“Perchè leggiamo i libri? perchè suoniamo la chitarra? e il campanello?“. Ce lo chiediamo anche noi, perchè?!. “Lo gnomo e lo gnu”, secondo lavoro di Cecco e Cipo è un album insopportabile, figlio di quel cantautorato pop “indipendente” che di originale e autonomo non ha assolutamente niente; un’anti-scuola brutta e diseducativa che negli ultimi cinque anni e in modo del tutto scellerato ha saccheggiato il possibile (da Sergio Endrigo ai Jingle televisivi) con l’unico risultato di tirar fuori una melma senza identità, idee e cultura, se non quella enciclopedica di basso profilo imparata tra Wikipedia e il lessico degli amici su facebook.
Potrebbe essere una bella fotografia dell’hipsterismo di massa che ammorba la provincia italiana, il resoconto di un’inutile festicciola tra amici; potrebbe se non ci fossero già una serie ormai inarrestabile di prodotti concepiti nello stesso modo, nati per solleticare l’ascolto punta e clicca sui social media; un nome per tutti, i pessimi e dannosi “lo stato sociale“, il cui spirito, nella persona di Lodo Guenzi, è presente nella bravata di “Cecco e Cipo” giusto per non farsi mancare niente.
Serve a poco una traccia come “Orazio“, secondo l’ufficio stampa che li segue, il brano “nonsense” di tutto il lotto, quello con la funzione metacritica che ci dovrebbe raccontare la diversità del duo empolese rispetto agli altri, scritto con un ritornello facile facile da cantare sotto la doccia e dedicato alle canzoni di cui tutti parlano e che non vogliono dire niente. Perchè “Cecco e Cipo” credono di riuscire a dir qualcosa attraverso il sotto vuoto spinto delle loro ballatine generazionali votate al rovesciamento; ovvero prendere un modello semantico e dopo averci aderito, scaracchiarci sopra inserendo alcuni elementi di disturbo.
Un metodo poco convincente, perchè se in “Minestrone” la seriosità del racconto romantico scimmiotta malamente Pasquale Panella (mentre il torto molte volte è morto | e il volto nasconde avvolto in un manto d’amianto | tra il dire e il pianto), questa viene di volta in volta distrutta da una banalissima ironia caustico-demenziale (io vedo affogare le idee | un po’ come la carta affonda nel piscio del cesso); le differenze tra i due livelli sono del tutto indistinguibili e invece di corrodere i nostri “Cecco e Cipo” fanno giusto il solletico. Non poteva mancare la solita sociologia d’accatto sui massimi sistemi: “per chi indie e canta indie, suona troppo commerciale | per chi canta solo indie, ma che in fondo è commerciale | prendi zigulì perchè sono al gusto della frutta“……che dovremmo dire di fronte a tanta ironia? Consigliar loro di cambiare pusher? Non bastavano forse gli album della Garrincha a raccontarSI come generazione di rincoglioniti? Azzardare un commento oltre che fiato sprecato ci sembrerebbe come fare tiro a segno sulla crocerossa. Postmoderno! dirà qualche intelligentone presentandoli al circolo della briscola sotto casa; certamente, ma a patto di interpretare la parola come estrema e tardiva digestione di tutte le schizofrenie possibili, quelle aperte “a qualsiasi esperienza” e vissute “nella più totale confusione” come diceva il buon vecchio Baudrillard che di merde d’artista se ne intendeva.
Ma non c’è solo questo nel secondo album di “Cecco e Cipo”, ci sono anche le canzoncine strappalacrime, quelle sul futuro negato della generazione che si immagina come l’unica precaria, quelle che raccontano in modo ombelicale una percezione del mondo dal fiato corto che si estende dalla cameretta al circolino all’angolo, quella che dice “siamo nelle mani dell’arcobaleno | siamo nelle mani di qualcosa che non è sereno | siamo giochi di prestigio | siamo nelle maniche di un mago | che non ha più assi da tirare fuori“. Due palle! ci mancherebbe solo che qualche critico irresponsabile tirasse fuori i riferimenti poetici, con quell’intellettualismo post laurea che consente di sciorinare senza ritegno autori della nostra letteratura solo perchè tre dei sei volumi presenti in casa non servivano a pareggiare il dislivello dell’armadio, e guarda caso, nella collezione non c’è mai spazio per Fabio Volo o Federico Moccia, forse gli autori più pertinenti per descrivere questo universo di psicopatologie seriali.
E la musica? Tra folk cantautorale che imita le radici di tutti scordandosi le proprie, storielline a veglia, raccontini surreali, filosofare della domenica, qualche danza casereccia, la solita elettronica convenzionale, il suono dell’ukulele che ormai ha imparato a riconoscere anche la casalinga di voghera quando guarda le pubblicità delle compagnie telefoniche e quella tendenza pop lo-fi de noantri buona per una gita in campagna che sostituisce l’arte dell’arrangiamento con una terrificante monotonia parrocchiale sentita migliaia di volte; tra tutte queste cose “Lo gnomo e lo gnu” non è fresco, al contrario è marcio e diverte quanto un raduno di cattolici-popolari. Ci verrebbe voglia di dire: lasciamo perdere, rispetto a questo pop scolorito e benpensante generavano meno mostri e musica più viva gli anni del terrorismo.