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The Runaways, il box con tutta la discografia dal 76 al 78: video recensione

La storia della “all female” rock band che ha influenzato molte musiciste dell’ampio bacino “riot” durante gli anni novanta, si è sedimentata tra ascolti e immaginario qualche decennio dopo la loro brevissima avventura discografica.
Al mondo di transizione tra glam e punk che The Runaways hanno attraversato, Floria Sigismondi ha dedicato un film “infedele” per quanto riguarda il dettaglio filologico, ma con alcuni spunti interessanti per definire la mutazione di quella semantica rock di dominio maschile, riletta con un’aderenza così smaccata ad alcuni stereotipi sessisti, da rappresentarne un furibondo rovesciamento.
Nate da una collisione tra lo spirito individualista di Joan Jett e l’ansia di controllo di Kim Fowley, la band pubblica quattro album in studio e un live registrato in Giappone, tra il 1976 e il 1978.
Nelle mani del re mida del rock ad alta deperibilità, suoni e attitudini che già erano presenti nella discografia di Alice Cooper e dei Kiss, accendono un’energia primigenia inedita che si imbratta di sesso, perdizione e sangue mestruale.
Mentre non lasceranno tracce rilevanti negli States, nonostante un contratto con la Mercury Records, il successo vero arriverà dal Giappone, terra di estremi opposti, dove le attitudini visual avevano individuato nella figura di Cherie Currie un’icona irresistibile.
Fowley si ritaglierà un ruolo invadente e in eccedenza rispetto a quello del produttore, estremizzando tutte le caratteristiche abusive, borderline e violente del decennio. Molte le testimonianze che hanno cercato di riscrivere la storia della relazione tra le Runaways e il noto produttore americano, a cominciare dal punto di vista di Jackie Fox, prima bassista della band dal 75 al 77 e vittima di un sistema che considerava lo stupro un rito di passaggio necessario.
Con una formazione in continuo cambiamento nonostante la concisa storia produttiva, il cuore della band era rappresentato dalla chitarra ritmica di Joan Jett, quella solista di Lita Ford, la batteria di Sandy “Pesavento” West, la voce dell’iconica Cherrie Curie e il basso di Jackie Fox.
Miracolosamente sospese tra hard rock, punk e armonizzazioni ancora legate alle girl band dei sessanta, prima che le rispettive strade soliste di Joan Jett e Lita Ford cominciassero a flettere da una parte o dall’altra, The Runaways sono una di quelle band “terminali” rispetto al decennio di riferimento. Chiudono i settanta con un’ansia indomabile per il successo, ma ne sondano limiti, sporcizia, violenza e crudeltà, tanto da rappresentare, per più di un motivo, la fine del sogno americano che scorge già la nuova grande truffa, quella dell’industria porno. Cherie Currie, definita da Kari Krome come la figlia immaginaria di Iggy Pop e Brigitte Bardot, abita perfettamente quella terra di transito tra innocenza e perversione, abitata anche da Linda Lovelace.

The Runaways vengono celebrate con un’ottima raccolta pubblicata da Cherry Red, già label nella fase conclusiva della band, quando il quartetto, con una formazione già cambiata, pubblicherà il quarto album da studio intitolato “And Now… The Runaways“.

Nel Boxset in formato Clamshell, sono inclusi i quattro album da studio e il live registrato in Giappone. Il cofanetto è corredato di un bel booklet a colori, realizzato con la consueta cura e attenzione per l’approfondimento che caratterizza i prodotti della label britannica.

The Runaways, Neon Angels on the road to ruin 1976-1978, 5CD Box Set si acquista sul sito ufficiale Cherry Red per sole 30,99 EURO. Vi ricordiamo, che gli acquisti sullo shop Cherry Red, nonostante provengano dall’Inghilterra, non sono sottoposti a spese doganali. Come abbiamo raccontato da questa parte, la label inglese è una delle poche realtà oltremanica ad aderire al regime opzionale IOSS, che consente ai clienti europei di acquistare senza spese aggiuntive, nonostante la Brexit.

Di seguito il nostro video unboxing per vedere cosa c’è nella scatola dedicata all’intera discografia delle The Runaways.


La Notte di Sonic Acts: il video report @ Biennale Musica 2023

La Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti, ha ospitato il collettivo Sonic Acts da Amsterdam , l’organizzazione che dal 1994, con festival e progetti, ha rappresentato uno dei rilevatori principali dell’elettronica globale.

La Notte di Sonic Acts, uno dei due eventi organizzati in collaborazione con La Biennale Musica 2023, il 20 ottobre 2023 scorso ha portato nello spazio modulabile del Teatro Alle Tese di Venezia, presso TESA 2, le propaggini più sperimentali dell’elettronica coeva, tra club music decostruita, epic collage ed esperienza audiovisiva immersiva.

Sul palco: Emme, S280F, Soft Break, Aya insieme ai visual MFO, Yen Tech, Snufkin e lo straordinario light design di Theresa Baumgartner che ci ha trascinato in una dimensione parallela ed erratica.
Michele Faggi, per indie-eye, ha realizzato un video sintetico di tre minuti, una breve elegia sinestetica della serata: luce, colore e ritmo.

Nel video, anche alcuni landscape veneziani rielaborati.

Per saperne di più su Sonic Acts e sulla documentazione che Indie-eye ha pubblicato durante la Biennale Musica 2023, segui i link dopo il video

La recensione integrale e dettagliata deLa Notte di Sonic Acts

Un profilo degli artisti coinvolti e portati a Venezia da Sonic Acts

La Scheda di Sonic Acts sul sito della Biennale

Sonic Acts, il sito ufficiale

Le streghe della Patria, prima assoluta al Teatro Niccolini

Un progetto voluto e desiderato con irriducibile tenacia quello che andrà in scena al Teatro Niccolini di Firenze, domani 28 ottobre 2023. L’idea risale a dieci anni fa, ma le occasioni per mettere in scena una commedia serissima come la guerra osservata dal punto di vista femminile, non si sono potute verificare fino a questo momento.

L’identità dell’autore si confonde con quella di un collettivo di compositori chiamato Musicisti Anonimi Senza Frontiere, il cui nome in qualche modo ricorda il progetto britannico della SOAS Ceilidh Band, che allestisce concerti per chi non ha stato, suonando insieme a migranti, senza alcuna barriera.

Questo collettivo, presto ribattezzato con l’acronimo MASF, assume l’identità fittizia di Jean Masf e scrive “Le Streghe della Patria“.

Il dramma giocoso in tre atti, mette al centro un gruppo di donne romane in missione nell’entroterra Afghano per la Chiesa e per l’Esercito, rispettivamente come suore ed ausiliarie. Tra servizi segreti e depistaggi occidentali prima di lasciare il paese, la finzione teatrale ribalta la realtà, immaginandosi un gruppo di Talebani persuasi dalle donne a cessare il conflitto. L’occasione è sfruttare un minerale per costruire le basi dell’energia solare, contro l’ipotesi del nucleare e in accordo con le tradizioni zoroastriane. In un colpo solo ci si libera dell’occidente e della repressione islamica, con un nuovo paradigma dove trionfa il punto di vista delle donne.

Sul palco, una serie di attori e un’orchestra di dieci elementi diretta dal maestro Giacomo Benedetti, apprezzato pianista, organista e clavicembalista con una notevole attività concertistica internazionale e promotore di musica antica, insieme all’associazione musicale fiorentina K.O.F. attiva in tutto il territorio italiano con eventi e concerti.

Lo spettacolo, è previsto per le ore 21:00 presso il Teatro Niccolini di Firenze in Via Ricasoli 3, a ingresso libero, con offerta consigliata.

Le foto dell’articolo scattate durante le prove sono di Monica Manetti, ufficio stampa Proscenium

Brigitta Munterdorf, Orbit – A War Series – Biennale Musica 2023: recensione

La ri-concettualizzazione dell’Opera, nel lavoro di Brigitta Munterdorf, passa anche da un processo identitario. La combinazione tra elettronica, cori, modellazione 3D e design illuminotecnico, smembra e ricostruisce la riconoscibilità dei soggetti rappresentati, per rilanciare altri significati in un’estrema spazializzazione del suono.

Orbit – A war Series, il lavoro commissionato dalla Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti e andato in scena il 22 Ottobre al Teatro alle Tese III, è anche una riflessione sulla spettralità della coscienza, sospesa tra memoria e ricombinazione simulacrale.

Il punto di partenza è la soppressione violenta dei corpi, lo stupro e la violenza contro le donne, strumenti transnazionali di guerra e potere, architettati per spezzare tutti i legami originari.
I materiali narrativi utilizzati dalla compositrice austro-tedesca sono costituiti da alcuni testi clonati con l’Intelligenza Artificiale, field recordings, testimonianze registrate, rumori sospesi tra il mondo organico e quello digitale, tutti convergenti nella creazione di una techno-orchestra, la cui sostanza ritmica viene determinata dalla trasformazione e dalla sintesi elettronica.

Ma è il modo in cui lo spazio viene concepito a determinare una disperata ricerca di senso.
Si entra in una dimensione sospesa tra la realtà mondana e quella rappresentativa, dove uno speaker posizionato su stativo, viene inglobato nel cono di luce generato da uno spot direzionale.

Tutti in cerchio ascoltiamo la voce di Christina Lamb, una delle più importanti corrispondenti di guerra dall’Afghanistan e dal Pakistan, mentre descrive la logica razionale e spietata dello stupro come arma bellica. Dai ratti della Grecia antica, già oggetto di studio per Giselda Pollock nel suo Differencing the Canon, passando per le donne tedesche stuprate dai soldati sovietici durante la liberazione di Berlino, fino alle atrocità in Bielorussia, nei campi di internamento dello Xinjiang e per mano delle milizie di Boko Haram, il prologo descrive un’ineluttabile geografia della violenza moltiplicata dalla pluralità di variazioni digitali desunte dalla voce principale.

Nella stilizzazione estrema di quel totem che osserviamo muti, cercando di percepire le sfumature di un suono che diventa sempre più immateriale e sconnesso dal referente umano, il gelo di un canto funebre ci attraversa.

L’ambiente successivo è un vero e proprio limbo. Sospesi nella sostanza lattiginosa e amniotica di un fumo denso, non è possibile scorgere i confini se non per i numerosi pouf disposti simmetricamente e che ci accoglieranno seduti. La scena, intesa come centro della rappresentazione, sono gli spettatori stessi, circondati da improvvisi eventi luminosi che cambiano forma e direzione insieme al fumo e da fenomeni aurali che percorrono un anello fatto da molteplici diffusori, disposti tutt’intorno.

Le voci corrono in cerchio, dislocate nello spazio circolare, disegnando un confine fatto di rumore e suono. Field recordings e cloni si alternano, complicando la percezione e le origini del parlato.
Se da una parte il frammento testimoniale continua a documentare la fiera delle atrocità contro i corpi femminili, dall’altra emerge una successione corale costruita con l’ausilio dell’IA.

Il processo di oggettificazione che lo stupro innesca, libera allora artefatti mostruosi in cerca di una collocazione identitaria. Al di là della comprensione del testo e del riferimento diretto al trauma che diventa voce e alla voce che diventa oggetto, è proprio la scansione spaziale che stabilisce la loro aura fantasmatica.

Dove siamo allora, in una zona di guerra, mentre luci e fenomeni sonori suggeriscono più volte bombardamenti in corso? Oppure in un luogo di passaggio tra la vita e la morte, che ha perso totalmente il fascino dei racconti gotici, per diventare una terribile danza macabra?

Le voci strappate dalle loro identità, si ricombinano in una sequenza musicale. Alternativamente vengono in mente la ricerca sui fonemi di Laurie Anderson, il rimario di Meredith Monk, se assegniamo alle due artiste l’introduzione di uno slancio post-umano. Ma è la trasformazione successiva a rivelare la sostanza artificiale della sequenza. Questa viene organizzata in una techno ad alta intensità, che non suggerisce l’atto della danza, ma la perdita di coordinate, dove la contrazione e la dilatazione dei BPM diventa a poco a poco viaggio Kosmische.

Si rimane attoniti di fronte a questa scomposizione sintetica del suono che procede insieme alla cancellazione di ogni atto creativo. Quella di Orbit allora è una cosmogonia rovesciata: risucchiati nel vortice della violenza che ha cancellato tutti i soggetti femminili, la vita può essere riprodotta solo da una moltiplicazione di simulacri mobili in uno spazio pre-formale occupato da eccedenze.

La pratica dell’ascolto, indirizzata a tutti noi, diventa l’unica in grado di contestualizzare questa esplosione degli elementi sonori.

Si vedono alcuni spettatori piangere, altri atterriti, una parte annichilita dalla violenta sequenza di luci stroboscopiche.

Alcuni, completamente dentro la relazione tra suono e design spaziale, chiudono gli occhi e attivano nuovamente la visione in un’arena dove è stata volutamente bandita.

Brigitta Munterdorf realizza un’opera sorprendente, capace di scuoterci e metterci al centro di una riflessione dolorosa sul corpo e la formazione identitaria. Lo fa con un insieme di illusioni scenotecniche e con la forza combinatoria di voci e suoni scagliati nello spazio.

Nothing Can Ever Be the Same, l’estetica di Brian Eno secondo Gary Hustwit e Brendan Dawes

Brendan Dawes è da alcuni anni che esplora possibilità di algoritmi e modelli statistici nell’interazione con le macchine. Machine learning puro che gli consente di applicare i principi generativi a svariate forme di arte figurativa. Non manca una componente materiale, che rappresenta spesso il prodotto finale delle sue ricerche, quasi per assegnare al regime digitale le qualità di quello tattile.

In termini audiovisivi ha spesso operato delle sintesi cinematiche partendo da un concetto non dissimile dalla Camera Stylo di Astruc, immaginandosi la portabilità dei dispositivi coevi e le possibilità di moltiplicare il punto di vista da angolature impensabili, come una nuova onda rivoluzionaria che riecheggia l’entusiasmo di quella francese degli anni sessanta.

L’incontro con Gary Hustvit, documentarista e filmaker interessato alla storia del design, ha dato origine ad un lavoro ibrido ispirato alla prassi compositiva di Brian Eno e realizzato dando in pasto alle macchine centinaia di ore tra musica, interviste e video originali mai visti, legati alla lunga carriera dell’artista inglese, celebrato quest’anno alla Biennale Musica 2023.

Inaugurato in prima assoluta con l’approccio di un’installazione lo scorso 22 ottobre nella Sala D’Armi E dell’Arsenale a Venezia, il video proiettato frontalmente su grande schermo, sarà visibile fino al 29 di Ottobre nelle fasce orarie dalle 10 alle 18. Non smetterà di girare in questi giorni di programmazione, perché la durata complessiva è di 168 ore sottoposte a continua mutazione. Si può quindi entrare e uscire in qualsiasi momento, oppure consumare una maratona continua di otto ore facendosi assorbire dall’ipnosi di questa casualità combinatoria.

Introdotti da Lucia Ronchetti, direttrice della Biennale Musica 2023, Dawes e Hustvit hanno spiegato il loro lavoro con i materiali, distinguendo Nothing can ever be the same dall’imminente documentario dedicato a Eno, che lo stesso Hustvit sta realizzando. Fonti, informazioni e materiali sono comuni, ma cambia radicalmente l’esito. Ronchetti ha parlato di applicazione dei parametri sonori che hanno costituito l’ossatura del lavoro compositivo di Brian Eno, all’intero apparato visivo della video-installazione; se per Eno la musica registrata è un immenso archivio di frammenti sonori, ma anche illimitata palette acustica disponibile per i compositori, Dawes/Hustvit, operano una messa in abisso di questo mondo creativo, realizzando una ricca tavolozza di suoni e immagini che siamo chiamati a percepire e interpretare per un’inedita convergenza tra creazione artistica e automazione digitale.

La tecnologia, ha aggiunto Hustvit, è libera di scorrazzare tra la documentazione video dedicata a Brian Eno, che ammonta a circa 500 ore. C’è quindi spazio per interviste e materiale istituzionale, ma emergono anche i video che Eno stesso ha realizzato a New York nei primi anni ottanta.

Ostile alle forme del cinema tradizionale, Hustvit rivendica quindi una specifica concezione di durata che non sia incapsulata nello spazio definito dai confini narrativi. Il suo film cambia costantemente e imbocca direzioni inaspettate anche per gli autori. Un desiderio creativo che spinge l’opera verso una direzione radicalmente performativa. In termini realizzativi è quindi il contributo di Dawes a consentire questa morfologia. L’indeterminatezza combinatoria è quindi alla base del progetto tecnico di ricontestualizzazione dei frammenti, non sappiamo cosa vedremo oggi quando accenderemo il video. Il che è contemporaneamente terrificante ed emozionante, ha detto Dawes.

In termini empirici, come spettatori critici, abbiamo visto quasi due ore di film e la macchina al lavoro sembra elaborare una serie di istruzioni algebriche per generare svariate moltiplicazioni della matrice. Per matrice intendiamo un effetto che in termini scopici risulta come la moltiplicazione di una o più immagini nella forma di un grande split-screen, costituito da moltissime cellule. Queste possono essere in sincrono oppure no, e se si esce dalla lettura necessariamente frontale della cornice, generano altre forme, come se fossero pixel di un contenuto più grande.

Il suono stesso può scomparire ex abrupto, de-sincronizzarsi, fondersi tra parola e repertorio discografico e reagire con sinestesie imprevedibili, insieme ai movimenti della matrice, glitch inclusi.

Il difetto è evidentemente contemplato e forzato da alcune varianti del calcolo, ma tocca affidarsi ad ipotesi intuitive per essere analitici.

Ciò che conta è quindi perdersi in questo continuo affastellarsi di immagini, ricombinate da una logica casuale che a tratti diventa dialogo tra luce, colore, forma e suono, nella direzione di una vera e propria musica cromatica riletta attraverso i dispositivi del digitale.

Crediamo non sia casuale il settaggio della macchina in questi termini, perché recupera in fondo le intuizioni di quella storia del Novecento da cui lo stesso Brian Eno è partito. Impressioni, rotture, difetti del sistema che scendono a patti con il caso e inglobano quindi musica, ma anche silenzio e rumore.
Non può non venire in mente la ricerca di Bruno e Arnaldo Gianni Corradini, le animazioni di Oskar Fischinger, Len Lye, ma anche Wharol, da cui Eno stesso ha desunto alcune intuizioni sulla durata, in termini più strettamente contemplativi.

Rimane da considerare se è più emozionante la nostra relazione con le infinite possibilità combinatorie macchiniche, di cui osserviamo tutte le evoluzioni formali, o se fosse invece più intenso esser costretti a mettere sottosopra il nostro vecchio G.B.C. a tubo catodico, per affondare nell’acquario verticale di Thursday Afternoon.

Brian Eno, la consegna del Leone d’oro e l’incontro: il resoconto

Roberto Cicutto, presidente della Biennale di Venezia e Lucia Ronchetti, direttrice artistica della Biennale Musica, hanno consegnato il Leone d’oro alla carriera a Brian Eno, nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, il giorno successivo alla prima mondiale di Ships, il lavoro commissionato dalla stessa fondazione al musicista inglese, eseguito al Teatro La Fenice con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi e recensito anche qui sulle pagine indie-eye.
L’articolata motivazione, letta dalla stessa Ronchetti, descrive prassi e scelte che hanno rivoluzionato il modo di intendere lo studio di registrazione e la composizione nella lunga carriera di Brian Eno.

L’aspetto centrale, che ben si integra con tutto il lavoro di connessioni e contaminazioni pensate per l’edizione 2023 del festival, è quello di una ricerca mai sopita sulla qualità e la bellezza del suono digitale, ma anche la concezione dello spazio acustico come strumento compositivo.
L’orchestra amplificata di Ships, disegna e coglie lo stato fluido e caotico della vita interna al suono, identificandone gli elementi più instabili e più ampi. Come nell’ipotesi metadiscorsiva Monteverdiana, Eno propone un’analisi compositiva attraverso dilatazioni e ricorrenze di echi acustici, flussi sonori lenti ed esitanti, che fanno emergere configurazioni armoniche inudite, inaudite, fantasmatiche.

Con la mitezza che ha sempre contraddistinto le sue uscite pubbliche nel contesto di interviste e approfondimenti, Eno ringrazia sentitamente, e riconosce come un’occasione unica la possibilità di lavorare con un ensemble che supera i 40 elementi, grazie all’invito di Lucia Ronchetti e della Biennale: Non ho mai avuto una grande simpatia per le orchestre si scherniscea causa del mio background legato alla musica pop, ma ho cambiato completamente prospettiva quando ho incontrato i musicisti della Baltic Sea, il cui amalgama non è quello di un’orchestra tradizionale, ma di un gruppo di persone che ama davvero suonare i propri strumenti. Anche per questo ho pensato che avrei potuto collaborare con loro. Ecco che ho incontrato Kristjan Järvi, il loro direttore, un vulcano di energia e creatività

Eno gioca con l’appellativo di “maestro” o con la definizione di “genio”, confessando un certo disagio rispetto al significato che viene attribuito al titolo: Una cosa lusinghiera, certamente, ma nessuna idea viene fuori da una sola persona. Aggiunge di aver avuto la possibilità di vivere sotto una stella fortunata, in una cultura che teneva in considerazione l’arte creativa e che gli ha consentito di frequentare la scuola d’arte, un aspetto inesistente nell’Inghilterra di oggi dove tutto si paga.

Questa idea di mobilità ed egualitarismo sociale tornerà più volte, soprattutto nella conversazione con Tom Service, giornalista della BBC che ha condotto una conversazione di circa mezz’ora con l’artista.
Prima del Q&A, ha sottolineato quanto La Biennale sia un esempio virtuoso per amore e tradizione nel sostegno delle arti e della cultura.

La formazione bristoliana di Eno comincia dalla pittura durante gli anni sessanta, attraverso gli studi alla scuola d’arte e l’amore per gli artisti russi degli anni venti. Lo racconta subito a Tom Service per definire un concetto fondamentale nella sua concezione creativa: La storia di un’artista è la storia di un’intera scena che comprende la critica, i galleristi e tutto il motore che muove e si muove intorno ad un’opera. Viviamo in tempi dove siamo costretti a confrontarci con una certa idea di genialità, legata a figure come Elon Musk o Steve Jobs. Quando si osserva con attenzione le loro storie e quelle dei loro prodotti, si comprende come tutto ciò sia in realtà scaturito da una complessa rete socio-culturale.

Per sottolineare questo aspetto si affida ad una metafora biologica, raccontando le strutture fungine, come organismi complessi di cui il fungo è solo una parte dell’insieme: Io stesso mi immagino come un fungo – dice giocando con il pubblico – anche se non sembra un’immagine così lusinghiera”. Si oppone quindi al mito statunitense del self-made-man, accentuando la necessità di valutare ciò che ci circonda, dal sistema educativo fino a quello delle comunicazioni e dei trasporti.

Alla domanda di Service legata ai modi e alle scelte che ha attivato per superare limiti e confini tra linguaggi e discipline diverse, Eno ribadisce l’importanza della sua formazione come pittore. Al di là delle intenzioni nel diventarlo, quel luogo ha avuto un ruolo centrale nell’Inghilterra degli anni sessanta, perché consentiva di conoscere nuova musica, più che all’interno degli spazi formativi deputati, dove l’accademia seguiva principi austeri, noiosi e impermeabili. Ricorda a questo proposito una lezione tenuta dal grande Morton Feldman nella scuola d’arte frequentata da Eno. Questa era inserita nello stesso complesso del college musicale, ma da quell’edificio non venne nessuno ad assistere alla conferenza.

Sono gli anni in cui cominciano ad apparire una nuova generazione di strumenti: i sintetizzatori, ma anche i registratori a nastro, e pensai che non ci fossero ancora regole per il loro utilizzo. Potevo suonarli come avrebbe potuto fare qualsiasi altra persona al mondo, perché nessuno sapeva ancora come sfruttarli.

Proprio in quel momento comincia a collezionare registratori a nastro a tal punto da arrivare a possederne ben 31: Pensavo che fossero gli strumenti più interessanti in quel momento perché potevi fare qualsiasi cosa con il suono registrato su nastro, ampliarne la durata, riprodurlo all’indietro, ed era stupefacente, potevi cambiare l’ordine del tempo, non c’era niente di simile nella storia prima di questo, per questo ne ero completamente affascinato.

Il giornalista inglese gli chiede se lo stesso entusiasmo degli anni sessanta sia rimasto intatto nella percezione che ha successivamente avuto della tecnologia con cui si è confrontato durante il suo percorso artistico. Eno mette allora a confronto due idee opposte. Quella di chi ha sfruttato una pulsione adolescenziale per sviluppare i social media, progettati a suo avviso per dividerci in base a polarizzazioni distruttive, contrarie ai principi di comunità. E l’idea di premio come possibilità d’incontro proficuo e di scambio reciproco tra chi percepisce un oggetto d’arte e chi lo produce.
Al contrario, i social media capitalizzano il proprio successo sulla base delle differenze che ci dividono. Estensione di questo aspetto è per Eno la crescente tendenza autoritaria dei governi.
E a questo proposito fa l’esempio di Israele, ripetendo alcuni concetti che sono già noti per la sua adesione al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni noto come BDS e che sostiene la causa del popolo palestinese.
Non ho mai avuto un account social media – aggiunge – e mi sento molto brillante per aver preso questa decisione.

Service allora lo incalza chiedendo quale sia la differenza tra l’algoritmo utilizzato dai social media per ragioni di profitto e quello che ha caratterizzato la sua ricerca sulla musica generativa.
Eno distingue le due percezioni in base alla curiosità per i mondi sconosciuti: Gli artisti che si credono audaci, combattenti, rivoluzionari – specifica – talvolta possono risultare terribili. Ciò che mi interessa è la creazione di mondi esterni e sconosciuti. Questi possono estendere il vocabolario che usiamo per comprenderli, incluso quello dove viviamo. Questa stessa esplorazione consente di sperimentare il superamento di un limite e di domandarsi quanta libertà potremmo avere, come potremmo affrontarla e gestirla.

In questo cuneo, per Brian Eno è fondamentale la differenza tra scienza ed arte. La prima si occupa di questo mondo e della sua misurazione. L’arte è invece legata a mondi che ancora non conosciamo: Come potrebbero essere? Cosa accadrebbe se fossero percepiti in questo modo? Come potremmo farne esperienza? La scienza per necessità cerca di escludere il più possibile i sentimenti, nessuno vorrebbe che la verifica di un esperimento risultasse compromessa solo perché chi la esegue si sentiva depresso o perché il suo matrimonio sta andando a rotoli. L’arte è invece interessata anche ai sentimenti, i sentimenti sono la prima cosa con cui abbiamo a che fare, pensare è la seconda cosa che facciamo. Prima sentiamo e poi se ci è possibile traduciamo il tutto razionalmente e successivamente decidiamo di agire. Le persone pensano che i sentimenti siano l’aspetto più soffice della questione e quindi tendono a non considerarli seriamente. Di fatto molte delle decisioni più importanti vengono fatte sulla base dei sentimenti, non sulla base di dati, quando per esempio ti senti innamorato, vuoi passare la vita con una determinata persona, quando vuoi evitare qualcuno, quando pensi al lavoro che desideri fare, dove vorresti vivere, se avessi la possibilità di scegliere. Non si tratta di calcoli, ma di decisioni basate sui sentimenti. Dal momento che possiamo utilizzare queste due forme di conoscenza, si tratta di bilanciarle e di rispettarle entrambe.

E se ForeverAndEverNoMore, l’album di Brian Eno pubblicato nel 2022 prefigura l’estinzione del pianeta, la visione di Eno cerca di bilanciare due aspetti senza offrire risposte certe.
Se la scienza ci offre un quadro terrificante, c’è un modo per definirsi ottimisti recuperando una frase di Gandhi sulla democrazia: sarebbe una bella idea, rispondeva il Mahatma a chi gli chiedeva cosa ne pensasse. Prassi quindi. Per un socialista come me – ha specificato – l’unico modo per conservare un deciso ottimismo è fare di tutto per realizzare un mondo più giusto ed egualitario per le persone di altri paesi, per le donne, per le persone con disabilità, cercando di arrestare questa condizione secondo la quale alcuni possono diventare oscenamente ricchi, come effetto e conseguenza della ciclicità continua del capitalismo.

Se allora, sempre per Eno, l’idea di democrazia attuale è minata dall’attitudine di alcuni potenti ad esercitare con assoluta certezza le loro ragioni, la sua musica, da sempre, preferisce abitare incertezza e dubbio. Godere di quella significa sperimentare ogni giorno, perché l’arte ha questa possibilità di creare oggetti seduttivi, strani e nuovi allo stesso tempo. Dovremmo allora vivere e amare il mondo, senza sopprimere la parte più difficileha concluso ovvero senza doverlo per forza comprendere.

[Foto dell’articolo – Ships, prove dello spettacolo – foto di Bernd Possardt, gentile concessione ufficio stampa La Biennale Musica 2023 ]

Brian Eno, Ships – Live al Teatro La Fenice, Biennale Musica 2023: recensione

Prima che diventasse centrale il dibattito relativo alla produzione di contenuti basati su modelli di apprendimento profondo, Brian Eno aveva già sviluppato e messo in pratica i principi della musica generativa, perfezionando lungo tutta la sua carriera la relazione tra sistema e casualità, tanto da spostare progressivamente la centralità dell’autore verso quei confini occupati dalla programmazione. Più della dimensione performativa, è l’organizzazione dei frammenti nello spazio potenzialmente infinito della durata a determinare la qualità dell’esperienza, finalmente libera di accogliere la percezione soggettiva dell’ascoltatore con un alto grado di indeterminazione.
The ship, ventiseiesimo album del compositore inglese e quinto pubblicato per Warp Records nel 2016, veniva accompagnato da un film prodotto insieme al laboratorio giapponese Dentsu Lab, con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale. Veicolato attraverso un sito specifico non più attivo, elaborava il dialogo tra aurale e visuale che da Mistaken Memories of Mediaeval Manhattan, ha rappresentato uno snodo fondamentale di questa relazione attiva con il fruitore, nella creazione di sistemi generativi non lineari all’interno dell’opera complessa di Brian Eno. In questo caso, il sistema di apprendimento della macchina, poteva nutrirsi di un largo patrimonio storico-fotografico, in correlazione con un feed di news, la cui convergenza doveva creare una memoria collettiva dell’umanità. Era l’interazione con gli spettatori a determinare tutte le possibili fessure nel sistema cognitivo della macchina, così da generare l’inaspettato attraverso l’ingresso determinante della componente umana.

Ships, lo spettacolo dal vivo commissionato da La Biennale Di Venezia andato in scena oggi alle 15 e alle 20 in prima mondiale al Teatro La Fenice, parte da questi stessi presupposti, per condurre la musica di Eno in una direzione emozionale più intensa rispetto all’interattività ricercata con la videopittura, le installazioni e i prodotti transmediali. Oltre ai collaboratori più importanti che figuravano nell’album del 2016, c’è la filarmonica Baltic Sea diretta da Kristjan Järvi, che supera i quaranta elementi. Eno li coordina insieme alla voce aggiuntiva di Peter Serafinowicz, le tastiere del polistrumentista Peter Chilvers e le chitarre di Leo Abrahams.

Nel lavoro a cui lo spettacolo si ispira, la tensione tra voci e struttura, non risolve mai verso la forma canzone, preferendo l’idea di riflesso, di interferenza, di stratificazione aurale e temporale. Anche quando chiude con una versione di “I’m set free” dei The Velvet Underground, ricordandoci il minimalismo timbrico che la informa più dei riferimenti spectoriani e trasformandola in un’elegia della liberazione dalla materia.

Eno stesso ha definito i contributi vocali di quel disco come personaggi evanescenti che emergono e si dissolvono in un paesaggio dai contorni sfumati. Lo sfondo conserva le caratteristiche di alcuni scenari storico-politici, dall’inabissamento del Titanic al secondo conflitto mondiale, ma sono elementi simbolici lasciati alle possibilità combinatorie di chi ascolta.
Per questa versione orchestrale, il cui spirito era già alluso dalla morfologia elettroacustica dell’intero progetto, Eno ha espresso il desiderio di separarsi dall’idea di partitura, per condurre i musicisti in uno spazio di condivisione emozionale.

L’elemento acquatico, che unisce l’ensemble di Järvi alle risonanze modali di The Ship, acquisisce una nuova vita e investe l’intero teatro veneziano con le onde da cui emergiamo, per poi trascinarci senza timore verso il fondo.

Un movimento che attraversa tutta la discografia del musicista inglese, da You don’t miss your water a Backwater, giusto per citare un paio di episodi dove ricorre il termine, e che nell’anelito verso il silenzio e il riflesso, intercettano la vita attraverso un processo ciclico, rifuggendo qualsiasi principio “balistico”, per riconoscere l’amore come “un raggio segreto dello sguardo”.

Sul palco l’orchestra che conta più di 45 elementi segue il movimento delle onde, rompendo le righe della disposizione classica. Tutti in piedi e mobili rispetto alla centralità di Kristjan Järvi, officiante di un culto che ricorda la prassi della musica gospel, tanto da stabilire frequentemente un ponte tra orchestrali e pubblico, a cui si rivolge spesso, quasi per lanciare gli elementi materici del suono come oggetti da custodire.

Brian Eno rimane fisso in una posizione elevata, alla destra di Leo Abrahams. Il suo coordinamento passa attraverso sottili manipolazioni elettroacustiche, field recordings di voci stratificate e provenienti da distanze e collocazioni spaziotemporali diverse.

Sorprende davvero la riscrittura di The Ship con i suoni della Baltic Sea Orchestra. Se l’esplosione di un assetto che imitava un grande ensemble era già presente nell’album, lo spostamento verso la dimensione organica del suono è in questo caso totalizzante. Viene recuperata la relazione del suono con gli elementi della natura che ne hanno ispirato la sostanza, spostando il centro percettivo dell’imprevisto che si verificava con la sovrapposizione di suoni irriconoscibili.

È un ambient quasi primigenio quello andato in scena sul palco de La Fenice, con una straordinaria potenza orchestrale, libera come altre forme del Jazz, da Bill Evans ai Talk Talk degli ultimi due album.

Il timing di The Ship è più o meno rigoroso e rispetta le stesse durate, ma cambia radicalmente l’approccio, quasi si trattasse di una traduzione vitale e sensoriale dei principi generativi che sottendono il lavoro di Eno.

La sua voce, filtrata dal vocoder oppure emersa con quella chiarezza cristallina che sembra immutata nel tempo, introduce una seconda parte apparentemente radicata nella forma canzone.

Ed è “I’m set free”, la cover dei Velvet che già chiudeva The Ship, ad aprirsi verso mondi sonori che al posto del linguaggio descrittivo, scelgono la ripetizione, il flusso, la morfologia del cambiamento attraverso l’osservazione delle onde.

Ecco che “By this River”, riconoscibilissima, sembra ancora più chiara dentro la rappresentazione palindroma del tempo, dove le sponde da cui ci osserviamo appartengono a due dimensioni temporali diverse.

“Who gives a thought” e “And then so clear”, trasformano l’orchestra del mar Baltico in una versione espansa della Penguin Cafè Orchestra. Il volume del suono è considerevolmente più potente, ma la materia armonica è davvero molto simile, con quella ricerca di ritmi apolidi e di contaminazioni transnazionali che hanno caratterizzato una parte della carriera produttiva di Eno.

La ricerca di una comunicatività più intensa, capace di rileggere l’esperienza ambient avvicinandola alle sue origini organiche è il cuore di tutto lo show.

E la narrazione è quella dei movimenti apparenti, del moto ondoso che ritorna alla sorgente, dell’osservazione di una natura che ci contiene e ci suggerisce una relazione sempre più stretta tra esterno e interno.

In questi termini crediamo non sia affatto casuale la scelta dei brani da “By this River” in poi, dove il mondo psichico soggettivo muta progressivamente fino agli epifenomeni più sottili e alle particelle subatomiche. Osservazione costante della natura, ma anche inabissamento della componente umana nel tutto.

Ci si commuove davvero rispetto a questa successione, perché comunica attraverso un linguaggio pre-formale, che nell’apparente chiarezza delle parole, rivela con i suoni la scomparsa dell’ego.

La strumentale “Making Garden out of Silence” precede una splendida chiusura con “There Were Bells”, dove alla fine procediamo tutti nella stessa direzione.

[Le foto dell’articolo sono tratte da Ships di Brian Eno con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi (prima assoluta, commissione La Biennale di Venezia) – Courtesy La Biennale di Venezia, scatti di Andrea Avezzù ]

Sonic Acts, la notte di cinque ore alla Biennale Musica 2023: recensione

Il Teatro alle Tese, nel complesso dell’Arsenale, è noto per la sua mobilità combinatoria. Uno spazio perfetto per accogliere l’illuminotecnica creativa di Theresa Baumgartner, artista devota alla sperimentazione audiovisuale, le cui caratteristiche partecipano in egual misura di elementi concettuali e qualità sensoriali, se si considera l’approccio immersivo che la fondatrice del collettivo femminile Bestfilmsforever/BFF assegna alle sue invenzioni nel campo del design di spazi attraverso la luce.

Si entra in quello attaccato all’area drink senza soluzione di continuità, al netto del sipario che divide le due zone, perché il gioco di luci lancia già alcune sollecitazioni prima dell’ingresso effettivo.

Entriamo a mezz’ora dall’inizio dello show allestito dal collettivo pluridisciplinare Sonic Acts, definizione assolutamente calzante, quella dell’intreccio tra diversi linguaggi che caratterizzerà la nottata di sintesi allestita per la Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti, vera e propria festa intorno ai nuovi artisti veicolati dalla storica fucina olandese.

E dentro è già viva una parte consistente della narrazione.

Le luci di Baumgartner riscrivono lo spazio e lo rendono percorribile nella direzione di un’esperienza virtuale a trecentosessanta gradi, dove la direzione dello sguardo è possibile e mai necessariamente frontale. Almeno quattro i punti dove si dovranno presumibilmente esibire i performer, ma nel corso della serata, questi elementi fissi creeranno una sinestesia mutante mai stabile, a tratti spiazzante, tra corpi, suoni e illusioni.

Dal limbo di fumo e proiezioni che tagliano, o al contrario, espandono, l’esperienza del club inventandosi una versione ibrida e transgenerica, emerge per primo Snufkin, per aprire un’ellisse ideale tra due forme di Djing insieme a Soft Break, che chiuderà l’intensa nottata. Entrambi condividono la posizione sopraelevata, stabilendo una relazione apparentemente più tradizionale con il dancefloor, ma in realtà attivando la relazione di scambio tra luce e suono che caratterizzerà tutto lo show, anche per gli episodi più radicalmente performativi.

S280F è la prima performance che cerca una relazione diretta con il pubblico, contaminato con lo spirito del teatro contemporaneo, il segmento materializza una creatura mutante che sembra provenire dal cyberpunk e dalla fantascienza distopica. Stracci e maschera con la foggia di una calotta cerebrale, caratterizzano un’esperienza dolente che si svolge in mezzo al dancefloor, vicino ad un tavolo circondato dal pubblico dove un laptop consente il controllo di alcuni campioni, preset e combinazioni sonore vicine all’idea di epic collage, una delle influenze più evidenti durante tutta la nottata, grazie ad un fil rouge che attraversa set radicalmente diversi, dove l’elemento cinematico diventa il collante che tiene insieme questa realtà alternativa in cui siamo tutti immersi.

Ma è il lavoro del corpo, i sensori e il microfono a caratterizzare l’intensità dello show di S280F, con una furia che diventa improvvisamente hardcore estremo, techno violentissima, con alcuni inserti tribali che sembrano provenire da culti remoti, avanti e indietro nello spazio-tempo.

L’effetto sorpresa spiazza un pubblico eterogeneo, che può ballare oppure decidere se e come farsi aggredire da questo corpo che vaga come un monaco o una creatura mutante nello spazio metamorfico delle luci. C’è qualcosa di apolide in questa stratificazione tra visuale, performativo e aurale, che ricorda alcune esperienze coeve tra le più estreme, provenienti dall’Africa. In termini percettivi diventa arduo comprendere da dove arrivino i suoni, tanto è vitalmente confusa la loro provenienza, tra urgenza organica e rielaborazione di sintesi.

Fuori da ogni logica binaria il dialogo tra AYA ed MFO. Lə performer trans, già conosciuta con il moniker di LOFT e attivə su Hyperdub, concentra un distillato di cultura londinese, dal punk alla drum and bass, con una propensione per le forme della sintesi analogica e una furia performativa ormai sempre più rara. É uno show tra suono e corpo, grazie alla fisicità estrema che si verifica nei passaggi liquidi da un outfit all’altro.

Si rivolge spesso contro il pubblico: “smettetela di sessualizzare le persone trans!”. Nella ricerca di un contatto mai riconciliato, scende dal palco, avvicina il tuo volto, ti sollecita ad un confronto, invita alla danza furente e ad un certo punto avvicina uno scaleo piazzato ai margini del palco, in questo setting volutamente in progress come un palco sfondato in ogni direzione percettiva.

Dal pubblico porgono una sedia, per un equivoco che diventa gag e successivamente oggetto performativo. Cavalcata, scagliata e poi trampolino per scagliare il proprio corpo. Davvero il set più bello dell’intera serata e anche quello che sintetizza lo spirito Sonic Acts. MFO cura infatti tutto il design luminoso, rileggendo le intuizioni di Jonathan Barnbrook sul lettering in una dimensione dinamica e centrifuga. La scena si sfalda, riprende vita con una serie di statement trans-identitari, avvolge AYA in uno spazio liquido, oppure taglia lo stesso insieme all’indomita energia punk che attraversa tutto il set di questə straordinariə performer, dove la luce diventa parola, la parola decostruita suono parcellizzato dalla sintesi granulare.

Stabilire quindi i confini tra corpo e intelligenza macchinica, Ableton live ed effetti analogici in bella vista, oppure separare la messa in scena di simulacri rispetto all’improvvisa e ribollente azione fisica, diventa un esercizio critico inutile di fronte al vortice di senso che emerge e ci immerge.

Altra identità fluida e di transito quella di Emme, la cui performance si avvicina moltissimo a quella di S280F. Creaturə dormiente in uno strano giaciglio che simula una culla gigantesca, un letto a baldacchino, lo spazio rituale di passaggio tanto amato da Angela Carter, nelle sue decostruzioni della tradizione popolare e fiabesca. Epic collage, nell’accezione contaminata tra cultura sonora cinematografica ed elementi sonori che procedono dall’industrial fino all’hardcore e alle declinazioni più estreme del clubbing, è la caratteristica che traina tutto lo show. Letteralmente perché la narrazione non é frontale, ma penetra lo spazio condiviso, trascinando il lungo filo che consente allə performer di tenere in mano un microfono su modello AKG che consente una relazione diretta tra i campioni sonori e l’uso indifferenziato di voce e corpo, distorti con la saturazione di pitch e volumi.

Il filo separa lo spazio di fruizione, lo rende instabile e pericoloso. E il pubblico si allontana oppure si fa avvicinare dai sussulti di questə creaturə, ormai diretta verso l’esterno, seguita dal lavoro di scultura luminosa che consente a tutti di allontanarsi dai volumi estremi e farsi investire da un cono di luce, da un led che segue i battiti o dal taglio di una proiezione che confonde i nostri limiti percettivi.

Prima dell’ultimo Dj set che chiude i mondi possibili e si apre verso la danza, tocca a Yen Tech aprire lo spazio virtuale e dalle luci lattiginose che caratterizzerà tutto il suo show. L’artista di Chicago, mette da parte l’immaginario del gaming coevo e il cyberpunk ispirato a Tsukamoto che attraversa i suoi videoclip, per agevolare un approccio più vicino allo spirito delle colonne sonore videoludiche. L’iconografia della pop star, con le sue posture stilizzate e l’ego di un semidio agevolato dall’effetto controluce, fanno parte di un gioco linguistico che qui si protrae per tutta la durata del suo show.

C’è una dimensione eco-militante, che a tratti emerge nella devastazione psichica e fisica di un mal de vivre diffuso durante la nottata Sonic Acts. Ma invece dei relitti post-umani dentro l’esperienza bellica che sembrano emergere dalle performance di Emme e S280F, non ci sono quattro pareti da sfondare, paramenti da distruggere, trucchi scenici da disvelare. Yen Tech preferisce una dimensione scopica frontale, che diventa immersiva solo per il mondo di luci e fumo che esonda fuori dal palco e invade lo spazio del vedente.

I suoni sono quelli del metissage tra hip hop, chill e trap, riletti attraverso le suggestioni arcaiche della musica modale e del cantus firmus, quasi per alludere a quella dimensione oltremondana in cui ci siamo immersi per cinque bellissime ore, senza pause che non fossero quelle di un’esperienza improvvisamente erratica nello spazio disegnato dalle luci.

Kali Malone – Trinity form, live @ Biennale Musica 2023: recensione

La relazione di Kali Malone con l’organo a canne ha una doppia valenza. Oltre alla sperimentazione microtonale messa a punto sullo strumento, prolungamento naturale dei suoi studi sulle accordature alternative a quella utilizzata in occidente, c’è anche la prassi specifica del restauro. La musicista americana, ormai da anni residente in Svezia, dopo un lungo apprendistato ha potuto approfondire la logica costruttiva degli strumenti antichi, con un’attività di messa a punto e di riparazione che gli ha consentito di conoscere ogni minima risposta di un organo alle condizioni ambientali del luogo che lo accoglie. L’accordatura pura, da conoscenza professionale diventa prassi d’ascolto e creazione di un sistema generativo per comporre la sua musica. I due aspetti sono interconnessi, e se in studio si può permettere microfonazioni ardite, attenzione ai singoli armonici in fase di registrazione, tutto cambia nello spazio performativo dove l’evento sonoro accade nello spazio-tempo.

Ospite della Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti, Malone ha proposto la sua Trinity Form con un ensemble collaudato, insieme a Lucy Railton al violoncello e a Stephen O’Malley alla chitarra acustica con e-bow.

L’organo suonato è quello all’interno della Basilica di San Pietro di Castello a Venezia, costruito nel 1754 da Pietro Nacchini, uno dei 500 realizzati dal noto maestro organaro. Con una sola tastiera e dieci registri, é incastonato all’interno di una piccola cantoria, appena dietro l’altare maggiore. Da una prospettiva frontale domina la Basilica, mentre gli esecutori sono nascosti come da consuetudine.

La dimensione visuale completamente sottratta, attiva una concentrazione diversa e consente di penetrare la stasi sistemica e apparente di Trinity form. Se la prassi dell’accordatura ha spinto Malone a comprendere profondamente la dimensione dello spazio armonico, la complessità di uno strumento a trasmissione integralmente meccanica, in termini esecutivi diventa anche una questione di concentrazione. I tre musicisti, pur lavorando contemporaneamente su timbri simili, ma con matrici numeriche di riferimento diverse, si sovrappongono a tratti sulle stesse ottave, allontanandosi progressivamente dal sistema microtonale impostato e trovando inaspettate risonanze. Ciò che é complesso e stratificato per loro in termini di riconoscibilità, consente anche a noi di perdersi.

Per chi ascolta, è un’avventura sonora indicibile, che si muove su più livelli. Il visivo negato, come dicevamo, è una benedizione. Consente di fondersi con l’ambiente e percepire ogni risonanza, anche quelle riprodotte da corpi estranei e dal respiro degli spettatori.

Sembra difficile una distinzione tra i timbri dell’organo e il lavoro sul violoncello di Lucy Railton, mentre Stephen O’Malley elabora altre sollecitazioni sull’acustica. Ma si allontanano improvvisamente, spostando l’asse percettivo su forme di polifonia spontanee, anche rispetto al controllo dell’esecutore stesso. É allora una questione di combinazioni, di possibilità, di aperture rispetto alla rigida disciplina dell’intelaiatura.

Trinity Form depriva la tradizione dell’organo a canne della sua dimensione ascensionale, proponendo un’altra strada sonora, che dalla stasi riesce a muoversi in direzioni inaspettate, anche con il peso storico dell’ambiente che ci circonda.

L’emozione passa allora da una scarnificazione della potenza assegnata allo strumento anche in termini storici, cultuali e politici. Fuori dall’estetica dominante di riferimento, Malone lavora cercando di sfruttare le risonanze naturali dell’ambiente e non forzando mai lo strumento affinché il primo venga riempito. É una traduzione contemporanea dello strumento, che attiva un altro dialogo rispetto a quello religioso, ma non lontano dalla dimensione meditativa.

Rimane spazio per altro, anche per un limite che risiede tra la frequenza del silenzio e l’inaudibile. Se di emozioni dobbiamo allora parlare, di fronte a questa straordinaria esperienza, queste non passano dalla generazione di “affetti” o dalla sollecitazione di sentimenti. Al contrario é il riconoscimento di un flusso psichico e legato all’intuizione intellettuale, da cui é possibile farsi condurre, e che proprio perché interno non corrisponde a gerarchie alto/basso.

La risposta allora non è davanti, nonostante la frontalità della disposizione, ma tutt’intorno fino a penetrare le viscere, in una terrificante e bellissima esperienza interiore, radicata nelle forme euristiche della logica microtonale.

Frankie & The Witch Fingers – Data Doom: recensione e unboxing vinile

A tre anni di distanza da Monsters Eating People Eating, l’heavy psych dei losangelini Frankie And The Witch Fingers torna con DATA DOOM, un nuovo album che prosegue il percorso sonoro della band. L’hard rock psichedelico con venature tra il jazz e il doom, è al centro delle nove tracce del disco, ma con quel groove funk che ha contraddistinto l’evoluzione sonora della band. Rispetto ad altre band coeve simili è la contaminazione di più generi la forza dinamica di Frankie And the Witch Fingers, dal doom dei primi black sabbath alla psichedelia garage più verace che caratterizza lo scheletro dei loro brani, si passa ad una tagliente energia funky che grazie alla ritmica di Dylan Sizemore e al sax di Jon Menashe,riesce a trascinare tutto quanto in una dimensione elettrizzante e di derivazione black.

Data Doom, l’unboxing del vinile limitato di Frankie & The Witch Fingers

Brani come Burn me Down ed Electricide sono esempi chiarissimi di questo metissage, dove la musica nera ingaggia un vero e proprio corpo a corpo con lo spirito più lurido dei primissimi Stooges. Rispetto a certa narcolessia che caratterizza quel genere tra hard rock e psichedelia, fuzz guitars e dilatazioni infinite, Data Doom cambia alcuni clichè e preleva con vero e proprio spirito combinatorio altri elementi dal calderone degli anni settanta, per esempio riferendosi in modo creativo all’avventura dei Funkadelic, senza per questo marcare troppo sulla componente black.

Electricide, il videoclip ufficiale dei Frankie & The Witch Fingers diretto da Bez Martinez

Se brani come Weird Dog si innestano perfettamente in questo crocevia, un episodio come Futurephobic introduce i synth con una modalità più vicina al punk-wave americano fine settanta, sporcato dai deliri cacofonici della psichedelia più sperimentale degli anni novanta.

Chiaro quindi che un brano come Mild Davis, sin dal titolo, rappresenti un omaggio esplicito al Miles del periodo elettrico, da cui desumono lo spirito marcatamente improvvisativo.
L’insieme ricorda in parte alcuni lavori degli Hawkwind senza la componente space, anche in relazione all’apparato sci-fi veicolato non solo dalla fusione di alcuni suoni, ma anche dalle liriche, dall’apparato visuale, dal layout stesso del disco curato dai geniali Carlo Schievano e Jordan Warren.

Empire, il visual clip ufficiale dei Frankie & The Witch Fingers diretto da Kevin Fermini

Lo scenario fantastico è ovviamente un’occasione, anche politica, per interrogare il presente. La spinta metafisica di Burn Me Down, straordinario inno alla cremazione e al distacco dal mondo materiale, lascia il posto ad una disamina impietosa di quello digitale con Political Cannabilism, dove l’esercizio del potere, descritto come declinazione del patriarcato, può essere combattuto con un riequilibrio dell’esterno con l’interno.

Futurephobic, il videoclip uffficiale di Frankie & The Witch Fingers diretto da Slim Reaper

Se allora l’immediatezza di Data Doom qualifica il ritorno della band attraverso la trinità heavy/psych-fuzz/garage che ha rappresentato una costante della loro ormai collaudata carriera, sono le derive jazzy, l’irresistibile energia funk, le improvvise esplosioni sintetiche, l’intreccio accurato delle parti vocali e la profondità dei temi affrontati a renderlo un disco stratificato, che oltre ad impatto e immediatezza, può offrire molto di più dopo una serie di ascolti successivi.

L’album si acquista dallo shop di Greenway records