Don’t panic go Organic! ha una forza che sorprende per libertà creativa, l’approccio dei Drink to me alla materia dei suoni è selvaggio e quasi mai schematico, sin dall’attacco di Dancin’ on tv si delinea una schizofrenia pop che collide con gli stessi modelli di riferimento, perchè quello che colpisce oltre alla compattezza sonora è un’aura melodrammatica e glam che si serve dell’orchestrazione come mezzo terroristico. Vengono in mente molte cose, tra Liars e primi Paper Chase dove quest’ultimi ci sembrano presenti semplicemente da un punto di vista istericoemotivo, complice la voce di Marco Bianchi che non ha paura di eccedere verso la sgradevolezza grazie ad una salvifica e totale mancanza di controllo, anestetico al contrario presente in molte produzioni italiane; asettiche, (im)precise, cosi illuse che per sporcarsi sia sufficiente il basso profilo, nate come sono tra la provincia della cameretta e la periferia delle case del popolo. Quì ci ha lavorato Andy Savours (già insieme ad Alan Moulder e dietro i Banchi per Blonde Redhead, The Horrors e cosi via) con risultati che si sentono nella bellissima Insane, debordamento contagioso tra il perdersi lisergico e fiabesco degli Elevators e una forma pop che cerca di trattenere tutto dentro un contenitore; la stessa forma di implosione è nella potente I love My Job, impossibile da descrivere in quell’agglutinare suoni, timbri, la lezione dei Braniac e la nostalgia wave che puntano verso una cacofonia che si fa apprezzare ancora una volta per forza e impatto. Il romanticismo funereo dei Drink to me, riaffiora nella bellissima Drink to celia, che inganna con la lusinga di un tratto melodico per concludere nell’intreccio saturo delle chitarre. Music could be poison conferma la sensazione che il cuore dei Drink to me è vicino a quello di alcuni crooner glam, non solo per la voce di Bianchi, ma per la struttura di una ballad corrotta e incline all’esplosione, con chitarre stoppate e in libera perdita, cori, incedere popolare e un Bowie bastardo nel cervello.