Il primo ascolto de “La misura dell’equilibrio” lo abbiamo fatto senza leggere le note del cd ed evitando di scorrere la recensione pre-confezionata della cartella stampa, lo facciamo sempre ma per una band che decide di veicolare il proprio lavoro con un nome così ingombrante, a cui fanno eco gli scatti di Monica Ramaccioni in uno stile tra Vermeer e un modo pseudo- Lynchiano, era obbligatorio tenere la testa sgombra da pregiudizi di sorta.
Purtroppo, il pregiudizio principale è quello allestito della band umbra, che oltre all’incipit dedicato al film di Lynch appiccicato a casaccio, il noto dialogo tra Dan e Herb tutto incentrato sul sogno del primo, si affida alla produzione ingombrante di Paolo Benvegnù, l’ennesima vorremmo dire, perché tra le migliaia di uscite destinate all’oblio che il musicista milanese ha sfornato negli ultimi dieci anni con un ritmo di produzione paragonabile a quello di una factory più che alle modalità di una bottega artigiana, anche questa sopporta lo stigma di uno stile troppo definito dall’autore di Earth Hotel, i cui confini sono quelli del suo songwriting e del suo modo di scrivere testi, e se la voce di Ludovico Rossi ha un timbro molto diverso da quella di Benvegnù, l’inclinazione drammatica, la presenza dei cori in alcuni brani, l’incedere, sono gli stessi.
Se nella precaria arena mercantile della musica italiana odierna, appiccicare il bollino rosso di una produzione artistica di prestigio, ha probabilmente il senso di dare una spinta al decollo di un progetto, ci si chiede quanto benefico sia, per chi se ne serve e per chi offre il “servizio” (di quello si tratta, considerati i costi medi per una “produzione artistica”) se quello che esce fuori è un bel biscottino, identico ad altri mille.