Sembra un passato remoto ma, in fondo, era l’altro ieri. C’erano i June Of 44 e la Amphetamine Reptile, i Tar e gli Hoover, la Touch&Go era assai distante dai suoni soffici e tutto sommato rassicuranti di band attuali come Pinback o Cocorosie. Eppoi c’erano anche gruppi italiani che avevano poco o nulla da invidiare alle band estere e che approdavano a testa alta alla corte reale del noise-rock di Chicago (Uzeda) e chiudevano il catalogo di labels americane importanti come la Slowdime (etichetta consorella della Dischord). Erano i Three Second Kiss e oggi, dopo cinque anni, sono di nuovo loro. Forte è la tentazione di leggere questo nuovo capitolo intitolato “Long Distance” attraverso il filtro della nostalgia per un suono e per un periodo entusiasmanti, ma ciò vorrebbe dire abbandonarsi a un passatismo e a un citazionismo da cui la band bolognese sembra volersi tenere saggiamente distante. Del resto è sufficiente constatare come questi suoni, anche in Italia, continuino a essere proposti, masticati e metabolizzati per rendersi conto di quanto fascino ancora evochino e soprattutto di quanta libertà espressiva concedano a chi decide di farli propri. Tornano dunque i Three Second Kiss e lo fanno in grande stile, una nuova etichetta (African Tape), un nuovo batterista e un vecchio produttore: Steve Albini. Il nome basta da solo a garantire la consueta spigolosità delle chitarre e la potente ruvidezza del drumming. La melodia c’è ma è un qualcosa che va conquistato e che si fa largo faticosamente tra le pieghe di un suono denso e abrasivo: “I Am A Wind” ne è l’esempio perfetto nonché uno dei brani più riusciti dell’album. Sorprende poi la successiva “This Building Is Loud” con il suo incontenibile crescendo e soprattutto convincono i cori e l’epos washingtoniano di “Dead Horse Swimming”. C’è bisogno di album così, che pretendono di essere ascoltati e che non concedono distrazioni di sorta: bentornati ai Three Second Kiss.