Si sta seduti lungo i fianchi di un violino; gamba a gamba, gomito a gomito, vicini come se ci conoscesse da una vita. Sono le nove e mezza quando il Laghetto delle Danze nei giardini della Pioria del Vittoriale degli Italiani si tramuta in una momentanea quinta di teatro, disfunzionale sipario per la corrispondenza amorosa di Teho Teardo e Elio Germano complici nel portare in scena le parole di Céline all’interno del cartellone del Teneramente. Fra le siepi della Prioria e i rivi dell’Acqua Pazza e dell’Acqua Savia voluti dal poeta vate per ospitare spettacoli di musica e danze, i suoni della chitarra di Teho Teardo srotolano il tappeto rosso alle parole di Elio Germano. Come si può descrivere Céline senza scadere nella una brutta copia di un riassunto? In un contesto dove qualsiasi cosa è simbolica, dalla scelta del tema alla disposizione degli artisti sulla gettata di cemento, declamare le pagine di “Viaggio al termine della notte” non può essere una scelta casuale. Un libro dalla prosa così feroce che costò a Louis-Ferdinand Céline la marca di antisemita e nazista. Un libro dove il nichilismo sfuma nel terreno del cinismo più arcigno e va ad animare la parole di un Elio incazzato e bilioso a stento relegato nei confini del tavolo che dovrebbe contenerlo. Un Germano iracondo più che calato nella parte, ma addirittura insediato completamente nell’inchiostro di Céline. Al suo fianco, pittore di colonne sonore e leggiadro maestro d’orchestra, Teho Teardo dirige il parterre di fanciulle schierate nelle retrovie. Sbircia con gli occhi della nuca i movimenti degli archetti dritti e tesi come baionette le stesse che scorrono nelle frasi roche di Germano mentre richiama i risvolti di una guerra verminosa fatta di codardi, di vigliacchi, di uomini che avrebbero preferito la prigione alla morte o qualsiasi cosa che non fosse fondersi come animali in fuga mentre la trincea esplode. Sul volto di Elio tutte le espressioni di dolore, tormento e tribolazioni si traducono nei movimenti nervosi delle mani che tormentano cranio e capelli finché l’ossessione non esplode in qualcosa d’altro. Pensieri disperati e storie di individui accumunati in fondo dallo stesso difetto: quello di essere troppo umani per agire come una patria o un padre o il comandate di turno vorrebbero. O, forse, come a suggerire che l’unica cosa che valga la pena rincorrere sia lo scatto dell’emozione.