Chi conosce gli All Them Witches si ricorderà del loro album Dying Surfer meets his Maker del 2015: un concentrato di trip e blues-country acidissimo, senza pause, tormentato come un viaggio mentale infinito, che sembrava più una lunghissima one-take piuttosto che un lavoro in studio con un metodo strutturato. Con questo nuovo disco, Sleeping Through The War, la band di Nashwille inizia invece a lavorare seriamente e a mettersi in gioco per creare un sound e una struttura dei pezzi più decisa, più rock, dinamica e diretta.
Grazie alla collaborazione con il produttore Dave Cobb e con gli accorgimenti finali nel mastering e mixing di Pete Lyman, il gruppo ha sperimentato per due settimane cosa voglia dire stare chiusi in uno studio senza mai fermarsi per avere un prodotto più maturo, più consapevole nei suoni e negli arrangiamenti e con una maggiore ricerca comunicativa e dinamica da parte di tutti i membri.
Si può dire che da questo nuovo disco gli All Them Witches abbiano acquistato la loro personalità sia come gruppo sia come singoli musicisti portando un prodotto nuovo fatto di maggiore ricerca. Sicuramente anche le lezioni del blues e della psichedelia restano in questo nuovo disco, ma quello che si nota e che vengono assorbite e reinterpretate dalla band, emergendo in maniera più originale, personale e meno didascalica rispetto a quanto accadeva nei lavori del passato.
Bulls è il pezzo che apre il disco e ancora richiama in parte i lavori precedenti: suoni di una fauna desertica vengono filtrati e distorti, sono resi in maniera innaturale. L’ascolto inizia in un modo low-key, con cori in stile country ripresi da cantautori come Erin Rae e Caitlin Rose e la chitarra (con un suono molto simile a quello degli Echo and the Bunnymen di Ocean Rain) già anticipa quella psichedelia che sarà presente in tutto il disco. Don’t Bring Me Coffee, pezzo basato su dinamiche molto forti tra strofe e ritornello, suona come una collaborazione tra il songwriting Bruce Springsteen di I’m on Fire e il primo Michael Stipe e mostra già di più il genere a cui il gruppo si dirige. Sicuramente uno dei pezzi meno banali e più curiosi del disco, anche per l’uso della voce che emerge chiarissima e protagonista nella prima strofa, emozionando inizialmente di più rispetto agli altri pezzi e anche rispetto ai dischi precedenti nei quali a volte la voce sembrava sparire e appoggiarsi agli arpeggi e al muro di suoni.
Bruce Lee e 3-5-7 sono i pezzi più diretti dell’album; i suoni del britpop vengono ripresi e distorti, e ci si avvicina anche alle sonorità di Kasabian, Interpol e perché no, qualche reminiscenza armonica degli Stone Roses di I Wanna be Adored, che sicuramente è quella che garantisce un’atmosfera più emozionante a 3-5-7. In questo pezzo la voce appare eterea tra cori maschili e femminili, e qualche timido reverse connota il pezzo come un momento maggiormente psichedelico (l’organo e i Mellotron sono gli elementi che deviano l’ascolto verso l’immaginario più Doors). Il pezzo rimane comunque un ibrido tra rock anni 60 e un viaggio psichedelico su una base southern blues distorta, accompagnata da fraseggi di chitarra tipici di quel genere, con un finale che non può non ammiccare ai Led Zeppelin, gruppo che sicuramente i nostri di Nashwille hanno imparato ad amare e ad utilizzare.
Da qui, i brani si allungano molto e il disco si fa più scuro e ricercato nei suoni, e anche l’ascolto diventa più complesso. Am I Going Up è un viaggio attraverso un paesaggio desertico, un momento psichedelico riflessivo e molto lento, quasi da colonna sonora. La chitarra ritorna a suonare con un arpeggio southern blues alla Calling Elivis dei Dire Straits, sebbene ancora i giri armonici e il bpm (molto più lento e stanco del pezzo citato) ingannino e ci trasportino sempre verso quell’atmosfera vicina ad un country-blues più oscuro e corale. I suoni si fanno cupi e il fuzz e le tastiere si rendono protagoniste. Alabaster mescola misticismo religioso americano, sonorità indio-americane e tribali ad un’attitudine più rock, e sicuramente si rivela un pezzo di punta del disco.
Il fuzz della chitarra è un suono che ti prende alla sprovvista, abbinato a degli ostinati che non possono non ricordare i Black Sabbath, una delle band di riferimento degli All Them Witches. La chitarra ha un suono e una dinamica che appaiono improvvisamente all’interno di un’atmosfera da viaggio psichedelico, ribaltandone le dinamiche, come ad esempio accade anche in Bulls e Cowboy Kirk (bellissimo brano da westen sci-fi) vicino alla sonorità stoner e legato in parte ai Led Zeppelin della fase Kashmir, ma armonicamente più morbido e dreamy nell’intenzione.
La dinamica dei pezzi diventa in questo lavoro un punto di forza molto evidente, cosa che nei dischi precedenti invece mancava spesso.
L’album si chiude con la canzone più lunga del disco, Internet, forse anche troppo lunga perché rischia di perdere il suo potenziale atmosferico verso la fine. Guidata da un sensuale sottofondo di Fender Rhodes si apre con un cantato che ha una tipica metrica country blues, alla Calvin Russell ma con una voce pulita e profonda, più Springsteen, insieme ad un’armonica che rende al meglio il genere di partenza della band ma che non risulta banale e intuitiva.
Meno convincente la chitarra della seconda strofa che gratta in sottofondo, ma la canzone ha decisamente un tono sensuale, soul e atmosferico alla Tarantino’s movie che nel complesso risulta emozionante e piacevole.
Degna chiusura di un disco in cui la band ha finalmente centrato il genere con sicurezza e interpretazione personale.