Il “Giapponismo” di David Bowie attraversa buona parte della sua carriera. Fascinazione che ha lasciato numerose tracce e che pur investendo stile, rappresentazione e suoni con forme più o meno esplicite, ha quasi sempre attivato una riflessione sull’alterità capace di rovesciare la prospettiva apparentemente esotica di alcune scelte. Nagisa Oshima, il grande regista giapponese che più di altri autori del suo paese si è confrontato con la cultura europea per attivare contrasti e disinnescare stereotipi, individua nell’iconografia bowiana dei primi anni ottanta, la figura più adatta per incarnare la trascendenza asessuata cristiana del Maggiore Jack Celliers, il personaggio descritto da Laurens van der Post in una delle storie contenute in “The Seed and the Flower”, il romanzo da cui sarà tratto “Merry Christmas Mr. Lawrence”. Nel confronto di Celliers con il capitano Yonoi (Ryuichi Sakamoto) la complessità delle opposizioni binarie si moltiplica, attraverso una percezione biunivoca dell’alterità che svela combinazioni inedite con la lotta tra carne e spirito. All’attrazione omoerotica di Yoni, negata e circoscritta nella sfera di una spiritualità ostile, corrisponde l’assorbimento dell’altro mediante un processo di incorporazione. Un rovesciamento palindromo dello sguardo, dove il soggetto “esotico” viene individuato a partire da uno spazio “alieno”, concretizzato dalla collisione di segni culturali reciprocamente estranei.
Masayoshi Sukita, giovane fotografo giapponese affascinato dalla cultura occidentale, percepisce questo spazio di antimateria che annulla tutte le differenze, quando nel 1972 si trova a Londra per fotografare Marc Bolan, nel pieno della fase “elettrica” con i suoi T-Rex. Il poster di Ziggy Stardust che lo convince a contattare l’artista britannico per realizzare una serie di foto, innesca nel giovane creativo di Nōgata la stessa energia perturbante che aveva investito Bowie quando un anno prima sfogliava le pagine di Harpers & Queen. A polarizzare la sua attenzione, un servizio che mostra il lavoro dello stilista Kansai Yamamoto e della make-up artist e hair stylist Sachiko Shibayama, prima cellula che darà vita ai costumi di scena per il tour di Aladdin Sane, realizzati dal noto stilista giapponese.
Quando Sukita si avvicina a Bowie quindi, i segni della cultura rituale orientale e quelli dell’iconografia teatrale giapponese infestano già il suo corpo, una mutazione cominciata prima della collaborazione con Yamamoto, quando il musicista londinese affrontava il primo viaggio a Kyoto nel 1960, durante i “meeting” nell’appartamento di Lesley Duncan, nel pieno del suo incontro con il Buddhismo Tibetano e gli insegnamenti del Lama Chime Rinpoche, ma sopratutto lungo tutto il periodo di apprendistato nella compagnia di Lindsay Kemp, dove aveva appreso tecniche, movimenti e alcune forme di comunicazione non verbale tipiche del teatro Nō e della successiva elaborazione Kabuki.
Masayoshi Sukita individua allora un territorio creativo fecondo per far reagire il potere di attrazione che subisce dalle icone popolari dell’occidente; Bowie deve essergli apparso come straordinariamente familiare ed estraneo allo stesso tempo, proprio per la modalità con cui l’appropriazione di una cultura lontana per l’artista britannico, veniva riaffermata attraverso più alterità, superando così la mediazione del mercato globale da cui proveniva. Del resto, non è possibile separare la formazione di un artista come Bowie, affamato di conoscenza e di arte visiva, dalle tracce lasciate dalla cultura Vittoriana, nella sua relazione con quella giapponese. Le figure tra femminile e maschile ritratte dal preraffaellita Simeon Solomon, creano un nuovo spazio identitario dall’incontro con l’arte giapponese e dalla loro oggettificazione insieme ad altri elementi decorativi, quasi a definire un altro da se attraverso la percezione di un mondo disseminato di segni e tracce estranee alla propria cultura.
Masayoshi Sukita sviluppa l’attrazione per le figure dell’immaginario rock anglofono attraverso le forme dell’intrattenimento popolare. Orfano di padre dall’età di sette anni, divora cinema statunitense grazie alle premure dello zio che gli consente di assimilare un immaginario altrimenti inaccessibile. Da adolescente percorrerà centinaia di chilometri per vedere film importati dall’America e ammirare personaggi e attori fondamentali per l’evoluzione del suo approccio alla fotografia. James Dean e Marlon Brando, prima ancora del vero apprendistato post-laurea e delle esperienze con le sottoculture statunitensi e britanniche degli anni settanta, rappresentano i segni di un’iconografia importante, capaci di connetterlo all’energia del rock’n’roll.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”f4b042″ class=”” size=””]La collaborazione artistica tra Bowie e Sukita si svolge lungo 40 anni e la prima testimonianza documentale esaustiva delle fotografie prodotte durante questo lungo connubio, viene pubblicata con un volume di 300 pagine intitolato “Speed of Life”, edito nel 2012 da una casa editrice specializzata nella diffusione di edizioni limitate come la Genesis Publications.[/perfectpullquote]
Il libro, contenuto in un cofanetto realizzato a mano, con fibbia nera, lamine rosa, argento, turchese e inserti in pelle, contiene le note a margine di David Bowie per ogni fotografia e diventa in poco tempo un oggetto proibito per i collezionisti di tutto il mondo, attualmente reperibile tra le 3.000 e le 4.000 euro.
Le mostre successive alla pubblicazione del libro e allestite a livello internazionale, si sono rivelate indispensabili per entrare in contatto ravvicinato con il mondo creativo del fotografo giapponese legato alla sua relazione con David Bowie.
La mostra fiorentina “Heroes. Bowie By Sukita”, attiva fino al prossimo 28 giugno presso Palazzo Medici Riccardi, è organizzata e promossa da OEO Firenze Art e Nozze Di Figaro, in collaborazione con Città Metropolitana di Firenze, Comune di Firenze, Mus.E ed è curata da ONO Arte Contemporanea.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f4b042″ class=”” size=””]Sono esposte 90 fotografie complessive, alcune in anteprima nazionale e rappresenta la più ampia selezione mai allestita in Italia tra quelle dedicate a Bowie fotografato da Sukita.[/perfectpullquote]
Il percorso è cronologico e si apre con il gigantesco pannello che riproduce “Keep Your ‘Lectric Eye” (1973) per accoglierci nella chiesa gnostica di Ziggy Stardust. La prima stanza, oltre agli scatti realizzati per Marc Bolan nel 1972, include quattro foto realizzate da Sukita dal 1958 fino a tempi più recenti, provenienti dal suo catalogo surrealista, costituito per lo più da scatti in bianco e nero molto contrastati e ispirati ai rimandi tra dentro e fuori nelle finestre magrittiane, quasi a togliere gamma cromatica a quel mondo e alle stampe multicolore di Suzuki Harunobu, quando ritraeva giovani donne in Kimono e con i tradizionali cappelli di paglia. Una testimonianza importante che è anche indicazione di metodo o più semplicemente, possibile chiave di lettura di un mondo creativo che si manifesta, come dicevamo prima, in uno spazio transizionale creato dal dialogo tra culture distanti.
Il colore erompe invece nella sua componente rossa con gli scatti realizzati durante lo shooting per la RCA; Ziggy, il messia lebbroso, è la creatura che più delle altre attraversa oriente e occidente piegando le convenzioni di genere, grazie anche ai costumi di Yamamoto che arricchiscono le immagini di Sukita con quella combinazione tra simmetrie e asimmetrie che disorienta la percezione unitaria. Tra le foto, “Hang on to yourself” scattata nel febbraio del 1973 davanti alle porte del grande ascensore del Radio City Music Hall di New York, le cui decorazioni furono commissionate alla fine degli anni venti da Donald Deskey allo scultore René Paul Chambellan. L’artista Art Deco realizzò alcuni bassorilievi bronzei, visibili nella foto di Sukita, per rappresentare una serie di scene ispirate all’arte classica e all’attività dei musicisti: un flautista, un violinista e un suonatore di cembalo. La luce di Sukita riflette e “brucia” le porte per evidenziare il cerchio luminoso che si espande sulla fronte pallida di Bowie, una decorazione che l’artista britannico desume da un’idea di Calvin Mark Lee, dirigente della Mercury e amico dello stesso Bowie; dalla foto si sprigionano i segni di un mondo apolide.
Tra la navigata arte del mimo e i gesti della mano che indicano l’inizio e la fine del cabalistico Albero della Vita (“Watch that man I & II, 1973), Sukita riesce a cogliere una qualità comune e quotidiana che si esprimerà al meglio nella fotografia di strada realizzata per il viaggio di Bowie a Kyoto durante il 1980. Tra gli scatti in bianco e nero per esempio, “Our true story began at the rainbow theatre” (1972) è maggiormente concentrata sulla forza del ritratto e mantiene una flagranza potentissima.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f4b042″ class=”” size=””]Bowie è creatura aliena non solo perché l’indicazione orale del gesto rimane sospesa tra i generi, ma anche per la voracità della post-adolescenza che ancora anela all’amorale libertà dell’infanzia.[/perfectpullquote]
Tra ingenuità e dominio, la forte energia della foto spinge Bowie a sceglierla per sovrastare con una stampa di grandissime dimensioni il foyer del Rainbow Theatre, durante i concerti del 19 e 20 agosto 1972. La relazione tra infanzia e perdita della stessa, gioco e automazione, sarà al centro degli scatti realizzati da Sukita durante lo shooting che culminerà nell’artwork di “Heroes”, l’album registrato da Bowie agli Hansa studios di Berlino, insieme a Brian Eno, Robert Fripp e Tony Visconti nel 1977. Anche in questo caso la dimensione polisemica concorre alla creazione di un territorio visivo di confine, perché se si è parlato sin troppo a lungo e con troppa aderenza della derivazione mitteleuropea che allinea la postura bowiana a Roquairol di Erich Heckel, poco si è detto del fil rouge giapponese che connette le scelte cromatiche dei Die Brücke al ritratto bowiano di Yukio Mishima, dipinto a Berlino dall’artista inglese più o meno insieme a quello che ritrae Iggy Pop e appeso alla parete del suo appartamento, durante il soggiorno nella città tedesca. Espressionismo e stampe giapponesi convergono in quella grande tela, così come altri stimoli più complessi emergono dalla relazione tra fotografo e soggetto fotografato.
Mentre nella successione di giubbotti di pelle Sukita pensa ad una versione più erotica e carnale dello Scorpio Rising di Kenneth Anger, i movimenti del teatro giapponese filtrato dall’esperienza con Lindsay Kemp, tornano ad esprimere la loro forza non verbale nei gesti di Bowie. Espressionismo e surrealismo convergono certamente nell’illuminazione della foto di Sukita per creare quel senso di distanza tra lo sfondo, l’outfit e l’incarnato di Bowie. Centro focale dell’immagine è lo sguardo che non cerca alcuna reciprocità, illuminando a giorno la pupilla sinistra per accentuare la disparità tra i due occhi generata dall’anisocoria.
Se l’effetto di alienazione perseguito è quello che scambia di senso e posizione oggetti animati con quelli inanimati, in un lungo percorso che ci porterà fino alla clip di Love is Lost diretta dallo stesso Bowie, l’influenza non è necessariamente solo quella del Marionettentheater Kleistiano o del minimalismo gestuale Brechtiano, ma passa anche attraverso la concisione del Bunraku giapponese. La differenza è nello spazio metaforico, che nel teatro di marionette giapponese viene spazzato via per aprirsi ad infinite possibilità di lettura.
Il Barthes di “Les trois écritures” definisce i pupazzi della tradizione giapponese come slegati dal concetto di fato. Senza fili, cancellano la relazione tra esterno ed interno con un’operazione designificante.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f4b042″ class=”” size=””]Ecco che oltre il genere stesso, quello suggerito dalla foto di Sukita dischiude la qualità “assente” della non dualità.[/perfectpullquote]
Lo shooting viene realizzato durante il viaggio di Bowie in Giappone insieme a Iggy Pop, allestito per promuovere “The Idiot”, l’album dell’iguana prodotto da Bowie stesso e uscito cinque mesi prima rispetto a “Heroes”. La session fotografica si svolge in uno studio di Harajuku, a Tokyo, e comprende gli scatti realizzati per Iggy che in parte saranno utilizzati per l’artwork di “Party”, l’album prodotto da Thom Panunzio e Tommy Boyce e pubblicato da Pop per l’Arista nel 1981.
La differenza con gli scatti per Bowie realizzati nelle stesse ore è evidente e serve a chiarire la capacità di adattamento di Sukita alla volontà inscritta nel volto e nel corpo del soggetto, ma anche il diverso risultato identitario che emerge, tra contrasti e assonanze, riflessi e cancellazioni, tradizioni e cultura globale, Europa, Giappone e Stati Uniti.
Flagranza documentale che emerge nei giorni a Kyoto di Sukita durante il viaggio di Bowie del 1980. L’artista britannico si reca nella città giapponese per pubblicizzare il brand di uno shochu, distillato che si avvicina in parte al nostro Brandy e che ha una notevole diversità in termini di materie prime utilizzate. La musica utilizzata per lo spot si avvicina ad una versione meno “Koto” e più elettronica del brano di Heroes preferito da Sukita, “Moss Garden”, e sarà pubblicata l’anno successivo come B-side di un singolo di Scary Monsters, “Up the Hill Backwards”, con il titolo di “Cristal Japan“. Lo shooting viene realizzato nelle zone suburbane di Tokyo, sopra i mezzi pubblici, al mercato, nelle cabine telefoniche del luogo, alla ricerca di una quotidianità spontanea, quasi per sorprendere Bowie stesso fuori dall’ossessione seriale per i suoi personaggi.
Quando la dimensione posturale emerge, questa è quasi sempre giocosa e ispirata all’iconografia rock’n’roll degli anni ’50, come negli scatti preparatori che condurranno all’artwork di Heroes, ma totalmente fuori dalla dimensione pittorica dello studio.
Bowie si prepara in un certo senso a scomparire fino al 1983, immerso in una quotidianità anonima; Scary Monsters infatti sarà promosso solamente attraverso i videoclip e con una sola ospitata televisiva live, dove Bowie compare con un look che restituisce la versione post-moderna di un’icona del rock’n’roll. Sukita coglie il sentimento del momento e ci regala le foto più intime e confidenziali tra quelle scattate per Bowie in quarant’anni.
Gli incontri successivi di Sukita con Bowie documentati dalla mostra fiorentina, avvicinano l’obiettivo del fotografo giapponese alla verità apparente del ritratto, fino agli scatti successivi per il Reality Tour, gli ultimi realizzati con l’artista britannico. Tra questi emergono le foto realizzate nel 1989, durante la promozione del primo album dei Tin Machine.
Il più intenso della serie si intitola “ki” ed è un close-up che ha la stessa apertura del senso dischiusa dallo scatto per l’artwork di Heroes. La parola “ki” è di difficile traduzione e in occidente viene quasi sempre semplificata in quella dinamica tra corpo e mente che identifica una forza vitale, sia essa una manifestazione degli elementi, come l’aria, o quella dello spirito, come il concetto di anima. Nel passaggio dalla Cina precedente al periodo Han al Giappone del settimo secolo, l’ideogramma ha assunto una larghissima varietà di significati, tanto che all’uso medico nel contesto cinese, corrisponde in Giappone la relazione del “Ki” in un sistema dinamico psicologico e sociale che orienta l’energia verso la dimensione dell’attenzione, ma in modo aperto. Viene quindi definito nella relazione tra l’energia del soggetto e quella del mondo e in quella tra individui diversi, come forza vitale psicosomatica che circola fuori e dentro il mondo stesso. L’equilibrio di questa energia nelle discipline olistiche, dalla meditazione allo Yoga, può aiutare a comprendere il concetto nel lavoro quotidiano di ricerca del SE. Nello scatto di Sukita, questa complessità raggiunge quella cancellazione del significato di cui parlavamo in relazione all’artwork per Heroes. Da Reality in poi, la complessa relazione tra maschera e volto che attraversa tutti gli Artwork Bowiani, prende una direzione nuova, passando per il “defacement” di The Next Day, proprio a partire dalla foto di Sukita, fino alla riduzione ideografica del carattere Unicode che caratterizza la Blackstar di Jonathan Barnbrook.
“Ki”, la foto di Sukita, trattiene l’indicibile nel volto di Bowie che può dirci tutto, senza comunicare assolutamente niente o se preferite, il non attaccamento all’immagine.
Il setting della mostra alterna le foto di Sukita alla costruzione di un percorso narrativo attraverso i testi di Bowie, veri e propri momenti di sospensione meditativa che consentono di ri-contestualizzare le foto con altri abbinamenti e diverse suggestioni. “Heroes. Bowie By Sukita” è accompagnata da un bel catalogo illustrato che ripercorre tutte le foto dell’esposizione in ordine di percorso, con un’introduzione critica curata da Vittoria Mainoldi, parte dello staff Ono Arte Contemporanea insieme a Maurizio Guidoni e Claudia Stritof.
Il volume costa 20 Euro e sarà possibile acquistarlo presso l’area della mostra all’interno di Palazzo Medici Riccardi, solo fino al 28 giugno, ultimo giorno dell’esposizione.
Nel corso dei tre mesi di esposizione sono stati allestiti numerosi eventi collaterali, tra cui i concerti acustici curati da Leonardo Giacomelli per Le Nozze di Figaro, che hanno visto il chitarrista e cantante Riccardo Mori esibirsi in una serie di set live di 20 minuti dedicati alla musica di David Bowie negli orari 12, 15 e 17.
L’ultimo appuntamento previsto è quello del 22 giugno.
Heroes – Bowie by Sukita
Fino al 28 giugno 2019
Palazzo Medici Riccardi, via Cavour 1, Firenze
tel. 0552760552
Catalogo OEO Firenze Art, € 20
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