Con i Centenaire, Orval Carlos Sibelius, ha pubblicato due album molto belli; la band, probabilmente uno dei “segreti” francofoni meglio custoditi, era artefice di un’intelligente rilettura della stagione prog settantiana, ripulita da qualsiasi tentazione kitsch e vicina al gusto per l’intarsio del Wyatt più visionario. Come Orval Carlos Sibelius, il polistrumentista Axel Monneau con Super Forma pubblica la sua terza release dopo un EP e un debutto full lenght chiamato semplicemente come il suo moniker, si porta dietro Stèphane Laporte (Domotic) dai Centenaire e con una serie di collaboratori da vita ad un pop lisergico e minimale che recupera certamente alcune intuizioni della sua precedente esperienza ma spinge con più forza verso i mondi di Brian Wilson e quelli più Barrettiani con un’intelligenza molto rara che attraversa più forme della psichedelia, dal Bowie di Space Oddity, passando per la concisione del garage più acido (le contagiose Desintegraçao e Asteroids), riattualizzandolo con la filosofia “playful” di Flaming Lips e in alcuni casi con i suoni saturi di My Bloody Valentine (Good Remake) ma solo attraverso allusioni e senza ricalcarne pedissequamente (come succede spesso) gli impasti sonori, fino a riallacciarsi al jazz-folk astratto di Centipede e del solito Wyatt (Cafuron) che per Monneau deve essere un vero e proprio nume tutelare. Lontanissimo dal rischio del pastiche, quello che tiene insieme questa “super forma” espansa è anche quel tocco francese che ha fatto dell’elettronica fine settanta una poetica molto precisa. Chiude questo viaggio psichico Burundi, una hidden track di 14 minuti, vicina certamente al tribalismo di band come Animal Collective ma ancora di più alla tradizione concrète di Pierre Henry, segno della versatilità e della cultura di questo ottimo musicista Francese sospeso tra passato e futuro anteriore.
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