“Il mercato discografico non è nulla senza la musica (denti=idee) ed è costretto a rubare da corpi già morti il proprio apparire.“
Sono parole di Enea Pignatta, in arte Disputa, 16 anni e idee chiarissime, anche in termini visuali. Un teaser “bunueliano” per promuovere il suo nuovo singolo intitolato “Tempio” e una notevole capacità combinatoria che nello spazio “spoken” del rap, riesce ad infilare lo spirito ludico di Gorni Kramer e Natalino Otto, rileggendo il battito degli anni novanta con originalissima ironia. Niente da condividere con i cascami della trap coeva e del lessico camorrista che l’attraversa, perché Disputa li fa a brandelli con coltissimo distacco raccontando quel buco nero incolmabile tra mercato e creatività, individuo e codificazione del mondo: “L’idea del video – racconta – è nata guardando un’incisione di Goya, dove una donna ruba un dente a un impiccato. Mi ha colpito particolarmente la postura della donna e la sua espressione di disgusto: una scena grottesca di un sarcasmo macabro. Sono stato ispirato da Häxan, “La stregoneria attraverso i secoli”, per la teatralità, la composizione delle inquadrature e l’uso di tecniche differenti, come lo stop motion dell’ultima scena. Per le scene del coma, l’assetto è più classico e plastico, e il mio pensiero è andato al “Compianto sul Cristo morto” di Mantegna. Ho cercato di pulire il più possibile l’immagine e dare continuità narrativa dentro spazi dissimili con l’utilizzo del blu e del rosso, marcando le differenti ambientazioni con l’uso del bianco e nero. Il video e il testo della canzone hanno una sola cosa in comune: la simultaneità. Le immagini del testo si sviluppano con una sequenza temporale, ma in verità sono da pensarsi simultanee. Questo testo nella sua perfezione dovrebbe durare il tempo di un battito, e così il video: non c’è un prima e un dopo. Nel testo vi sono immagini di più epoche storiche e nel video immagini di più mondi. Il video mostra come contemporaneamente l’essere umano attraversi questi passaggi, ovvero dal mondo terreno al giudizio (la mente), fino a limbo, dove l’anima vaga aspettando la fine del giudizio e la definitiva morte del corpo. Nel video l’esperienza che permette questi tre simultanei passaggi è il coma. Il momento del giudizio è rappresentato dai tre impiccati. Una donna, allegoria del mercato discografico, ruba denti d’oro ai cadaveri pur di esibire le proprie ricchezze e il proprio potere, ma in verità è indigente.”
Del videoclip Enea comprende benissimo la possibilità di sfondare tempo e spazio, inventandone uno nuovo, di convergenza, dove tutto può accadere. Storia dell’arte e del Cinema gli servono anche per rileggere alcune iconologie contemporanee legate a fortuna e successo. Riesce a farlo con brillante ironia e con una profondità culturale del tutto assente da quei progetti nati per lo più come estensione di dinamiche lifestyle.
Disputa scrive, dirige e monta i suoi videoclip; “Tempio” è stato realizzato con l’aiuto regia di Gioele Mariani, mentre l’etichetta che pubblica i suoi lavori è Mistress Records, con distribuzione Goodfellas. Tempio si ascolta anche su spotify
“Dirti Non saprei” è il primo album solista di Alessandro Caverni, autore originario di Fano, ma assolutamente apolide nei suoi percorsi tra vita e lavoro, fino ad una radicata e convinta adozione parigina. La sua lunga esperienza nella scrittura di canzoni si concretizza grazie all’incontro con i bolognesi fratelli Piazza, che producono il disco a tutti gli effetti. Ne viene fuori una sorprendente e rarissima attitudine aliena rispetto al “nostro” cantautorato, la cui struttura guarda senza alcuna paura al pop stratificato di Jim O’Rourke, Sam Prekop, il primissimo Archer Prewitt fino al cubismo del David Grubbs solista, fusi con una ricerca fonetica che affronta la lingua italiana con spinta coraggiosa, tra combinazioni microtonali e intarsi minimalisti.
“Dirti non saprei” si ascolta da questa parte su soundcloud, mentre “Semplice“, il singolo che veicola l’intero progetto è accompagnato da un videoclip totalmente fuori cornice, in un’accezione del tutto positiva, girato negli spazi del Graf S. Donato a Bologna. Realizzato in stretta collaborazione con Lucia “Bubilda” Nanni, textile artist che disegna con la macchina da cucire e il contributo tra regia e montaggio del regista e documentarista Domenico Parrino è un lavoro che sfugge facili categorizzazioni, seguendo gesti e movimenti ancora prelinguistici di un bimbo, tra creazione “leggibile” del mondo e improvvisa illeggibilità.
“Quando ho contattato Lucia “Bubilda” Nanni per chiederle se poteva interessarle una collaborazione tra di noi avevo da poco finito di registrare “Dirti non saprei” – ci ha detto Alessandro Caverni – Ci siamo dunque incontrati e dopo avermi detto che avrebbe accettato ed esserci scambiati subito qualche idea le ho chiesto di scegliere la canzone su cui preferiva lavorare. Deciso per “Semplice”, Bubilda mi ha immediatamente descritto “l’uomo Flebotonico”, un’idea che immagino avesse già in mente da qualche tempo per conto suo, e me lo ha così proposto come soggetto per un videoclip“
“No, non voglio ascoltare nulla, voglio conoscerti, poi vediamo” Risposi così ad Alessandro. Data la mia poca disposizione alle note ho preferito conoscerlo davanti ad un caffè: io mi oriento molto di più con volti e parole. Aveva una voce aggraziata e occhi grandi, nerissimi e luminosi” – ha specificato Lucia “Bubilda” Nanni – L’arazzo è stato steso a terra ( Filippo -3 anni-poteva camminarci sopra) e installato come fosse il tetto di una capanna: per dare al bambino tutte le possibilità spaziali del telo rispetto al suo corpo. L’arazzo ha coinvolto il lavoro del mio corpo e del corpo di un bambino, nel controllo e nello sforzo di gestire una dimensione più grande del corpo di entrambi (anche per la mia tecnica, il disegno con la macchina da cucire, controllare questa dimensione è una sfida)”
“Abbiamo pensato che ad un’immagine così cruda e forte come quella di una mappa anatomica medievale– ha aggiunto Alessandro Caverni – sarebbe stato interessante contrapporre quella che a livello ideale appare più pura e innocente, vale a dire un bambino, e di lavorare su questo contrasto. L’idea mi è molto piaciuta perché in maniera non esplicita ma in qualche modo analoga rifletteva l’immaginario alla base di “Dirti non saprei” ed il suo carattere stilistico“
“Se fossi corpo” ovvero l’uomo flebotomico– specifica Lucia “Bubilda” Nanni – evoca le prove del corpo, la prima fra tutte un tentativo di ricomposizione della dissociazione cartesiana (mente/corpo) nella sfida della cura del corpo; riferimenti alla medicina medievale (sapere pratico e teorico) dove il corpo diviene una mappa di segni e simboli che richiamano una compenetrazione di mondi allineati (quadro astrale, anatomico, fisiologico, umorale, musicale, religioso)”
“Ho cercato di dare al mio lavoro l’aspetto di un insieme di fogli sparsi, di schizzi e bozzetti che dessero per quanto possibile (e comunque in un lavoro compiuto) un senso di non finito – ci ha detto Alessandro Caverni a proposito di “Dirti non saprei” – Appunti quindi e note a margine di un qual si voglia discorso principale e, perché no, del Discorso con la “D” maiuscola. Tra suoni distorti, spessi e a tratti saturanti, la voce stenta a stare a galla, esita al limite tra pre-linguistico e “dire” vero e proprio: dall’essere cioè pronunciata. In un puro piacere all’immaginazione e alla fantasticheria la voce si trattiene dal farsi vero e proprio discorso per anticipare e forse scongiurare il veicolo/vincolo del segno scritto e codificato. Una sorta di balbuzie del pensiero che a tratti esplode e può sciogliersi in canto amoroso come anche in semplice gioco fonosimbolico a mo’ di filastrocca, a dispetto delle infinite possibilità combinatorie delle parole, di quelle parole e segni che hanno costruito e su cui poggiano la cosiddetta cultura ed il sapere in senso lato. Passati e potenziali.
“Semplice, il brano di Alessandro – aggiunge Lucia “Bubilda” Nanni – diventa l’elemento armonico, compimento di quell’ingranaggio meccanicistico medievale segnando, come la mano di Guido d’Arezzo, il punto di contatto e di allineamento – natura/uomo/universo – Lo “sfregio” (l’azione del bambino sul lavoro) segna invece un rapporto diacronico rispetto alla stratificazione del sapere, come atto procedurale dell’agire umano, dove l’esperienza e l’azione equiparano arte e scienza in una costante verifica delle forme, in cui l’istituzionalizzazione dei saperi è preceduta dalla violazione di un divieto (simbolicamente lo sfregio a cui è stato sottoposto l’arazzo – sfida e gioco -)“
“Mi sembra che il tappeto di Lucia racchiuda e sintetizzi con estrema efficacia questa totalità di cui parlavo – specifica Alessandro Caverni – la quale, data la sua vastità, è al limite del comprensibile. Ammesso che questo spettacolo possa suscitare spaesamento e vertigine, certo non ha questo effetto su un bambino il quale, impassibile ed incurante di tale portata simbolica calpesta, strappa e riordina a suo modo fili in cui si intreccia e districa, scarabocchia la superficie del tappeto nell’istintivo e semplice gesto ludico.
“Il videoclip di “Semplice” nasce, ascoltando le melodie e le strofe di Alessandro, come racconto su un percorso non definito, molteplice e sovrapposto – ha specificato Domenico Parrino – Non un videoclip “sulla strada da seguire” ma un racconto visivo sulle varie interpretazioni che può assumere il percorso stesso. Un percorso costituito dai fili in tessuto che fanno parte dell’opera dell’Artista Lucia “Bubilda Nanni”: Uomo Flebotomico. Queste strade che compongono l’opera sono le interpretazioni che diamo ai nostri vissuti e che scorrono in altrettante e diversi cammini. Il tutto attraversato dall’anarchia dei giochi infantili, incontrollabili e imprevedibili del piccolo Filippo che diventa un inconsapevole Deus ex machina“
“Mi sono rivolto a Domenico Parrino e gli ho esposto l’idea chiedendogli di girarlo – ha aggiunto Alessandro Caverni – Abbiamo così cominciato a riflettere sulla realizzazione pratica e durante la stesura dello story board pensavamo già ad un largo uso della sovrimpressione per sfruttare il più possibile i dettagli del tappeto di Lucia. Ad accoglierci sono poi stati i ragazzi del Graf a Bologna , gentilissimi ed ospitali, ed abbiamo girato il tutto in due giorni presso il centro comunale che loro gestiscono nel quartiere di S. Donato“
“Negli spazi del Graf San Donato è stato montato un vero e proprio set – ci ha detto Domenico Parrino – Per quanto riguarda invece il montaggio, ho scelto uno stile che facesse un largo uso delle sovraimpressioni, per raccontare al meglio le sfaccettature del videoclip e per dare ad ogni immagine il giusto flusso visivo per intrecciarla con quella successiva. Le stesse impressioni che mi ha lasciato al primo sguardo l’opera di Lucia per poi andare a scoprirne ogni dettaglio. Mentre Filippo, il bambino, è stato libero di agire sull’opera giocando con essa. Senza una sceneggiatura e senza dargli istruzioni, seguendolo e basta come a documentare una sua interpretazione.“
Quello di DRE è un mondo ipnotico, spazio creativo e immaginale “fuori dal mondo”, dove sia possibile lasciarsi andare. Aggettivi come psicotropo, lisergico, optical, visual descrivono solo in parte gli orizzonti che la fusione di suono ed elementi visuali contribuiscono ad individuare nell’arte di DRE, senza che vi sia un ordine prioritario tra gli elementi in gioco. Ecco perché la sua sperimentazione trova nella rete lo spazio più adatto per potersi espandere dalla forma “trance” a quella visuale, attraverso un veicolo che eccede i confini del videoclip per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni del novecento. “Don’t Call Me Artist” è quasi un manifesto programmatico. Anonimo, ad eccezione dei manufatti digitali che produce, l’artista si definisce fotografo, pittore, producer, artista visuale e digitale, musicista. Mentre il suo nome e la sua reale identità rimangono totalmente anonimi, siamo riusciti a fare una ricca conversazione con lui attraverso Hannah, parte del suo team e ufficio stampa. Il terzo e ultimo album di DRE si intitola “Club” ed è un viaggio non convenzionale nei territori IDM/Trance.
Partirei da un brano di cui non esiste ancora l’elemento visual: synesthesya. più che altro ci interessa il significato del termine, perché i tuoi lavori sembra che vadano nella direzione di alcuni visuals, ovvero quella di cercare un connubio tra suono elettronico e immagine digitale, tracciando tutte le connessioni possibili tra il primo e l’elemento visuale. è così?
Synesthesia è un brano contenuto nell’album ‘Killer Rabbit’ dal ritmo soft electro trance, in fondo molto diverso dal secondo ’Second’ e per molti aspetti quasi lontano anni luce dall’ultimo ‘Club’. Synesthesia è un viaggio onirico dettato da alterazioni visive e distorta percezione sensoriale. Attraverso l’immaginario in bianco e nero di Synesthesia si possono intravedere tutti gli altri colori. I video creati dall’artista sono proiezioni di visioni lisergiche che hanno avuto frutto solo per alcuni brani, almeno per ora. In questa Synesthesia il concetto di produzione di contenuti visuals è lasciato all’ascoltatore che può trarre dalle sue stesse percezioni un contenuto immaginario che si può definire chiudendo gli occhi e pensando di vivere in un mondo a colori distorto dalla realtà, bianca e nera, anche senza l’ausilio di sostanze stupefacenti. Le connessioni in effetti partono proprio dalle sinapsi e dalla distorsione delle stesse, o meglio, da quelle sensazioni che ti regalano visuals anche quando non produci fisicamente una clip; quasi come la stimolazione che induce ad una reazione parossistica nell’effetto trigger.
Che tecniche utilizzi? nonostante una certa omogeneità a livello estetico, il bianco e nero per esempio, le tecniche sembrano diverse. Puoi aiutarci ad individuarle?
Per quanto riguarda la meccanizzazione del prodotto visual i video dell’artista sono un mix di alcuni brevi video samples e particolari creati appositamente, lavorati in digitale partendo spesso da una base ricca di contenuti con colori vivaci resi poi ‘piatti’ e trasformati in grafica con effetti ‘sintetici’ tramite il software Final Cut Pro®. I passaggi per raggiungere la resa desiderata sono generalmente molti. Si tratta di unire in mix molti frame con un ‘collante’ unico che ‘sfrutti’ il brano il più possibile, nella sua interezza, e che trovi senso e spazio nella mente dell’artista. Il risultato sono frames in loop, distorsioni della realtà, transizioni luminose, immaginari.
Alcuni video hanno una consistenza più legata ai fenomeni luminosi, e quindi di matrice ottica, altri invece sono esplicitamente legati al design digitale. In entrambi i casi ci sembra che la dimensione sia quella “optical”, anche in riferimento alla stessa storia dell’optical art
L’optical art è un’influenza importante per l’artista e regala spesso stati d’animo e pensieri che lo hanno immerso in mondi lontani dove quasi tutto prende forma e assume una connotazione diversa, alle volte positiva, altre negativa. La traduzione in video di fenomeni luminosi, optical e di grapich design sono le proiezioni degli stessi fenomeni ‘visualizzati’ dallo stesso artista nei periodi di ‘trance’ utili a comporre i brani, prima di comporre i video; sono le distorsioni create dalla mente stessa dell’artista nelle fasi in cui alcune sostanze hanno paradossalmente reso tutto più chiaro e nitido.
La forma del videoclip in quello che fai è forzata fino ai limiti del visual, tanto che i tuoi frammenti ci sembrano adatti alla dimensione ipnotica della performance live. cosa ne pensi?
I concetti di ipnotismo e live sono un punto fondamentale e molto importante. Il progetto ’The Rabbit’ è per la maggior parte un ideale, ma concreto, tangibile e chiaro e ’nasconde’ un artista in totale anonimato che dimostra di avere punti saldi e fermi e di creare (come prima fa nella propria mente) un futuro realizzabile. l’idea di ‘catturare’ l’emozione di chi ascolta e guarda parte dal bisogno di concretizzare più aspetti legati ai sensi fino a forzare, a spingersi oltre, ad immaginare ancora oltre, perché no? In un mondo in cui il desiderio di evasione per alcuni può essere quello di tuffarsi in un mondo come quello di DRE per altri, perché non performare con uno spettacolo che coinvolga in una sorta di teatro sensoriale dove ci si può immergere con lo sguardo e si può ascoltare ad occhi chiusi, dove si possono cercare e trovare euforia, gioia, eccitazione, pianto, eccitazione? Uno spazio in cui ci può ‘lasciare andare’.
Il videoclip di Podio dei Solaris è uno dei più belli in assoluto del 2020. Non è stato inserito nella nostra top 10 dedicata ai video italiani e in quella destinata ai lavori d’animazione, per una svista. Si fa presto a rimediare. Chiara Chemi, autrice della clip e artista che è già stata ospite di indie-eye videoclip, di fatto inaugurando il format video Showreel dedicato a chi realizza video musicali, è una delle artiste più importanti e proteiformi del panorama italiano. Grafica, animazione, live action e ibridazioni coraggiose caratterizzano il suo lavoro. L’abbiamo nuovamente interpellata per raccontarci il suo metodo e il lavoro con i Solaris, ottima band nata tra Cesena e Mercatino Conca con due album all’attivo, l’ultimo dei quali intitolato “Un Paese di Musichette Mentre Fuori c’è la Morte” è stato pubblicato lo scorso giugno per Bronson Recordings e registrato/mixato dal grande Martin Bisi (Sonic Youth, Swans, John Zorn, Bill Laswell, Unsane, Boredoms).
La collaborazione con Solaris mi ha sorpreso molto. Prima di tutto per la scelta , senza compromessi, di lavorare con una band ostica ed estrema, tra le migliori emerse in Italia negli ultimi anni. Ci racconti la tua interazione con loro e come avete lavorato in fase di pre-produzione?
La collaborazione con i Solaris nasce da lontano. Quando, appena arrivata a Bologna, strinsi amicizia con Alan, il batterista (che è anche un videomaker), le musiche dei Solaris erano in fase embrionale, ma già preannunciavano una deflagrazione sonora ed emotiva, uno squarcio nell’underground alternativo per mezzo di sound e testi assolutamente genuini, la cui sostanza riusciva comunque a non sgretolarsi, rispetto a quella ingenuità che attraversa il modus operandi di molte band estreme. I Solaris decostruiscono per ricostruire con elegante ferocia. Nemmeno io riesco ad abbandonare totalmente il Bello quando creando mi perdo nella crudeltà del sentire. Il primo brano ascoltato fu Specchio: una catarsi immediata. L’immaginario, il dark, l’ermetismo poetico dei testi, il vigore emotivo e i sound tipico di un genere musicale che fa pulsare le mie vene e mi ha infuso suggestioni anche a livello subliminale. È una di quelle collaborazioni basate su una fatale simbiosi e assoluta fiducia; per questo i ragazzi mi lasciano sempre libertà assoluta, fortuna che in realtà ho sempre avuto con tutti gli artisti finora; nel caso dei Solaris però c’è una totale assenza di indicazioni anche sul medium, su atmosfere e sulle specifiche tecniche. Forse anche perché proveniamo dalle stesse sottoculture e quindi l’intesa è congenita.
L’animazione, qui mi sembra più spinta ed estrema rispetto alle cose che hai fatto. Mantieni intatta la tua tecnica quasi subliminale in termini di approccio al montaggio, ma mi sembra che la plasticità di movimento e l’espressività del tratto siano più complete e complesse, che cosa ne pensi?
La breve durata del brano e il primo periodo di quarantena durante il 2020 mi hanno permesso di lavorare con più dedizione sulla parte artigianale delle animazioni, mentre per lavori precedenti avevo spesso elaborato soluzioni stilistiche per questioni tecniche, è il punto forte dell’indie. Non è la prima volta che uso un approccio “qualitativo” nell’animazione; in questo settore nasco proprio come Key Animator e animator. L’animazione può essere incredibilmente metafisica e allo stesso tempo paradossalmente distante dalla finzione: ciò che rappresenti nella messa in scena non esiste al di là della simulazione, è l’ontologia stessa; i personaggi non recitano, nascono esattamente come li rappresenti. Amo curare la fluidità dei movimenti e l’espressività, entrambi elementi che questo medium può esprimere in maniera esasperata, disumana, quindi oltre gli involucri della fisicità di un corpo reale, che non sono aggirabili, è più vicina all’essenza, alla Verità, anche se estrema. E Podio è un brano borderline con un videoclip borderline. Talvolta però uno stile più grezzo può accordarsi meglio alle atmosfere. Nel caso di Podio, ritengo che il contrasto tra la naturalezza di alcuni movimenti e la bestialità apparente e motoria di alcune fisicità, sia icastico nel contesto della mia perenne ricerca del Perturbante. Ad ogni modo, per ogni tipo di video e animazione elaboro, prima impulsivamente e poi razionalmente, una tecnica precisa per esprimere con la massima intensità le atmosfere interiorizzate. Inoltre, lavorare sempre nella stessa maniera sarebbe noioso.
Quali tecniche e strumenti hai utilizzato?
Come per tutte le mie precedenti animazioni 2D, ho realizzato tutto in animazione tradizionale: disegno e colore, scanner ed eventuale pulizia fotogramma, montaggio frame by frame su Premiere. Il processo materico della pittura, il contatto con l’inchiostro, la possibilità di percepire fisicamente lo strumento, traslando direttamente le immagini mentali, viscerali, su carta e poi in video; il tratto grezzo come il sentimento fermentato che esplode fuori controllo. Il rapporto così carnale con il mezzo e l’idea implica inevitabilmente una comunicazione emotiva senza filtri e mezzi termini, poiché nella fase creativa lo stesso corpo risponde senza intermediari all’impulso, alla passione. Penso sia anche per questo che alcune mie animazioni risultino molto “dark”, quasi “angoscianti”. Ci sono meno filtri tra animatore, band e il pubblico. Il montaggio per me è sempre una fase di nuove ispirazioni, in cui trasformo la mia idea iniziale in quella che nel frattempo è maturata nel mio inconscio; in questo caso ho giocato di effetti ottenuti da frame e scomposizione delle clip, esattamente come se le animazioni fossero materiale girato.
Mi sembra che il mondo del fumetto, le graphic novel e un pizzico di giappone siano al centro dei tuoi interessi creativi. Mi sbaglio?
Il mio percorso è partito dal fumetto: a 16 anni a Napoli, durante il Comicon, vinsi un concorso per illustratori. Un’editor della Panini, Elena Zanzi, volle restare in contatto con me; lei è stata una figura importantissima nella mia prima formazione, sotto tanti punti di vista. Ma al fumetto mancava il sonoro e il mio amore per la musica era troppo intenso. Ad ogni modo, continuo ad essere molto interessata al fumetto underground, in particolare a nuovi autori come Spugna, Genchi e praticamente tutti quelli editi da Hollow Press. A Bologna ho interagito con tantissimi giovani geniali che esponevano le proprie opere nei centri sociali. Sebbene non la identifichi come una delle mie influenze principali, sono stata incuriosita anche dalla sperimentazione del Sol Levante, in particolare nell’ambito dell’animazione, soprattutto in virtù della presenza di target onnicomprensivi e di una magistralità artigianale. Sono stata affascinata dall’originalità e complessità di artisti d’avanguardia come Kunihiko Ikuhara, Chiaki J. Konaka, Ryūtarō Nakamura, Satoshi Kon. Più che il mondo di anime e manga in sé però, trovo stimolante e presente in maniera subliminale nel mio immaginario, la cultura di Internet intessuta intorno all’universo “otaku”; quella dei vocaloid, della sperimentazione visuale, narrativa e sonora senza limiti e censure, spesso spinta verso i confini più remoti di immaginari poco proponibili nel mainstream per audacità creativa ed emozionale. Il parossismo della repressione emotiva, sessuale, sociale, un punk sintetico, ribellione gridata da voci artificiali di avatar carini. La mia poetica è l’opposto, poiché è un aborto della censura virtuale e reale; pertanto, condividendone il rifiuto dei limiti, è un “analogo-negativo” della cultura otaku sul web. Quest’ultima rappresenta un mondo dalla natura molto interessante, una vera e propria scena; forse l’unica effettiva sopravvissuta, o comunque la più longeva tra le moderne, che ha anticipato l’unica modalità di genesi e sviluppo delle odierne culture audiovisive underground, o meglio, under-layer, post- 2020. Culture più effimere, non per questo meno stimolanti; un inarrestabile ciclo di nascita e rinascita di idee, creatività fluida. È un discorso molto ampio di cui assorbo e rielaboro allusivamente diversi elementi, inclusi quelli relativi all’alterazione del concetto di femminilità e neo-femminismo, dei mostri-monstra, fetish, l’indagine personale sul nesso tra web layer, partizione informatica e substrati della coscienza.
Mi interessa molto in tutti i tuoi video e in particolare in questo, il lavoro che fai sul colore. I tuoi sono lavori che tendono a forme di monocromatismo o bicromatismo molto forti. Il colore c’è sempre anche quando tendi ad azzerarlo ed esplode sempre privilegiando alcune dominanti (il viola, il rosso), Ci racconti da dove viene questo tuo interesse selettivo per i colori?
Per me suono colore, e nello specifico musica e colore, sono inscindibili. Le tinte, le macchie di colore, sia nei miei lavori pittorici sia in video, sono frutto di sinestesie, dunque collegate a quel processo di creazione purista che, in una prima fase, prevede una liberazione quasi aprioristica delle immagini sul mezzo. Nelle fasi successive vado a sottrarre e abbinare i colori visualizzati e creare il simbolismo cromatico per quel video o dipinto, quindi il labirinto figurativo e semiotico in cui nascondere verità e interpretazioni, come in un codice binario. Anche le ombre, il buio assoluto, sono colore, parte integrante del quadro e del senso: le immagini e le figure emergono solo in parte dalla propria oscurità, ansanti, sofferenti, come se fossero un unicum con le tenebre e non riuscissero a staccarsi da se stessi. Né chi vive nel video né chi vive il video è in grado di scorgere completamente chi lo popola e la sua narrazione. L’impossibilità di cognizione, l’estraniamento, il Perturbante.
Utilizzi una tecnica quasi “strobo” per creare l’effetto movimento. ovvero un mix di luce e ombra, fotogramma nero e fotogramma “pieno”, che mi fa pensare a certe interferenze lynchiane. Quello che trovo molto bello è che tu lo utilizzi per creare un’illusione di movimento nel campo dell’animazione quindi in qualche modo sostituendo l’effetto realistico che spesso vediamo con l’applicazione del rotoscopio, con un metodo che sostanzialmente si basa sulla sottrazione. Ci racconti come mai e cosa ti interessa di questa ricerca specifica sul movimento?
L’effetto strobo fa parte del metodo cognitivo-dualistico del contesto cromatico. L’idea era quella di accentuare l’estraniamento creando una sorta di semi-realismo pittorico tramite mere macchie di inchiostro, come immagini nel sangue e un montaggio pseudo-analogico, insolito in animazione. A pensarci ora, il richiamo immediato può effettivamente essere lynchiano, per via di certi episodi di Twin Peaks); ma ho voluto reinterpretare sul mezzo animato una tecnica delle produzioni “live-action” dai toni ferali e spesso usata nel mondo metal; penso a Enter Sandman dei Metallica, tra i miei videoclip preferiti di sempre.
Cosa ti piace così tanto del videoclip come forma espressiva?
Ho esplorato ogni forma di creatività con cui sia entrata in contatto, ma il videoclip è quella che soddisfa pienamente la mia ricerca sinestetica e il mio amore per la musica, con cui le sinestesie sono pure e totali. Se l’arte non è una mutazione della Verità, ma la sua fondazione, la musica può essere forse considerata l’espressione più pura e proba dell’estro e dell’esistenza, il mezzo più diretto nella ricerca ontologica delle verità emotive dei singoli e del proprio tempo e quindi del Perturbante, che è l’essenza. Musica come unico mezzo universale, il più potente e il più elegante, per i greci, l’emblema dell’Arte. Valorizzarne la carica semantica e sensibile tramite immagini è un processo di massimo stimolo intellettuale ed emotivo. Per me qualunque altra ispirazione narrativa o visuale è originata da un input musicale, al punto da creare ad hoc sonorità che mi accompagnino nello sviluppo di un’intuizione.
Ci racconti la narrazione di podio, in relazione o in contrasto alle liriche dei Solaris?
Le liriche dei Solaris sono delle poesie ermetiche, ma tanto pregne di sentimento, di se stessi, da essere al contempo dirette e laceranti, sincere. Di norma evito la letteralità nell’interpretare i testi, ma creo sempre qualche simbolo ad essi ispirato, mimetizzandolo poi nel tessuto figurativo.
Progetti futuri?
Al momento lavoro full-time come videomaker, ma porto avanti diversi progetti: sto ultimando una graphic novel e ne sto elaborando un’altra che testimoni l’ambiente punk e bohéme bolognese, che tanto mi manca, coinvolgendo altri giovani artisti della rossa. Sono in fase di valutazione per una proposta di pubblicazione di una raccolta di mie poesie e sono ovviamente sempre attiva sul campo dei videoclip. Ma soprattutto, ho l’onore e l’immensa gioia di far parte della famiglia di Rocker TV, la nuova tv dedicata al rock con sede nel milanese, nata dalla mente e dalla passione di Mario Riso che, con gli altri ragazzi della big family, mi ha regalato una nuova luce all’interno di una città che mi sembrava troppo lontana dal mio mondo. Ci sono già diversi format attivi, con presentatori e ospiti come Danny Metal, Nyva Zarbano, Vera Spadini, i Punkreas, Cristina Scabbia. Con Mario ho anche collaborato come visual artist, ho curato il lyrics video per il suo nuovo singolo, “Stai con me”
L’improvvisazione è sempre una grande strategia. Ci ha detto questo Shane De Leon nel presentarci il suo bel concept dedicato all’amore incondizionato di un fan per i musicisti che ama. “Your favorite band” esce a tre anni di distanza da “Bobby And Sheila” sotto il nome di Miss Massive Snowflake, combo attivo dal 2004, guidato dall’ex Rollerball e coadiuvato da Andy Brown dei Fontanelle, Jeanne Kennedy, il notevole Jacopo Andreini, già con Squarcicatrici, Ty Herman, Keith Martinez ed infine Fabrizio Testa, bassista e musicista proteiforme.
Psych, garage punk, doom, improvvisazione e persino pop deviato, il metissage sonico di Shane De Leon non avrebbe sfigurato tra i capitoli migliori del catalogo Skin Graft. L’album esce per l’ottima North Pole Records, il cui catalogo può essere consultato da questa parte. Per veicolarlo, Shane ha deciso di realizzare un numero notevole di videoclip, scegliendo di fatto la strada del visual album e mantenendo fede ad uno stile diretto, tra racconto e improvvisazione, Cassavetes e Dave Markey. Girati in parte durante l’esplosione della pandemia, i video realizzati per “Your favorite band” intersecano il tema dell’album e la nostalgia febbrile per l’evento live, con quello che stiamo tutti vivendo e che ha colpito in particolar modo chi come Shane, lavora con la musica, alla costante ricerca di locali e venue che ancora incarnino uno spirito verace, diretto e DIY.
Per l’occasione, oltre ad una ricca intervista dove Shane ci rivela il making di tutti i video realizzati per l’album, indie-eye presenta in anteprima lancio il videoclip di “The Doorman“, divertentissimo gioco realizzato nella galleria d’arte di proprietà dello stesso Shane e interpretato da Gary Halsten, attore parte dello Street School Artist Collective.
Ciao Shane, benvenuto su indie-eye. Vorremmo chiederti, prima di entrare nel vivo, come mai hai scelto di fare una serie di video narrativi per veicolare “Your Favorite band”, il tuo ultimo album. Al momento, incluso l’ultimo “The Doorman”, che presentiamo su indie-eye in esclusiva lancio, i video sono in tutto quattro. Puoi brevemente raccontarci la progressione narrativa, a partire da “Church Casino”, passando per “Oh shoot“, fino ovviamente a “The Doorman?”
Grazie per avermi ospitato, apprezzo molto l’opportunità di parlare del mio lavoro. I video seguono in sostanza la linea narrativa dell’album. Nel video della Title track viene affrontata in modo simbolico la relazione tra il Fan e una Band. Questo particolare tipo di fan può essere problematico e persino offensivo. Riesce ad esprimere i propri sentimenti solo riguardo alla musica e in relazione all’importanza che questa ha avuto sulla propria vita. “Your Favorite band” è quindi incentrato sull’amore per la musica, su quel momento apicale in cui vedi una band dal vivo e ti trasporta, ti commuove fino a spingerti verso il pianto, la risata e anche la rissa. Il video di “Church/Casino” mostra come il fan segua i passi e il percorso della band, adattando la propria vita a quel modello. La musica dal vivo può essere davvero potente. Tieni conto che quando è arrivato il Covid, Miss Massive Snowflake ha dovuto cancellare 20 date del tour statunitense e dieci giorni di registrazione. “To the bone”, “Hot coffee” e “Church/casino” erano già state scritte, ma ho dovuto aggiungere altri elementi per finire il racconto legato al Fan. Abbiamo quindi registrato nei nostri home studios e ci siamo scambiati i file avanti e indietro.
A proposito di Covid. La relazione tra la band e la fanbase che hai cercato di raccontare in modo diretto nei tuoi video si è appunto confrontata a un certo punto con la pandemia globale. Come hai fatto interagire i due temi, specialmente negli ultimi due video, al di là degli aspetti contingenti?
L’ultimo verso di “Your Favorite band”, mi riferisco al singolo ovviamente, è “spero di vederti il prossimo anno, siamo tutti chiusi in casa, ma ho ancora la tua musica e siamo insieme a casa mia”. Si esprime quindi un desiderio struggente per la musica dal vivo, cercando di accontentarsi con gioia di un formato registrato, ma con il forte desiderio per un prossimo incontro. In un passo precedente della canzone, “la Cantante”, non vede l’ora di vedere “Il fan” nelle prime file, “vestito di nero, mentre tiene in mano una rosa”, che presumibilmente lancerà sul palco verso di lei. Le maschere che vedi utilizzate nel video, ci sono semplicemente per proteggere i miei amici e la mia famiglia e mi piace che in qualche modo offrano una periodizzazione al video, anche se gli stessi testi in qualche modo compiono la stessa operazione. In fondo è una macchina del tempo artistica specificatamente fatta durante il Covid 19 e creata appositamente per esso.
Shane, tu realizzi i video nel tuo studio, nel Montana. Hai sempre affrontato tutto con un approccio personale e artigianale per quanto riguarda il videomaking, penso al video di “Bobby and Sheila”, dove hai fato tutto da solo. In questo caso hai coinvolto una comunità di artisti e amici. Puoi dirci qualcosa in più sui volti e i protagonisti che compaiono nei quattro video realizzati per la promozione di “Your Favorite band”; considerando anche che sono molto diretti, fisici e che i loro ritratti sono uno dei punti di forza dei video stessi…
Ho una galleria d’arte e uno spazio per performance chiamato Kirk’s Grocery. La sua esistenza è ispirata ai luoghi dove ho suonato per molti anni. Per esempio spazi mitici in Italia, come Manitese, Cox 18, Fanfulla, Clandestino, diversi centri sociali e naturalmente gli “house parties” statunitensi, i locali DIY, le gallerie d’arte. Sono stato costretto a chiudere per due mesi, ma riaprirò proprio il prossimo venerdì per una personale d’arte. Per quanto riguarda gli amici ho chiesto a quelli più stretti di collaborare. Mary Serbe è la Cantante, Nicholas Rogers il Fan. Mary è un’artista e la mia ragazza. Nick è un comico e un buon amico. Hanno svolto un ottimo lavoro ed è divertente dirigere le persone.
In termini di montaggio e riprese, sembra che tu sia molto vicino allo spirito dei video underground dei novanta. Penso a registi come Dave Markey, per esempio. Quel tipo di estetica è un punto di riferimento per te?
Non ho mai pensato a questo, ma naturalmente, avevo 21 anni quando usciva Goo. Ho lavorato in un negozio di dischi di San Diego, ho amato i Sonic Youth e li ho visti molte volte. Quello che volevo fare era di lavorare principalmente su un muro bianco con l’illuminazione, per isolare il più possibile le figure umane, in modo che tutto sembrasse come un sogno, un frammento di memoria oppure un archetipo.
La musica e i suoni di “Your Favorite Band” si muovono tra noise e improvvisazione, ma con una scrittura molto diretta al centro. I video, secondo te, vogliono seguire la stessa linea, tra narrazione e libertà?
Avessi avuto più budget e una crew a disposizione, avrei certamente aderito maggiormente ai testi, ma credo si sia fatto un buon lavoro comunque. Tutte le riprese sono state fatte in un tempo che non supera l’ora. Adesso che me lo fai notare, dovremmo farne uno più rumoroso e sperimentale. Ottima idea.
Puoi dirci qualcosa in più sul personaggio di The Doorman?
La storia della canzone è vera ed è realmente accaduta, qui nel mio spazio espositivo e performativo. Ero l’uomo alla reception per quella notte, durante l’ultimo concerto di una college band locale molto amata, chiamata Rookie Card. Le sequenze dove si vede la band suonare nel video, sono state girate quella notte, proprio qui al Kirks’, quelli sono proprio i Rookie Card. La canzone parla della madre mentre filma la performance. E il filmato è il footage di cui ti parlavo. Un loop pazzesco. ll personaggio nel video è interpretato da Gary Halsten, un attore che risiede attualmente a Billings (n.d.r. città nel sud del Montana). L’ho conosciuto qui da me al Kirk’s Grocery e durante il Covid gli è mancata davvero molto la recitazione. Gli ho chiesto se voleva interpretare The Doorman e lui ha risposto di si. Il personaggio che ha tirato fuori mi fa ridere sul serio. Attraversato da uno snobismo giocoso, ma assolutamente ricco di clemenza. Ha contribuito a condurre il personaggio ad un livello superiore.
Continuerai a realizzare video per il concept di “Your Favorite band” oppure questa è l’ultima clip della serie?
Ho in programma di realizzare ancora due video; uno per “To The Bone” e l’altro per “What a Wall (Flags Mean)”. Concluderanno la trama complessiva del Fan e della Band. Mi sono divertito a realizzarli e adesso ne abbiamo molti. Mentre lavoravo alla scrittura delle canzoni, tutto era un po’ avviluppato nella mente. Sono felice di aver raggiunto un compromesso con semplicità. L’improvvisazione è sempre una grande strategia!
“Francesco de Gregori – I testi. La storia delle canzoni” è il corposo volume di Enrico Deregibus, costituito da ben 720 pagine. Opera originale e eccentrica rispetto a quello a cui ci ha abituato l’editoria italiana di settore. Nata da una lunga ricerca di Deregibus, rivela aspetti inediti, sdipana analisi approfondite, dona generosamente numerosi anedoti. Dopo la biografia “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi”, Deregibus torna quindi a collaborare con Giunti, dedicandosi a più di 200 canzoni, con i testi ad accompagnare la disanima, controllati e verificati dallo stesso De Gregori. Ma immaginarsi il libro come una semplice operazione analitica sul corpus delle liriche è sbagliato, perché lo scopo di Deregibus è un’indagine a tutto tondo, ove la genesi storica, le fonti, ispirazione e scrittura, raccontano un percorso nuovo con il rigore dell’analisi Storica. Sono infatti centinaia le dichiarazioni e le interviste in esame.
Martedì 23 febbraio alle 18.50 in diretta su Facebook e Youtube (@conversazionisulfuturo), il curatore Enrico Deregibus sarà ospite di “Sette meno dieci”, la rassegna web ideata e condotta da Gabriella Morelli e Pierpaolo Lala e promossa da Diffondiamo Idee di Valore, Conversazioni sul futuro, Io non l’ho interrotta e Coolclub.
“On earth, and in heaven”, il nuovo album di Robin Thicke, arriva dopo una lunga catena di perdite e lutti personali. Ritrova in qualche modo purezza e speranza, attraverso quello spirito soulful emozionale e positivamente radiofonico a cui ci ha abituati. Il video di “Look Easy” potrebbe essere un vero e proprio manifesto, e Thicke lo ha dedicato a tutti “i lavoratori in prima linea, le madri, le figlie e le nonne del mondo“. Non c’è un riferimento esplicito alla pandemia e alle perdite che ha causato, ma in qualche modo il senso di rinascita e la malinconia profonda che le immagini dirette da Nick Leopold evocano, alludono ad una realtà che sembra ancora promanare come un sogno, direttamente dagli schermi. Curioso che molti video del momento utilizzino vecchi dispositivi come i televisori di venti, trenta anni fa, in forma di totem-metafora. Sono nuovamente acquari dove poter osservare altre vite, anche solo immaginate o sepolte, in apnea, tra i flutti della memoria. Apparentemente scanzonato e girato a Los Angeles, il video di “Look Easy” ha l’evanescenza lontana di un ologramma. Parte dell’agenzia creativa Skinny Empire, Leopold è un regista dai grandi numeri, anche quando si occupa di branded content e veicola la tipica, solidissima immagine corporate. Per il video di “Look Easy” dimostra una maggiore versatilità, ma tiene al centro quel senso pirotecnico del set, tra CGI e corpi, che contraddistingue le sue produzioni
La Iceberg Creative Marketing è tra quelle agenzie che oltre alla realizzazione di videoclip, si occupa anche di social media marketing e di servizi di comunicazione integrata. Un po’ la croce e delizia del paese, da una parte necessaria per seguire un progetto non solo dal punto di vista del videomaking, dall’altra esempio di un vuoto strutturale molto preciso. Tranne rari casi in Italia non si vive realizzando solamente videoclip. Al contrario, sarà difficile, per esempio, vedere una sigla come Canada legata alla realizzazione di video per matrimoni, pena il crollo di un’identità artistica specifica e ricercata, anche nell’ambito dei branded content. Detto questo, il video di “Non vuoi più” è un onesto ritratto performativo, con qualche idea per smuovere l’immagine al ritmo del nu-soul proposto da Massimo Cantisani
Cressa Beer gioca con i mostri. Lo statement che presenta i lavori della videomaker e creativa statunitense è già una dichiarazione di intenti. L’interesse è verso la dimensione creaturale e manuale dello stop-motion. Per quanto i video prodotti e diretti dalla Beer non siano solamente legati al mondo dell’animazione, questa progressivamente contamina la messa in scena tradizionale e dialoga con il mondo infinitesimamente miniaturizzato della puppet animation.
Basta guardare un video come “Blood” realizzato per Sidewalks and Skeleton, parto mostruoso che strizza l’occhio al body horror, per situarsi immediatamente dalle parti del gioco infantile, incubi inclusi.
La Beer, nel suo showreel pubblico separa nettamente i lavori stop motion dal videomaking “tradizionale” e questa dicotomia, reale in termini di scelte produttive, si è progressivamente assottigliata per confondere spazi e dimensioni creative.
In questo senso il suo video più completo è proprio l’ultimo realizzato per la collaborazione tra Chelsea Wolfe ed Emma Ruth Rundle con il singolo di “Anhedonia“, pubblicato su Sargent House.
Da una parte la Beer dimostra di conoscere bene l’universo iconico della Wolfe e mette al centro un vecchio televisore a tubo catodico in versione combo, con VCR incorporato. Gli schermi, il rumore bianco in assenza di segnale, le interferenze eteree, le sovrapposizioni di segnale, hanno attraversato molti degli aspetti visivi legati alla carriera di Chelsea Wolfe, dai video musicali fino agli artwork. In questo senso l’atmosfera in cui ci cala è del tutto famigliare per chi ha seguito la sacerdotessa californiana con attenzione.
Partendo da un termine medico noto tra gli psicologi relativo alla mancanza di interesse verso qualsiasi forma di piacere, le liriche descrivono uno stato di isolamento totale dal mondo relazionale, dove l’unica fortezza per preservare la propria identità è l’Anedonia stessa, un vivere sul bordo che diventa spazio sacro. In termini diversi ne avevamo parlato attraverso il bel film della Brasiliana Moara Passoni sull’Estasi del corpo anoressico. La Wolfe e la Rundle parlano di un’eccedenza simile, quel rimosso scandaloso che ferisce l’occhio e arriva a scavare, oltre le ossa, l’intangibile.
Ecco che nel video della Beer le due interpreti sono congelate nello spazio lontano di una registrazione VHS, tra slacci dell’immagine e principi di smagnetizzazione. Troppo spesso chi scrive di Videomusica (e ce ne sono diversi che lo fanno malissimo) si ferma alla decodifica tecnica e non legge la trasparenza di certi segni. Con il video della Beer è impossibile evitarli, per il dialogo che instaura tra la distanza e la collocazione mnestica delle immagini analogiche e la qualità tattile del suo lavoro.
Allo stop-motion affida l’espressione di un concetto e la mutazione creaturale, da bruco a farfalla, insistendo sulle tracce materiali dei polpastrelli come se fossero tramature da opporre al deperimento del mondo analogico.
Alla fine, la splendida farfalla bianca che ha tutta la forza e la tenerezza dell’artigianato, viene inglobata e “smagnetizzata” dall’avanzare del supporto.
Tra i numerosi video che hanno cercato di raccontare quello che stiamo vivendo, spesso in modo triviale, diretto e im-mediato, questo di Cressa Beer ci sembra uno dei più forti; un grido disperato contro la violenza fuori e dentro la cornice.
Il nuovo video di Dj Muggs è in realtà un lavoro collettivo, suddiviso tra l’editing di Will Renton, il lettering in latino di Ayis Lertas e il lavoro su alcune sequenze tratte dal patrimonio cinematografico trattate da Kyle Hurley. Oscuro e apocalittico, si allinea perfettamente allo spirito del geniale produttore. Le immagini cercano possibili sinestesie oltre al tentativo di inventarsi una narrazione con strumenti combinatori. Più forte l’elemento evocativo; il bianco e nero e il rumore dell’immagine come traduzione visiva di un’idea sonora; i motivi grafici, il lettering e la simmetria ricercata tra le immagini, come patterns visuali. Concettuale, ma senza che il concetto spazzi via la costruzione di un mondo suggestivo e immaginale.