Quale scena, e in mezzo a cosa? la band di Ian Parton dopo quattro anni di silenzio spazza via in modo definitivo il marchio di fabbrica che ha contraddistinto il loro lavoro sui suoni del pop di genere, perché se da una parte il tentativo di sostituire qualsiasi appiglio convenzionale è passato attraverso un meltin’pot di campioni, samples, innesti rap sulla carcassa pop, dove l’originalità non rinunciava mai alla potenza innodica, sorprende negativamente ascoltare un episodio come Blowtorch che suona come la Juliana Hatfield post Blake Babies; e questo è sfortunatamente il clima sonoro che si respira nel nuovo lavoro di Parton e soci, dove l’idea alla base del progetto The Go! Team viene sistematicamente distrutta, a poco serve ricordare che album dopo album i nostri hanno ridotto l’impatto sintetico sostituendolo con una strumentazione viva e full range, perché insieme a questo scambio simbolico è mutata anche la loro musica, adesso vicina a quelle convenzioni indie-rock evitate sin dagli esordi.
E se il tempo è spietato anche con suoni che non possono più essere quelli di prima, nei primi anni del nuovo millennio The Go! Team si erano inventati qualcosa che è diventato normativo solo qualche anno dopo, non si tratta di nostalgia per un approccio che non può essere lo stesso, ma di una raggiunta medietà che ci sembra pietra tombale più che punto di approdo.
Paradossalmente, gli unici momenti di vitalità sono presenti nelle brevi intermission registrate con il culo come Gaffa Tape Bikini, scarti di un’idea ormai scorticata ed esaurita, una party music senza più festa dove andare.