgomery/Lynch viene reiventato collocando la parola cantata sullo stesso livello di rumori e strumenti; note pure che ci conducono in una dimensione pre-semantica, nonostante la natura λογικός del gregoriano.

Similarmente, la Montgomery, rileva la qualità formalmente libera dei canti di Hildegard e ne percepisce la vibrante energia, legata ad una relazione istintiva con gli elementi.

Tradizione e sincretismi sonori

Un esempio delle contaminazioni, talvolta sottili, a cui vengono sottoposti i canti della Von Bingen è offerto dalla lavorazione di “Hodie“. Originariamente “Hodie aperuit“, si tratta di una salmodia antifonale, quindi con due cori che si alternano, dedicata alla Vergine Maria. La raffigurazione metaforica è quella del voto di verginità rappresentata da un giardino recintato. Quella dell’hortus inclusus era metafora frequente nel contesto della spiritualità monastica del XII secolo e per Ildegarda, botanica ed erborista, assume un significato specifico.

Lux Vivens, copia promozionale, CD Mammoth – 1998

Il luogo chiuso e allo stesso tempo aperto alle possibilità del divino viene trasformato dalla Montgomery in una sfera sonora, imitando un’altra tradizione salmodiante, quella Gaelica sopravvissuta in alcune chiese delle isole Ebridi. Ciò che si eseguiva regolarmente e diffusamente nelle chiese presbiteriane scozzesi, impiegava una voce solista con il compito di introdurre la linea principale del canto. Successivamente, ogni cantore della congregazione seguiva liberamente la propria, in funzione decorativa, impostando un ritmo e un tempo individuale, fino a quando tutte le linee sovrapposte non si riallineavano alla prima originaria. Definita in varie occasioni per la sua qualità euforica, questa prassi obbliga l’ascoltatore a perdersi in una vera e propria infestazione sonora, dove ad ogni singolo cantante viene concesso di connettersi con Dio verticalmente e individualmente, fino a quando l’unità collettiva non viene ristabilita.

Per “Hodie” quindi, la voce di Jocelyn viene registrata più volte, con modalità e attacchi sempre diversi, sopra un tappeto sonoro preparato da Lynch e costituito dal suono rallentato di una campana tibetana, combinato con due note continue registrate al contrario e fuori accordatura, così da creare una texture statica e continua, senza pulsazione ritmica.
La provenienza dislocata delle voci e la fissità del drone di fondo, creano un disorientamento percettivo che defamiliarizza la parola, rendendola incomprensibile anche a chi è abituato ad ascoltare il latino. Ci si libera improvvisamente dal disegno monadico che allude ai piani dell’essere, verso una prassi improvvisativa e sensoriale che può condurre verso altre conseguenze spirituali.

Dello stesso tipo è la tecnica del pinch armonic, armonico artificiale, che Lynch sicuramente desume dall’amore per il blues elettrico, facendo vibrare una corda della chitarra con il plettro, successivamente sfiorata con il pollice. Portato all’estremo genera il cosiddetto effetto dive-bomb che simula in qualche modo un’esplosione sorda. Questo effetto spinge verso il basso “Sapientie“, in netto contrasto con le vette vocali della Montgomery.

Lux Vivens: visioni

Le caratteristiche fortemente visuali di “Lux Vivens” vengono sottolineate anche da John Neff nell’EPK video di 12 minuti, inserito in versione Quicktime nel CD Enhanced pubblicato dalla Mammoth nel 1998. Il making of, oltre ad assolvere una funzione promozionale specifica in sostituzione di un vero e proprio videoclip ufficiale, sottolinea l’elaborazione estetica e semantica che viene fatta a partire dall’opera di Hildegard Von Bingen: “come artista visivo, Lynch presenta tutte le idee e i suggerimenti per il percorso sonoro, come fossero immagini visive o sollecitazioni emotive – dice John Neff – [..] l’unica cosa che manca nel disco è il film. Quando lo senti, è come se stessi guardando un grande schermo cinematografico. L’unica cosa che manca è l’immagine

Per ragioni evidenti il lavoro di Lynch/Montgomery sposta il primato della parola del canto gregoriano, fondato sul valore sillabico del ritmo, verso gli elementi contemplativi che partono certamente da quella materialità fonetica, ma la trasfigurano. Questi aspetti, che entrambi consentivano di meditare la liturgia con equilibrata risonanza, vengono trascesi favorendo la relazione aurale con l’immagine.

Questo si rende possibile per due motivi; il primo è il repertorio di Hildegard Von Bingen, vicino certamente ad alcune norme antecedenti il XII secolo, ma assolutamente eccentrico per il proprio tempo, per scelte espressive, compositive e per esser stato destinato ad una comunità monastica femminile. L’altro è legato alla collocazione “pop” del progetto, del tutto aliena dalla ricerca specialistica, tanto da consentire ardite contaminazioni, non nuove in verità nella storia discografica legata ai canti di Ildegarda, ma anche alternativa alla condizione attuale della musica liturgica nel contesto cattolico.

Come raccontavamo in estrema sintesi nella prima parte del nostro percorso, la partecipazione attiva alla liturgia, volontariamente o involontariamente innescata dai repertori delle Messe Beat, fenomeno tutt’altro che rivoluzionario, ha contribuito in realtà a saldare una norma politica conservatrice e “mondana”, che è alla base della “reazione” spirituale al di fuori del perimetro cattolico.

Per spirituale, in questa sede, ci riferiamo a numerose possibilità, dalle pratiche di meditazione non confessionale, a forme diffuse di mindfulness, passando ovviamente per discipline e percorsi più indirizzati, come lo Zazen, fino al recupero della tradizione esicastica fatta da alcune comunità cristiane. Si tratta di percorsi spesso divergenti, ma ampiamente frequentati, dove il livello di partecipazione viene elaborato secondo principi opposti dalle interpretazioni “attiviste” del Concilio Vaticano II.

Curioso che nel 1998, quando nei luoghi di culto cattolici si schitarrava ancora una delle innumerevoli variazioni sulla carcassa cantautorale di Symbolum 70, un artista statunitense legato alle pratiche di meditazione trascendentale, decidesse di lavorare sulla musica di una mistica cattolica del XII secolo, eseguita solamente in alcuni monasteri tedeschi, collaborando con una violinista e cantante scozzese, formatasi alla Purcell School Of Music di Londra, che aveva debuttato insieme a due colleghe, incidendo un disco di madrigali eseguiti a cappella.

Anche se il periodo era quello delle ampie celebrazioni per i 900 anni dalla nascita di Ildegarda (1098 – 1998), cosa ci avrà trovato David Lynch in una raccolta musicale, figlia (il)legittima di quei “concerti liturgici” che avevano stufato il Cardinal Lercaro?

Paolo Pietrangeli – Amore, amore, amore, amore…un cazzo: videorecensione del vinile

Per chi ha cominciato nel 1970, pubblicando per un’etichetta storica come “i dischi del sole”, destinare l’ultima uscita della propria carriera al vinile non è solo un gesto politico, ma un vero e proprio messaggio d’amore. Paolo Pietrangeli “dirige” e organizza i suoi dischi da più di cinquant’anni, con creatività e abilità combinatoria. Un narratore dal grande talento, capace di spostare i registri e le impennate emotive del racconto. Tra ironia e dolore, in questa nuova storia fatta di episodi editi e di canzoni inedite, c’è spazio ancora per l’amore, a patto di considerarne il movimento, l’incertezza, la vitalità e casomai raccontare cosa si rischia se ci si abbandona ai compromessi.

Storie minime, sommovimenti del cuore che rivelano mutazioni sociali più profonde e che hanno costituito la macrostoria di un paese intero. Il percorso è legato insieme dall’intervista-confessione che riempie i solchi vuoti tra una canzone e l’altra e ci accompagna dentro la vita, la carriera e la formazione di un grande autore della canzone italiana.

Nella video-recensione vi raccontiamo in dettaglio “Amore, Amore, amore…un cazzo” nella bella edizione gatefold in vinile pubblicata da Ala Bianca Group e Bravo Dischi, disponibile sul sito dell’editore.
Vi ricordiamo, che la title track dell’album è anche un videoclip diretto da Chiara Rigione, per la redazione di indie-eye, semplicemente il migliore del 2020.

España Circo Este – Dormo Poco E Sogno Molto, il video di Paolo Santamaria e l’intervista

La forza delle idee nell’area circoscritta delle forme brevi. Da sempre è una questione di confini e cornici rappresentative. Occorre espanderle e sfondarle, letteralmente, per aprire 30 secondi o tre minuti ad altre possibilità. Non sono molti quelli che ricordano “That’s what’s going on“, lo spot realizzato per Wrangler da Kevin Godley & Lol Creme nel 1983; immagine virtuale e possibile che insieme al lavoro di Zbigniew Rybczyński, sfruttava l’immaginario e gli spazi destinati al consumo per sperimentare le qualità performative delle nascenti tecnologie digitali, ricombinando nuove narrazioni fatte di stereotipi a pezzi, campionamenti e ripetizioni.

Il video di Paolo Santamaria, prodotto con la sua The Factory per gli España Circo Este, a distanza di alcuni decenni dal lavoro di Godley, Creme e Rybczyński, sembra aprire nuovamente quelle finestre, per consentirci un passaggio senza soluzione di continuità tra realtà e schermo, nuove tecnologie e consistenza tattile.

Oltre al “come”, il “cosa” ci interroga lungo i tre minuti e mezzo del video, sul nostro ruolo rispetto al filtro mediale che quotidianamente circoscrive le tragedie più piccole e quelle globali, spingendoci in una pericolosa comfort zone scopica dove lo spettacolo scorre e non ci macchia di sangue.

Dormo Poco e sogno molto“, che già dal titolo suggerisce uno straordinario ossimoro esoterico di sovversione dell’ordine di realtà, ha partecipato a più di 30 festival in giro per il mondo, tra cui tre con la qualifica dell’Academy Award, una selezione al prestigioso Berlin Music Video Awards 2021 e un riconoscimento a Cortinametraggio.

Paolo Santamaria, fondatore dell’abruzzese The Factory, regista di spot, documentari e moltissimi videoclip, buona parte dei quali realizzati per l’etichetta discografica Garrincha, torna in fondo a realizzare un’opera di viaggio, riuscendo a trovare una sintesi sorprendente tra l’immagine e i mezzi del presente. Lo fa con un’ansia di libertà incontenibile.
Le immagini e le animazioni di Gianpaolo Calabrese, di fatto non le contiene, ma le spinge fuori cornice, verso chi guarda.

Paolo Santamaria. Tra illustrazione, tecnologia e vita. L’intervista

Come è nata la collaborazione con Gianpaolo Calabrese e come avete impostato il lavoro sul video?

Con Gianpaolo ci conosciamo da anni, siamo nati entrambi ad Avezzano, in Abruzzo, e assieme abbiamo portato avanti la passione per la ricerca estetica attraverso la creatività.
Io ho fondato la The Factory, e lui ha subito sposato la causa, entrando a far parte del team. Siamo dunque coinquilini allo stato puro. Scrivevo così su Ig rispetto al videoclip di Merendine blu, ma vale ovviamente anche in questo caso: Nel mio mestiere il percorso non è mai subordinato al risultato, ne è parte integrante, come un iceberg di cui osserviamo soltanto la cuspide. Per me questo video nasce dalle prime chiacchierate in autobus, entrambi assonnati, nel percorso verso Scuola di Cinema per me ed Accademia di Belle Arti per lui. Questa la vittoria più grande, valore del tempo speso e delle tante energie profuse, imparziali esempi di libertà.

Oltre all’idea del passaggio da un dispositivo all’altro, davvero molto bella ed efficace , sorprende la realizzazione tecnica. Siete riusciti a mantenere forte spontaneità del gesto, come se fosse un gioco di bambini, e allo stesso tempo a costruire questa formidabile sincronia narrativa.

La mia infanzia è stata costellata da disegno e da pittura, difatti a scuola scarabocchiavo in continuazione. Frequentai anche un corso specifico con mia sorella Chiara, pomeriggi spesi a realizzare quanto ragionato, un profondo lavoro di concentrazione. In seconda media vinsi addirittura un concorso su tematiche sociali, con un disegno che realizzai in una mezza mattinata, stanzone enorme pieno di altri ragazzi, che valse il primo premio. Insomma, ero abbastanza in fissa. Crescendo però, il vuoto. Con l’approdo alla tecnologia ho perso totalmente il rapporto creativo e artistico con la mia manualità illustrativa. Le idee son rimaste, ma la capacità è stata dirottata altrove (siamo esseri finiti, ahimè).
Conoscere Gianpaolo è stata una bella fortuna, avere altre due braccia pensanti dedicate, designate all’illustrazione, è molto stimolante. Io posso dedicarmi al mondo visuale nel suo complesso, lui può scavare a fondo andando a sviscerare di volta in volta la tecnica con cui decidiamo di interfacciarci. Volevo che si evincesse anche questo, volevo raccontare una storia come la mia mente infantile era solita immaginarla, come un viaggio su due dimensioni, in continua scoperta. E volevo farlo con un avatar che fosse amabile, buono, come ogni bambino vede il suo compagno di viaggi ideale. Il nostro poi è stato condito con elementi del buon Marcello, cantante degli Espana.

Mi interessava capire gli intarsi tra scrittura e tecnica…

Ipotizzare su carta un simile iter non è banale. Ho immaginato la storia, ovviamente nata dalle parole della canzone, stabilito il suo intreccio e creato una scaletta. Nel nostro caso bisognava poi capire come incastrare, quanto ipotizzato, all’interno dei dispositivi. Volendoci complicare la vita abbiamo anche deciso di far muovere i medesimi, così da poter interagire con loro. Ricordo benissimo che prendemmo tanti fogli bianchi e iniziammo a stabilire una mappa, un percorso che il nostro avatar avrebbe compiuto sugli assi X e Y, nel tempo e nello spazio. Proprio come ero solito fare da bambino, creando caroselli infiniti. È stata la nostra guida per predisporre scenograficamente i dispositivi e per realizzare le animazioni da inserirvi. Filmammo il videoclip ad inizio Marzo, nei giorni di poco antecedenti al primo lockdown, momenti in cui risultava difficile persino concentrarsi per fare la spesa, figuriamoci per costruire un simile viaggio onirico. Nel nostro studio, la The Factory improvvisamente impregnata di alcool ed amuchina, ci ritrovammo io, Marco Anselmi (il nostro tuttofare) e Gianpaolo in compagnia di una 50ina tra iPhone ed iPad ed una scena da allestire (le mani presenti nel video sono le loro). Fu un primissimo esperimento di set con mascherine ffp2, complesso e surreale.

L’estetica del video mi ricorda alcune espansioni tattili del mondo visuale che spesso sono affidate alle motion graphics ma anche la capacità di sfondare gli schermi che era tipica della pubblicità splendida degli anni novanta, quella di Godley and Creme tanto per intenderci. A cosa vi siete maggiormente ispirati per raggiungere questo grado di libertà creativa?

A testa e cuore.
Nel tempo avevo già visto video similari, con dispositivi e animazioni a sync. Però non ritengo ci sia stata una vera e propria ispirazione, come del resto non sono solito fare mai. Per poter raccontare attraverso le mie immagini devo dapprima incamerare per poi scomporre e attraverso una nuova sintesi riformulare a modo mio. Ritengo che la fedeltà al sentimento sia sempre il miglior ingrediente, la giusta base con cui poter svolazzare in piena fantasia. Accadde una comune fascinazione simile quando realizzai anni fa L’arte ti somiglia, celebre campagna del Mibact. Si trattava di una trovata a mio avviso già vista, ma probabilmente il focus e l’attenzione utilizzati in essa hanno saputo creare il transfert emotivo necessario, al punto da trasformarla nella “più efficace campagna ministeriale degli ultimi anni“, ma non sono parole mie…

Le finestre dei dispositivi ricordano quelle del mondo isolato e allo stesso tempo Always connected dei social media. C’era l’intenzione di sollecitare quel mondo ad aprirsi verso la sofferenza quotidiana dei popoli, sfondando e rompendo gli schermi dell’isolamento?

L’attuale dilemma social, per citare una recente produzione Netflix, rappresenta una delle grandi sfide dell’uomo odierno. Riuscire a vivere in tale meccanismo senza perdersi, senza esser risucchiati dagli algoritmi e dalla dipendenza che suscitano, credo sia complesso e molto difficile. La rivoluzione della mia generazione è frutto di quelle tante scoperte fatte da imprenditori brillanti, e per la stessa natura delle loro creazioni sospinte dal business, ne diventa ogni giorno più schiava, perdendo sempre di più il contatto col mondo fatto di terra e sangue. Sono tali meccanismi ad imporre le tematiche da seguire e gli argomenti di cui parlare. Prestare attenzione a ciò che non ingaggia il flusso richiede parecchio sforzo. Mantenere memoria richiede sforzo. “Vivere” aprendosi al mondo d’oggi richiede sforzo.

Il video mi sembra sia una risposta formidabile, sia tematicamente che a livello creativo, alla stasi che stiamo vivendo. Secondo voi si può leggere come un tentativo di sollecitare le coscienze anche e soprattutto quando i corpi sono costretti a stare a casa? Allargare gli orizzonti insomma…

È stata dura ma essenziale. Proprio l’universo hi-tech, in parte rappresentato nel video, ci ha permesso di proseguire il nostro confronto, di osservarci in video call mattutine condividendo spunti creativi e rallegrandoci in un momento tanto triste. Un esperimento bizzarro, in cui tre persone hanno lavorato in parallelo mettendo a sistema idee e suggestioni. Andrea Di Berardino da Zurigo, a curare il tracking 3D, Gianpaolo a disegnare ogni santa animazione ed io ad orchestrare, rompendo ed assemblando con aggiunte dell’ultimo minuto. In fin dei conti credo che la clausura forzata sia stata l’ingrediente fondamentale per dar sfogo alla nostra immaginazione, il videoclip un’ancora di salvezza, un viaggio dell’anima in cui il piacere della scoperta e l’amore hanno saputo alternarsi in una pulsione creativa costante.

Farete altre cose insieme? Noi speriamo di sì

Ovviamente si. Gianpaolo è un componente attivo della The Factory, un perno fondamentale senza cui probabilmente oggi sarei altrove, magari all’estero. Ma la famiglia dei #factoryni è molto più ampia e giorno dopo giorno ci poniamo nuove sfide cercando di metterci alla prova, stimolando costantemente le nostre menti e la nostra pazienza. Operare in un ambito in cui il senso di precarietà diventa leitmotiv nudo e crudo, richiede costante meditazione e continuo allenamento. Farlo assieme a belle persone, persone a cui si vuole bene, salva.

Spotify vs. Tidal: migra tutte le tue playlist da l’una all’altra piattaforma

Spotify e Tidal, due piattaforme a confronto per la musica in streaming

Spotify e Tidal, due tra le principali piattaforme per la musica in streaming, hanno differenze specifiche che riguardano l’esperienza lato utente e le priorità riservate agli artisti.
Con un catalogo superiore in termini numerici, Tidal “fallisce” solo per quanto riguarda alcuni titoli di nicchia legati alla storia della musica alternativa, ma garantisce una qualità sonora nettamente superiore, a fronte di un costo in abbonamento più elevato.

Tidal, qualità superiore e costi più elevati

L’unica possibilità per spendere meno Tidal la offre agli studenti, con la sottoscrizione di un account Premium a 4,99 Euro, che consente di risparmiarne 5,00 rispetto al prezzo standard, esattamente come per Spotify. Tidal Hi-Fi costa invece 19,99 Euro al mese.

Tidal e Spotify, algoritmi e playlist automatiche

Diversi sono anche gli algoritmi che organizzano in modo automatico playlist e ascolti, sulla base di preferenze e generi di riferimento; Spotify è molto più precisa e allarga il raggio di possibilità anche in termini editoriali.

Spotify o Tidal, podcast o videoclip?

All’ampia dotazione Podcast di Spotify, formato e contenitore che sta vivendo una seconda, floridissima vita, Tidal contrappone una libreria di videoclip che può rappresentare una vera e propria scommessa sul futuro del formato, l’unico ancora in grado di creare movimento promozionale in rete. I video presenti su Tidal, al momento di scrivere sono 250,000, alcuni in esclusiva assoluta e con un range qualitativo che va dai 360p, per buona parte dei titoli anni ottanta e novanta, fino ad un massimo di 1080p per quanto riguarda le novità. Oltre il Full HD non si trovano quindi contenuti, ma l’esperienza è per certi versi più soddisfacente e stabile di quella su Youtube, a parità di formato ovviamente.

Tidal: dalla parte degli artisti

Lato artisti, Tidal destina più contributi per stream rispetto a Spotify e offre una connessione più diretta tra musicista e fanbase. Il formato Tidal X è un esempio specifico in tal senso e offre live show esclusivi, veri e propri meet and greets, biglietti per concerti, contenuti esclusivi ed altri benefit. Tidal Rising invece è una vera e propria piattaforma per i nuovi talenti, dove un team editoriale sceglie tra gli emergenti quelli con maggiore potenziale, per offrire un supporto promozionale gratuito, sia attraverso la piattaforma stessa, sia per quanto riguarda l’esternalizzazione di alcuni servizi, dai photo shoot al supporto per i live.

Tidal Vs. Spotify: qualità audio

La qualità audio a confronto è ancora una battaglia aperta, perché se Tidal offre fino al lossless di tipo FLAC (24 bit/96kHz) per quanto riguarda i più costosi abbonamenti Hi-Fi, il rivale ha annunciato durante il febbraio scorso l’introduzione di Spotify Hi-Fi, di cui non si sa ancora molto e che dovrebbe competere anche con Amazon Music HD.

Da Spotify a Tidal: migra tutte le tue Playlist

Con una campagna promozionale miratissima, Tidal si appoggia a servizi di terze parti per suggerire la migrazione dei contenuti da una piattaforma concorrente, verso la propria.
Uno dei problemi legati alla possibile fidelizzazione di nuovi utenti che utilizzano Spotify da anni è quella di conservare le numerose playlist create con amore e dedizione.
L’utente medio se ne fotte se ha regalato ad uno svuotacantine la collezione di vinili del nonno e gettato tra la plastica e l’indifferenziata i CD del babbo, ma è gelosissimo delle proprie playlist aggregate durante mesi di cazzeggio a creare il sostituto digitale di un mixtape.

Spingendo verso l’utilizzo di converter e webapp di gestione come Soundizz e Tune My Music, Tidal invita a duplicare velocemente le playlist conservate su Spotify, Deezer, Amazon Music, Last Fm e altri servizi, verso la propria piattaforma.

Un supporto notevole, a patto funzioni davvero, vediamo in dettaglio quali sono i pro e i contro; abbiamo testato per voi una delle due webapp, quella che ci è sembrata più intuitiva: Soundizz

Migra tutte le Playlist di Spotify su Tidal con Soundiiz

Soundiiz è una webapp che in fase di registrazione consente un log in veloce attraverso il riconoscimento degli account Google oppure Facebook, presentandosi come un software di gestione multipiattaforma che consente di sincronizzare i contenuti tra numerosi servizi.

Ci interessa in questa sede esaminare le funzioni relative all’importazione di una playlist o di un gruppo di playlist da Spotify verso Tidal.

Per trasferire tutte le selezioni da Spotify a Tidal in un colpo solo, tocca pagare un abbonamento di 4,50 euro al mese; un gioco che può valer la pena solo a patto di sfruttare il servizio per una sola volta.

Gratuitamente è possibile spostare tutto ma importando una playlist alla volta, attraverso il link di condivisione e a patto che la nostra selezione non superi i 200 brani per ogni playlist. Questo pone un problema per tutte le selezioni create da Spotify in base alle nostre preferenze, oppure per le playlist create con il nostro like ai brani preferiti, incontrati di volta in volta, dove l’ammontare dei titoli potrebbe superare anche le 500 tracce.

Abbiamo attivato la funzione standard di importazione playlist presente nel piano gratuito di Soundiiz ed ecco cosa è successo.

Soundiiz, importa playlist, tutorial passo passo

Selezionando il pulsante “Importa playlist” in alto a destra rispetto all’interfaccia full screen, abbiamo scelto la voce “Da indirizzo web” (3) che ci consente di migrare la playlist da Spotify a Tidal inserendo il link di condivisione della stessa playlist

Per chi non lo ricordasse, il link di una playlist Spotify, si ottiene selezionando il titolo della stessa con il pulsante destro del mouse e scegliendo da menu contestuale la voce Condividi/Copia link alla playlist.

Ottenuto il link, possiamo tornare all’interfaccia Soundiiz, scegliere la voce Da indirizzo web e contestualmente, inserire l’indirizzo ottenuto dalla playlist Spotify all’interno del form preposto. A questo punto non resta che selezionare il pulsante Invia URL.

Nei passaggi successivi ci verrà chiesto di Confermare la playlist, Salvare la Configurazione ed infine scegliere una piattaforma di destinazione; in questo caso Tidal.

Dopo aver scelto Tidal come servizio di Destinazione, occorre attendere alcuni secondi mentre l’importazione viene ultimata. Nel caso in cui qualcosa non vada a buon fine, sarà lo stesso Soundiiz ad avvertirci. Questo può accadere ogni volta che un brano di Spotify non venga trovato nella libreria di Tidal, come nel nostro caso

Soundiiz ci ha segnalato due errori. Se scegliamo il pulsante che li indica, vedremo quali sono i titoli che Tidal non è riuscito a trovare nella sua libreria di oltre 60 milioni di brani musicali.

Le due tracce incriminate sono “Screen Kiss” di Thomas Dolby, e “Great Museum” dei Tortoise, entrambi due “classici” della musica di qualità, rispettivamente, del genere electro-pop e post-rock.

Nella nostra esperienza con Soundiiz che ci ha consentito di far confronti diretti tra le librerie di Spotify e di Tidal abbiamo potuto verificare che in relazione al catalogo della musica alternativa dalla fine degli anni settanta fino ai giorni nostri, Spotify soddisfa maggiormente l’ascoltatore con qualche esigenza in più. Nomi come “Camper Van Beethoven”, “Sun City Girls”, ma anche alcuni titoli particolari legati alla cultura Northern Soul oppure Psichedelica degli anni sessanta e settanta, se non totalmente assenti, sono presenti con pochissimi brani e discografie ridotte al minimo.
Non si tratta di un gap enorme, perché su 100 playlist importate, Tidal ha fallito con una media di due titoli per ogni playlist, segno di un avvicinamento progressivo tra i due cataloghi.

Tidal o Spotify, quale scegliere?

Differenze alla mano, difficile eseguire un test adatto a tutti i palati. Tidal offre per questo un profilo prova di 30 giorni, completamente funzionante. A differenza di Spotify non può essere utilizzato anche gratuitamente e con funzioni ridotte, ma solo nel periodo di prova concesso, scaduto il quale occorre pagare per utilizzare qualsiasi funzione. Un mese dovrebbe essere sufficiente per testare le possibilità della piattaforma, anche lato mobile e per mettere alla prova un servizio di importazione playlist come Soundiiz.

Se sarete soddisfatti dei risultati, potrete abbandonare Spotify, in nome di un’esperienza audio di qualità superiore.

Art School Girlfriend, In The Middle. Il video di Tom Dream, tra l’isolamento e la vita

Vero e proprio “afterlife” quello realizzato da Tom Dream per la producer britannica Polly Mackey. Filmato in 16mm dal direttore della fotografia David Wright, immerge l’artista e un gruppo di performer nello spazio virtuale delle luci laser, così da determinare una versione intimista e mentale delle tecniche di videomapping utilizzate in un contesto club. L’unico riflesso del dancefloor rimane nei corpi dei ballerini e in un momento di danza che proviene da uno schermo cinematografico. La sala è infatti l’unico ambiente dove sembra possibile far sopravvivere l’esperienza comunitaria, ma è uno spazio dove lo sguardo e la memoria vengono separati dalla vita, irrimediabilmente osservata attraverso uno specchio, una cornice di luce, un’arena virtuale.


St. Vincent – “Pay Your Way In Pain”. Disco diva nel video di Bill Benz

Dopo “The Nowhere Inn”, la docu-fiction costruita intorno all’identità di Annie Clark, Bill Benz torna a collaborare con l’ex Polyphonic Spree per il video di “Pay Your Way in pain”, confezionato in linea con le scelte citazioniste di tutta la campagna promozionale costruita intorno a Daddy’s Home, incluso il video di 1 (833)-77-DADDY, che omaggiava il De Palma di “Vestito per uccidere”. Qui si ammicca a Bowie per allestire un teatrino anti-erotico di formidabile freddezza, preciso anche in termini ottici, tanto che il buon Benz si è affidato ad una dotazione tecnica d’epoca, ripristinando telecamere, obiettivi, filtri e metodologie inerenti la produzione di promo video a cavallo tra la prima e la seconda metà degli anni settanta. Cui prodest?

Kidnap “Silence”. Isolamento e solitudine nel video di Iain Simpson, dalla parte dei folli

Forse ne abbiamo già abbastanza, ma la forza di “Silence” risiede nella sua aderenza al corpo per sondare i limiti della psiche. Non sono immagini senza speranza quelle dirette da Iain Simpson, perché nello stesso modo in cui ha filmato il Malawi per Saronde, immergendosi nella fisicità gestuale del suono, si avvicina alla disperazione di quest’uomo, perso per le strade di una Glasgow notturna e senza alcun segno di vita. Senza frapporre uno sguardo giudicante, cerca di allinearsi, per quanto possibile, al livello dell’esperienza.
Non è un’immagine nuova come non è nuovo ciò che stiamo vivendo, ma è precisa, nella definizione della follia come punto di confine estremo tra la costrizione e la perdita dell’io cosciente.
Filmato in un bianconero 16mm rilegge la perdita di coordinate percettive che anima molti video legati alla cultura club. Estasi oppure oblio? Follia o libertà?

Loperfido – I Still got time, il videoclip di Antonio Stea in anteprima esclusiva

Band alternative della scena gioiese, i Loperfido sono nati nell’estate 2014 a Gioia del Colle dopo l’esperienza come The Carving. Artefici di uno psych rock oscuro e originale, sono costituiti da Donato Bellacicco, Nicola Donvito, Sefano Montuoso e Donato De Marco. Finalisti nel 2016 di Arezzo Wave Love Festival e della quarta edizione di EsserEPerfetto a Bari, vincono nel 2017 il Giovinazzo Rock Festival.
“I Still got time” è il loro primo singolo pubblicato a distanza di cinque anni dal primo EP e conferma il loro approccio contemporaneo e originale al sound psichedelico.

Loperfido su Bandcamp

Antonio Stea, autore di video molto belli, tra cui “Nope Face” per i Violent Scenes, ha lavorato alla clip per i Loperfido proprio durante il mese in cui gli è stata diagnosticata la positività al Covid 19. Per questo motivo ha dovuto lavorare seguendo i protocolli di isolamento: “Durante tutto questo periodo, ho dedicato il mio tempo a elaborare questo videoclip in maniera differente rispetto ai miei lavori precedenti. Ho centrato la mia attività
sull’uso di software come After Effects. Il primo scambio con la band è stata una telefonata dove, buttando giù delle idee, abbiamo deciso, di utilizzare una sorta di minimalismo con l’utilizzo del bianco e nero

Stea fa reagire l’approccio tecnico con la situazione che vive, ambientando il videoclip in uno spazio onirico nero “dove fosse possibile isolare alcune persone dalla loro quotidianità e trasportarle in un vuoto fisico ed emotivo. Nella prima fase della realizzazione ho estrapolato una parte dei soggetti da alcuni video del mio archivio digitale, per gli altri, mi sono servito di una piattaforma gratuita nota come Pexels, dove videomaker di tutto il mondo, caricano dei video con la possibilità di download gratuito. Una volta scaricati tutti i video, ho iniziato con la tecnica del rotoscoping a tracciare ogni singolo movimento del personaggio per distaccarlo dalla sua realtà e inserirlo nello spazio onirico, creando così, una sorta di limbo dove all’interno i personaggi vagano all’infinito distaccandosi dal tempo e lo spazio

Andrea Lorenzoni – Distante, il video di Debora Sforzini

Debora Sforzini, classe ‘89, ha capitalizzato una frenetica esperienza nel campo del videomaking, occupandosi di pre-produzione, montaggio, direzione artistica e ovviamente regia. Come regista ha lavorato per i bolognesi Grantorino realizzando per loro una trilogia video e la clip per Andrea Lorenzoni intitolata “Distante” di cui parliamo oggi su indie-eye videoclip, dove il corpo, come ci ha detto “si fa tela dei ricordi, di tutte quelle esperienze, idee, valori che ci costruiscono e che ci permettono di diventare quelli che siamo. Così una sagoma in movimento, agli antipodi del suo « involucro », ci richiama al contrasto umano.
Siamo esseri solidi ma con una potentissima presenza astratta che fa da filtro al nostro mondo portandoci a un gioco altalenante fatto di distanza e avvicinamento
. Le relazioni lasciano una traccia dentro di noi, origine di quel contrasto che poi rivela le nostre sfumature. Così, anche quando siamo grigi e distanti, ci portiamo dentro quel ricordo ancora vivo e luminescente. Questo è il concetto di base che ci ha accompagnati dall’ideazione alla regia, fino a tutto il processo di composizione delle scene e delle sequenze, passando per la creazione della sagoma e la realizzazione delle riprese, durante uno dei più solitari periodi natalizi mai vissuti”.

Andrea Lorenzoni su instagram
Street Style Studio su Instagram
Debora Sforzini su Instagram

Scelte cromatiche originali quelle di “Distante”, che si contrappongono al quotidiano per segnalare il contrasto tra essenza e sostanza. Affiancata dal videomaker Daniele Poli di Street Style Studio, la Sforzini ha girato nei tempi stretti e difficili del lockdown natalizio, sfruttando l’arrivo anticipato del crepuscolo in modo da girare in un ambiente che suggerisse atmosfere notturne, per rispettare il coprifuoco delle 22:00.
In questo senso è un video emergenziale, strappato al tempo, che conserva una bella anima urgente all’interno, attinente con le liriche sofferte del brano.

Durante i primi giorni successivi a Natale abbiamo realizzato le riprese della sagoma che sono poi state limitate da una “chiave-luma” – ha aggiunto Debora – così da avere la sola silhouette bianca a disposizione. Successivamente attraverso un software per VJ abbiamo elaborato e esportato in tempo reale sul brano definitivo gli effetti della sagoma e già in questo modo la visione era dinamica e attraente, anche perché la stessa improvvisazione coreografica era stata eseguita a tempo sul brano, da capo a fondo

La location, scelta in modo “neutro”, così da suggerire ambienti suburbani cittadini riconoscibili, è stata scelta sia per ragioni espressive che pratiche. Ubicata vicino allo studio di produzione, ha permesso ai videomaker di fare brevi sessioni entro l’ora di tempo, per difendersi dal freddo e fare alcune pause per riscaldarsi.

Daniele ha ripreso tutto, esterni e silhouette, con la camera Ursa Mini Pro 4.6K – ha specificato Debora raccontando gli aspetti più tecnici – mentre per gli esterni si è munito di steady-cam e corpetto. Quasi tutte le scene in esterno sono state girate in off-speed recording a 38fps con base 25 fps e il brano è stato riprodotto a 152% della sua velocità originale così che ci fosse una sincronia del labiale di Andrea Lorenzoni e una morbidezza dei movimenti che andasse in contrasto con la perfetta sincronia della sagoma. L’unica luce che ci ha accompagnato per tutto il tempo delle riprese in esterna, oltre a lampioni, è stato un piccolo pannello led con diffusore da tenere alla steady-cam

Più specifica la post-produzione, per creare l’effetto luminescente che attraversa il corpo di Andrea, sono stati applicati due segni per il Tracking della sagoma. In studio sono stati rimossi. “Ho usato Final Cut Pro X per per la sua velocità di elaborazione dei file – ci ha confessato Debora – e di gestione dei tagli, oltre che ad apprezzare particolarmente la timeline magnetica. Successivamente il progetto è stato esportato in .XML e importato come timeline in un progetto di Davinci Resolve nel quale intanto Daniele aveva già impostato il girato e le specifiche del progetto. Da questo punto in avanti il video è stato completamente gestito internamente con Davinci per il processo di tracking

Sgrò – Maledizione, il videoclip di Pietro Borzì con le animazioni di Simone Brillarelli

Francesco Sgrò, “cantautore domestico” venerdì 22 gennaio ha pubblicato il suo nuovo singolo “Maledizione”, già veicolato dal relativo videoclip lo scorso 12 febbraio.

La clip mette insieme una serie di riferimenti cinematografici, da Kubrick ad Antonioni, passando per Coppola, Tarantino, Scorsese e sopra tutti lo spirito combinatorio di Michel Gondry.

Per me Maledizione è l’adolescenza – ha detto il lucchese Francesco Sgrò – Prendere il motorino di mio fratello e starmene fuori casa il più a lungo possibile, lasciandomi alle spalle tutte le zanzare che gli altri mi mandano contro. Poi, da adolescenti si è bravissimi, perché si riesce a stare fuori casa anche dentro la propria stanza. Per esempio passando serate intere a vedere film. Questo videoclip è lo sguardo di un ragazzo che guarda film su film sovrapponendo a quelle storie e a quelle emozioni le proprie”.

A realizzare il video è Pietro Borzì, che per l’occasione ha coinvolto l’animatore Simone Brillarelli. Borzì, fondatore di Less TV, documentarista e regista di videoclip, aveva già collaborato con Sgrò per i video di “Le piante” e “In differita“, entrambi legati ad modo specifico di intendere il video musicale, osservato attraverso suggestioni eterogenee che vanno dall’illustrazione, passando per la pop e internet art, oltre alle forme desunte dalla cultura visual e pittorica. Un approccio che Borzì, visionario di talento, ha in qualche modo affinato con il suo personale approccio all’ambito advertising.

Conosciuto Francesco gli dissi subito che col suo progetto avrei voluto lavorare con diversi illustratori, Sgrò è pop e io volevo colore come non mi era capitato di fare in passato su altri videoclip – ci ha detto Pietro – Abbiamo così realizzato prima “In Differita” con Giulia Conoscenti e successivamente come terzo video “Maledizione” per cui volevo il tratto di Simone Brillarelli. Con Francesco è sempre stato molto facile lavorare, non dico che mi abbia dato carta bianca ma quasi, siamo rimasti entrambi molto soddisfatti per tutti e tre i video. Se parliamo di “Maledizione”, l’idea è nata, come sempre, da una personale necessità di riappropriarsi di ciò che trovavo più stimolante e stranamente nuovamente bello in quel momento. In quel periodo per forza di cose, come tutti, stavo riguardando dei grandi classici del cinema, ho pensato quindi di selezionare alcune pellicole che ho sempre amato per costruire la trama di “Maledizione”. Il tratto di Simone oltre che a creare un filo conduttore tra i volti dei protagonisti, ci ha permesso di utilizzare il girato dei film, così manipolato e reinterpretato. Simone è un gran lavoratore, ascolta molto le mie indicazioni ma ci mette del suo e a posteriori posso dire che era proprio la persona giusta per questo tipo di lavoro. Era tanto che volevo fare un lavoro di questo tipo, ma per sporcare bene qualcosa di già perfetto ci voleva un tratto distintivo come quello di Simone. Abbiamo lavorato su Premiere e After, io mi sono occupato dell’editing, poi, indicazioni alla mano, Simone si è divertito sul resto.