Nati nella provincia reggiana i Portfolio arrivano al secondo lavoro pubblicato a due anni di distanza dal precedente “The Standing Babas” periodo entro il quale c’è spazio per due ep (“Reason Outside” e “We I Humans”). “Due” conferma la vocazione del progetto come collettivo più che riferirsi ad una band con ruoli stabiliti, tanto che la configurazione dell’album viene sottoposta a improvvise dilatazioni formali che ne denunciano lo spirito eminentemente aperto, tra derive strumentali e la concisione di alcuni episodi dall’impostazione più tradizionale. Il trip-hop con venature funk di “Beauty”, grazie anche alla voce morbida di Claudia Domenichini sembra guardare al downtempo degli “Zero 7”, tra recuperi anni ’70 e una forma pop più concisa, mentre al contrario il suono di “To The right” si presenta come una dilatazione elettrica più evocativa e vicina al rock strumentale degli anni ’90. La voce di Laura Loriga introduce “Riviera”, una via di mezzo tra i primi due episodi, mantenendo in parte lo spirito soul del primo brano ed esplorando un allargamento dello spettro sonoro verso i territori più Jazz del secondo, una dinamica che attraversa tutto il nuovo lavoro dei “Portfolio”. Vengono in mente formazioni fine ’90 come i “Super Golden” che già mettevano insieme soul, funk, bossa nova e tutto quello che proveniva dal Jazz e in parte dal mondo delle colonne sonore italiane anni ’70 in quel melting pot che per comodità veniva definito “post rock”; a differenza di altre band che ne avevano già definito i confini con sonorità molto più scabre, i Super Golden appunto, sparigliavano le carte tentando la strada di un’ibridazione spesso sopra le righe, ec-centrica, ma non per questo meno vitale. i Portfolio sembrano in un certo senso molto vicini a queste intuizioni, perchè il tentativo sembra proprio quello di fondere più esperienze collaterali (Laura Loriga, Jukka Reverberi) in uno stream of consciousness paesaggistico che racconta la terra di origine di questi musicisti, con innesti descrittivi a tratti sorprendenti come quelli operati dalla tromba e dal wurlitzer di Tiziano Bianchi. Prima della chiusura, una cover di Duncan Browne e dei suoi Metro, quella “Criminal World” con il make-up già rifatto dal Bowie di Let’s Dance, e che qui funziona da sintesi perfetta e forse sin troppo eclettica di tutti gli elementi dell’album.