Emiliana Torrini gioca con la sua musica e con il fantasma di Armini, evocazione fantastica che cristallizza il suo songwriting nella raccolta probabilmente meno convincente della sua carriera. L’apertura di Fireheads e la stessa title track si sviluppano in quel guscio di norme che affligge la ricerca sonora di artisti come Norah Jones; meccanismi ad orologeria costruiti per funzionare, standard perfetti che non lasciano troppi segni; eppure Fisherman’s Woman, l’album precedente della Torrini, nel presentare una versione scabra e tradizionale del suo songwriting riusciva a far dimenticare imprestiti ed inflluenze procedendo per riduzione. Qui al contrario, si aggiunge e si sigilla, sono negativamente esemplari tutte le tracce che ricordano quella parentesi riuscitissima rielaborati cercando di perfezionare e aggiungere elementi sonori il più possibile raffinati. Si prenda un brano come Birds, con un basso alla Van Morrison che sostiene una nenia astratta e sognante che invece di dondolarsi tra i suoni indugia su effettacci, psichedelia portatile, momenti di bravura assortita; sembra che Emiliana abbia azzerato tutta la sofferenza in un gioco che le permetta di metter su oggettini perfetti da eseguire davanti al Papa. I Momenti peggiori sono tracce come Heard it All Before, l’imbarazzante Jungle Drums buona per far rimpiangere Chris Isaak come il più sobrio e onesto tra i rocker, la pretenziosa Gun, quasi sei minuti di finto blues psichedelico; i momenti migliori sono al contrario quelli dove per lo meno la Torrini gioca con se stessa (Big Jumps) o tracce come Bleeder, dove nell’evocazione di un mondo strumentale rarefatto cerca ancora una volta di sanguinare.