Viva nasce dopo due anni di lavoro, tra Pisa e Berlino ed è un piccolo gioiello fatto di suoni geometrici e viscerali, di quelli che sin dal primo ascolto ti restano nella pancia e nella mente. Viva non suona come un disco italiano, anche in virtù della provenienza apolide del combo, stanziato appunto Toscana, ma con il cuore rivolto sia alle produzioni anglofone che a quelle tedesche, quando l’estetica glitch cominciava ad aprire nuove vie alle diverse tradizioni elettroniche.
La voce di Simone Bettin è espressiva e comunica passione in molti brani, interpretando il mood di matrice anglofona con grande sicurezza, soprattutto in pezzi come You Keep Thinking e Cargo Cult , dove le influenze più esplicite sono quelle di certe torch songs e del desert rock più intimista.
Se gli arrangiamenti legati alla cronometria dell’elettronica sembrano alludere a certe atmosfere deep house, le asimmetrie sonore trovano probabilmente ispirazione dall’industrial creativo degli Einsturzende Neubauten, periodo Halber Mensch. Questi elementi entrano in contrasto in modo originale con le sonorità country-blues delle chitarre acustiche; Storm è in questo senso uno dei brani più contaminati, dove la musica delle radici si mescola con la no wave dei Television e la magniloquenza degli Echo and The Bunnymen dell’ultima fase, quella di Ocean Rain.
L’attenzione al dettaglio, quasi fosse una nuova “space age bachelor music” sul modello delle sperimentazioni aurali di Esquivel, è percepibile dal modo in cui alcuni strumenti come per esempio lo shaker, rientrano nell’economia di un disco votato all’ascolto meditato: i suoni e lo studio di una certa timbrica infatti, occupano quindi uno spazio quasi paritario se non più importante della stessa voce.
Curioso l’inserimento di una ghost track che richiama atmosfere caraibiche, quasi un contraltare ironico rispetto ai toni cupi dell’intero album, che tra deserto ed elettronica, mantiene salda la sua vocazione invernale.