Il lungo e proficuo legame tra Hollywood e l’industria musicale, ha generato anche strane partenogenesi. Quando i due mondi non avevano più un grembo in comune e il Musical subiva una radicale trasformazione a partire dalla fine degli anni sessanta, cinema e musica cominciavano a dialogare in modo diverso, ma non meno intenso. Negli anni ottanta, la scansione musicale di un film determinava l’andamento narrativo e influenzava scrittura e montaggio, non pensiamo solo a Fame di Alan Parker o a Flashdance di Adrian Lyne, ma anche alle commedie come The Breakfast Club e in una direzione diversa ai film di Jonathan Demme.
Nel 1987 per esempio, Bruce Willis pubblica The return of Bruno, album pubblicato nientemeno che dalla Motown, dove l’attore tenta la strada dell’R&B. Operazione che si connette ad una lunga tradizione di attori che si cimentano come performer, ma che è anche causa della sbornia pop del momento.
Non è così isolata la scelta dell’allora ventitreenne Scarlett Johansson, quando nel 2008 pubblicò il suo primo album solista con la produzione di Dave Sitek dei TV on The Radio. Sulla scia di altre attrici della sua stessa generazione, pensiamo a Zooey Deschanel, Scarlett si fa sedurre dal linguaggio pop-rock indipendente, lo stesso che era prepotentemente passato dalla porta dell’industria mainstream. C’è un dialogo quasi diretto tra la tracklist di Lost in translation, il film di Sofia Coppola condiviso dalla Johansson insieme a Bill Murray e la scelta di interpretare una manciata di brani scritti da Tom Waits, con i suoni e l’attitudine del dream pop fine ottanta, ovvero quello che in qualche modo radicava le proprie “lullabies” nella canzone di Phil Spector, sporcata con rumore e stratificazioni cacofoniche.
La non-voce della Johansson non ha niente di meno rispetto alle vocalità eteree che hanno attraversato la produzione musicale indipendente degli anni novanta, anzi riesce a generare energie inedite, tra erotismo e ricerca identitaria.
Alle registrazioni di Falling Down e Fannin Street, partecipò anche David Bowie, in una delle poche concessioni fatte allo showbiz durante il suo lungo periodo di pausa, dopo il tour di Reality.
Un’apparizione fantasmatica quella dell’artista britannico, quasi inaudibile e ridotta alla consistenza di alcuni cori, eppure fortissima, proprio per la capacità di indirizzare l’ascolto con l’umiltà del motivatore, tecnica straordinaria per creare attenzione e aspettativa, spostandosi dal centro ai margini.
Più della partecipazione all’album, a definire un percorso critico che diventa la recensione all’album della Johansson, sono le dichiarazioni concesse a mezzo stampa che rimbalzano tra i principali media di settore britannici e statunitensi : “Le canzoni sono fantastiche, davvero ottime scelte dal repertorio di Tom Waits, e l’interpretazione di Scarlett ha una qualità mistica. Riesce a creare uno stato d’animo che avrebbe potuto essere evocato da scrittrici come Margery Latimer o Jeanette Winterson“
Probabile che Bowie pensasse a opere come PowerBook oppure The New Freedom, dove nell’arco di settant’anni, quelli che separano le due pubblicazioni, si affrontano mutazioni identitarie traumatiche che coinvolgono la relazione tra organico e inorganico, la trasformazione della carne, il genere, l’identità e l’esplosione del virtuale entro i confini di quello che fino ad allora consideravamo reale.
Temi anche bowiani certamente, ma che con estrema semplicità e riduzione dei segni, risuonano nell’appropriazione dell’estetica di Waits da parte della Johansson, allo scopo di condurre quel clangore materiale e quel lamento maschile in un’altra dimensione.
“Immagino che la casa discografica volesse spingere sul fatto del mio coinvolgimento più di quanto non meriti realmente – precisò Bowie ad alcuni giornalisti – Il mio contributo di fatto si limita ad alcuni oooo e ahhhh su un paio di tracce“
In realtà la partecipazione di Bowie è lievemente più consistente e al minuto 3:23 di Falling Down, canta una linea di testo insieme a Scarlett.
La canzone fu diffusa con un singolo e un video ufficiale diretto da Bennett Miller, che aveva già debuttato nel cinema con la regia di Truman Capote – A Sangue Freddo e che qualche anno dopo dirigerà Foxcatcher. Filmato durante una giornata di lavoro della Johansson, coglie il transito tra la giovane donna e l’attrice, con le liriche di Waits che assumono altri nuovi possibili significati. Scarlett è il nome del personaggio femminile creato da Waits, figura difficile da collocare chiaramente nel declino di quello maschile, ma che alternativamente rappresenta un’amante tradita o che tradisce le aspettative di un sogno impossibile: “And she wants you to steal and get caught / For she loves you for all that you are not / When you’re falling down“.
La Johansson fa emergere i frammenti di un dialogo interiore, nel viaggio verso la trasformazione del personaggio, evocato con le caratteristiche di un sogno che sorge dallo specchio della recitazione. Le immagini accentuano questa dimensione, con i segni e i tatuaggi del corpo cancellati dal make-up e il viaggio in macchina che sembra un continuum temporale che proviene dalla stessa infanzia di Scarlett, mentre sogna la vita sul set.
La breve apparizione di Salman Rushdie filmata in bianco e nero e con un chiaro intento drammaturgico, più delle illazioni che hanno solleticato la consueta stampa usa e getta dell’epoca, sembra l’embrione di una narrazione possibile, che arricchisce la riscrittura del testo e dell’immaginario di Tom Waits. Attraverso i suoi romanzi, Rushdie ha descritto figure femminili forti, in fuga dal sistema patriarcale e dalla repressione che questo veicola. Uno statuto che la Johansson affida alla sua soggettiva puntata su Scarlett. Allo stesso tempo, il territorio ibrido tra finzione ed elementi autobiografici che individua lo spazio della narrazione nell’opera dello scrittore indiano, viene applicato da Scarlett per arricchire il suo lavoro di re-interpretazione.
In questo senso Scarlett Johansson comprende l’aspetto più profondo dell’interprete che si avvicina al repertorio musicale altrui, esattamente come un’attrice che è pronta a rinunciare ad una parte di se stessa per donarla al personaggio: profonda fedeltà al proprio racconto, a costo di essere infedeli. Scarlett, personaggio appena citato nel testo di Waits, diventa chiave di ingresso per le due, tre, quattro Scarlett con cui la Johansson instaura una relazione.
Falling down è allora una potentissima esplorazione dell’identità femminile; senza bisogno di un orpello visuale ingombrante e grazie al solo potere combinatorio della scrittura.