Un po’ di storia. Nel 1965, in Colorado, prende piede una comunità creativa nota come Drop City, vera propria comune nata poco prima della summer of love e ispirata all’arte performativa di Fluxus, Allan Kaprow, John Cage e Robert Rauschenberg, per citare alcune delle radici del collettivo.
Uno degli eventi più noti allestiti dalla comune è un pezzo improvvisativo intitolato “The Ultimate painting”, nome preso in prestito da James Hoare (Mazes) e Jack Cooper (Veronica Falls) per lanciare il loro nuovo progetto condiviso e che in qualche modo influenza l’andamento dell’intero full lenght di debutto, a partire dalla scelta di lavorare senza nessun supporto digitale, sia in fase di esecuzione, registrazione in studio e post produzione.
Registrato interamente su nastro, l’album cerca di ricreare lo spirito creativo di quegli anni, facendo confluire influenze britanniche con la New York dei Velvet Underground e altri riferimenti della musica fine sessanta, da Brian Wilson (She’s a bomb) fino ai The Byrds (Rolling in the deep end).
Immerso certamente nel gioco derivativo dal quale sembra ormai difficile e molto raro svincolarsi, l’esordio di “The ultimate painting” non ha certo la forza visionaria di The Darkside di Pete Bassman, combo nato da una costola degli Spaceman 3 e che riusciva già nell’89 a trasfigurare queste stesse influenze in un viaggio originale. Bisogna comunque dare atto a Hoare e Cooper di una certa abilità nel confezionare un lavoro ben fatto, con alcuni brani “killer” e uno spirito rigoroso che guadagna molti punti sul piano della resa sonora.
Che questa sia musica destinata a scomparire sommersa dai modelli è un altro discorso, ma fino a quando la consumeremo nell’arco di una stagione, possiamo anche regalargli una mezz’ora scarsa senza troppa spocchia a limitare un sano godimento fine a se stesso.