Big Domino Vortex degli Human Colonies è un disco che ha bisogno di molti ascolti per essere apprezzato e capito nelle sue varie sfaccettature. È uno strano sogno fatto da momenti di calma e altri di improvviso risveglio, tra reminiscenze post punk, vividi ricordi shoegaze e un po’ di rock psichedelico.
Il brano di apertura, Sirio, presenta impercettibili dissonanze, e ascoltandolo è assolutamente impossibile non pensare a Loveless dei My Bloody Valentine, sia per l’uso onirico della voce, sia per il suono della chitarra. L’esempio di un vero e proprio Valentine sound è chiarissimo, qui più acido rispetto alle scelte della band irlandese, ma sicuramente molto vicino per quanto riguarda arrangiamenti e utilizzo dei cori.
Mentre la title track denuncia influenze vicine ai Cure annata 1994, l’elemento fuzz sembra predominare. Di matrice post punk anche la sezione ritmica, con un’impostazione à la Joy Division periodo Disorder, con l’uso della leva della chitarra che nel disco sembra avere un ruolo ben preciso almeno in funzione dell’atmosfera ricercata.
Atmosfere acquatiche quindi si sprigionano in Vesuvius, brevissima ballad strumentale, piccolo intermezzo dalle caratteristiche ambientali ed esplorative. Un rumore di fondo gracchiante e ovattato accompagna tutto il brano e non lascia mai un momento di pausa, ed è questo stesso rumore che rimane sospeso fino alla fine, portandosi via tutto il brano come se provenisse da un lontano e profondo fondale archetipico; echi da un continente perduto.
Sin dalle prime note di chitarra Mondrian ci trasporta invece verso gli Interpol di Our Love To Admire o dalle parti di Back Room, il primo disco degli Editors ma con toni più rock e onirici. Rimangono ben presenti le dissonanze chitarristiche, gli arpeggi incalzanti, la batteria asciuttissima con un rullante che echeggia, artificio molto post punk, soprattutto nella parte conclusiva del brano dove viene lasciata emergere in modo più specifico.
Kleio è invece il momento del risveglio dopo un sogno violento. È una raffica che parte in medias res, molto in linea con gli Smashing Pumpkins di Siamese Dream, breve e concisa ma con una voce e un controcanto che si avvicinano in modo inequivocabile all’atmosfera del sogno.
A chiudere il sonno e a portarci dolcemente verso una nuova alba è Psychowash, l’ultimo brano del lotto, quello decisamente più psichedelico dell’intero lavoro, a tratti in stile Cocteau Twins per l’atmosfera da filastrocca ipnotica, e molto anni 70 per quanto riguarda le armoniche, con una chitarra che riecheggia le qualità di un sitar distorto. Ritornano qui le atmosfere acquatiche che abbiamo già sentito nel corso dell’album, dove il suono timido di una chitarra fa capolino tra fuzz e distorsioni di fondo. Il brano è decisamente il pezzo più interessante dell’EP, molto più sognante, comunicativo e maturo.