A tre anni dalla prima uscita su Jagjaguwar come Black Mountain , il progetto più ambizioso di Stephen McBean torna con un nuovo capitolo registrato quasi interamente da John Cogleton e assembla dieci tracce che abbandonano quasi del tutto la fragilità dissipativa dell’esordio a favore di un suono molto più potente ed emozionale; è un salto notevole almeno nelle intenzioni, valutabili solamente tappandosi occhi e bocca sulle proprie preferenze storico musicali, al contrario non ci sarebbe scampo. Il wall of sound sabbathiano è la superficie sulla quale si innesta questo viaggio nel futuro anteriore di una parte del suono psichedelico come se si trattasse di un monolite temporale e oscuro; gli elementi in gioco sono i soliti ma proiettati verso un risultato molto preciso, il contributo di Amber Webber è essenziale e si libera quasi del tutto da quella vocalità derivativa, vibrando verso qualcosa che pur non abbandonando del tutto i rischi della nostalgia, produce delle allusioni che in alcuni episodi bucano davvero il velo delle citazioni. Se l’incipit tutto sommato convenzionale di Stormy High si muove tra i soliti Sabbath e i Blue Öyster Cult meno conosciuti, la triade successiva si sbarazza di tutta questa retorica decollando verso un estremismo Kosmische grazie agli intarsi di mellotron e synth approntati da Jeremy Schmidt; in particolare tyrants, improbabile e quindi fruttuosa fusione tra suggestioni progressive e il neil young di zuma, uno degli amori meno mascherati da McBean anche nelle produzioni parallele; si tratta di un mantra visionario che con le derive vocali di Amber Webber trascolora tra il folk, lo stoner, la psichedelia progressiva, l’ombra di Klaus Shulze e una serie di stimolanti imprecisioni che fanno pensare più alla Edgar Broughton Band che ai Pink Floyd. I Black Mountain non sono i Melvins, lo sappiamo bene, le intenzioni della band si muovono entro un ambito da archeologia fantascientifica, lontani anni luce da quella decostruzione contemporanea dell’immaginario psichedelico che include l’attività di etichette come Holy Mountain, soprattutto alla luce dello straodinario Tonal ellipse of the one de La Otracina (recensito qui su Indie-eye). Se si esclude l’episodio sfacciatamente Bowiano di Wild Wind, In the future ha la forza pagana di un rito di passaggio realizzato con gli strumenti della memoria, una forma esoterica che si riverbera sull’unico testo scritto da Amber Webber nel brano forse più bello di tutto l’album, quella Night Walk che si sostiene e trascina interamente sulla sua voce, in un’immagine allo specchio che dagli anni ’70 passa attraverso il timbro di una Bjork classica; Night Walks with me / and the moon leaves me just enough light to see / and my shadow my only company / and it moves just like me / and it walks just like me.