North dei Logh uscì ad Aprile, ma pare che non ci sia niente di meglio per sopravvivere ai diversi stati d’animo dell’inverno che verrà: un disco per stringersi nel cappotto mentre le sferzate di bora gelida fanno lacrimare gli occhi, ma anche un disco per contemplare la tazza di cioccolata che si beve con la fronte appoggiata al vetro appannato, osservando il brullo nulla là fuori.
Dopo aver smesso di inseguire con successo alterno i Sonic Youth, i Mogwai, i Favez e tutta quella tipologia di college rock radiofonico che proverei a definire come euro-emo, i Logh mettono a frutto la notevole esperienza live per conseguire una nuova identità il cui suono si espande verso atmosfere shoegaze, lasciando però da parte l’autocompiacenza che punteggiava i tre lavori precedenti.
In North tutto è studiato per dare razionale solennità scandinava alle canzoni: le voci sussurrate che riflettono sui fatti della vita, gli accordi pieni sugli accenti principali, la batteria che entra a metà del brano a restituire maestosità ad intro minimali.
Il risultato è un disco denso di tensione emotiva, la cui formula potrebbe scoraggiare qualcuno da affrontare un secondo, un terzo, ascolto; tuttavia la struttura geometricamente semplice delle singole canzoni, i ritornelli piuttosto orecchiabili e la limpidezza degli arrangiamenti evita ai Logh l’accusa di essere prolissi.
Finalmente la voce di Friberg non si nasconde più dietro la band, ma crea odi moderne (“Death To My Hometown”), si cimenta in una Every Breath You Take indie (“Forest Eyes”), riversa echi di Death Cab For Cutie in una delle poche canzoni up tempo del disco (“All The Trees”), s’incupisce improvvisamente negli otto minuti di “Thieves In The Palace”.
In chi scrive North favorisce uno stato d’animo di introspezione quieta, evoca nostalgie naif di indefinita empatia, nostalgie di posti mai visti… insomma, la nostalgia del gattino dello spot della Barilla. Era da tanto che non mi capitava.