giovedì, Novembre 21, 2024

Uffici stampa vs. social media marketing: Quale musica indipendente?

[In copertina, Pizza Dj Slipmat]

Indie-eye non si è mai occupato in modo esclusivo di musica “indipendente” in senso stretto e lo sta facendo sempre più raramente, dal momento in cui ha esteso la decennale attenzione rivolta al mondo dei videoclip a tutta la divisione musica del network, rinunciando totalmente alle recensioni tradizionali legate alle uscite discografiche, sempre più identiche a se stesse e inutili, rispetto alla vocazione transmediale della rete.

La vocazione transmediale della rete

Abbiamo sempre favorito quest’ultimo aspetto con la produzione di video session, video interviste, video unboxing, podcast e videoclip live, perché ci piacciono di più, sono contenuti “nativi”,  girano maggiormente e i loro risultati sono misurabili al di fuori dei quattro cantoni di una critica che si legge a vicenda. A dispetto del nome della testata, è lo sguardo, oppure l’occhio, ad essere autonomo e libero nelle scelte così come nelle valutazioni. Questo include anche il cosiddetto sottobosco musicale italiano, sempre più distante da prassi e metodologie genuinamente “underground” e più vicino ad una brutta pantomima del mondo mainstream, da cui desume tutte le attitudini e le posture peggiori, ad eccezione dei numeri, irrimediabilmente bassi, se non inesistenti.

Non ci stiamo riferendo ai musicisti e ai numerosi talenti che si muovono in un contesto così difficile, alcuni dei quali validissimi, ma ad un fenomeno di saturazione causato dall’unico tassello della filiera che si porta a casa i soldi: le agenzie di promozione.

La quantità annuale di produzioni che vengono immesse nel girone infernale delle “indies” non consente più di distinguere un prodotto di qualità da uno più seriale, lo dimostra la ripetibilità delle recensioni, brevissime, tutte uguali e nel peggiore dei casi desunte, se non copiate, dal comunicato stampa ufficiale. 

Per questo lavoro scadente offerto dalle agenzie di settore un artista può pagare dalle 1.500 alle 6.000 euro.

Il bombardamento quotidiano di proposte da parte delle agenzie, consente a queste di mettere a bilancio ogni anno una decente dichiarazione dei redditi, soprattutto se si considerano le “uscite” mensili e il costo di un’attività promozionale a carico del musicista, la cui durata non supera tre mesi.

Alla fine di questo evento promozionale, il musicista non assiste ad un considerevole cambiamento della sua vita artistica,  sia in termini numerici che dal punto di vista della reputazione, molto spesso gonfiata senza la reale capacità di fornire criteri misurabili. Una nutrita rassegna stampa non è certo un criterio misurabile.

Un musicista, a fronte di esperienze fallimentari con le promozioni, dovrebbe farsi queste domande:

  • Quanti live in più sono stato in grado di fare dopo aver affidato i miei soldi e il mio lavoro ad un’agenzia che pago a caro prezzo?
  • La mia visibilità e soprattutto il coinvolgimento dell’utenza sui social sono aumentati?
  • Questi due fattori, il live e la reputazione, gli unici in grado di veicolare qualche vendita sulla mia musica, sono stati spinti con gli strumenti giusti dall’agenzia a cui mi sono rivolto?
  • La mia agenzia ha contatti validi con il mondo del cinema e della pubblicità, porta che aprirebbe possibilità di guadagno più sicure attraverso i diritti di sincronizzazione?
  • Sono così sicuro che devolvere tutte le edizioni ad un’agenzia sia una mossa intelligente?
  • Dieci recensioni sulle riviste cartacee old style, dirette e diffuse con i metodi di 30 anni fa, hanno davvero fatto la differenza e sopratutto, valgono le 2.000 euro spese con le agenzie di promozione?
  • Il cosiddetto premio XXX, assegnato dalla critica durante lo svolgimento della manifestazione XXX dedicata agli emergenti della musica indipendente, è servito a qualcosa?
  • Come mai quello stesso premio, oltre a NON devolvere una somma in denaro, si rivela come amplificazione di un mondo di critici già morto, che punta alla propria sopravvivenza senza favorire realmente gli artisti?

Le agenzie di promozione hanno ancora un ruolo centrale?

In un articolo vecchio di tre anni scritto da Valentina Galano per “Il fatto quotidiano“, si raccoglieva l’esperienza sul campo di Promorama, Lunatik e Martepress,  tre agenzie legate alla promozione musicale,  definendo ancora come centrale il ruolo degli uffici stampa, per garantire il successo di un progetto che dalla già saturatissima area “indipendente” fosse in grado di transitare dai gironi più bassi dell’inferno mediatico a più accoglienti salotti di primo livello. Sul motivo per cui Paolo Benvegnù non ci sia ancora riuscito e Lo stato sociale si, sarebbe bello chiederlo alla stessa autrice. Al primo spettano i circoli ARCI, ai secondi platee ben diverse, non si tratta di un giudizio qualitativo sulla loro musica, ma di una valutazione legata alla dimensione promozionale di alcuni artisti, la cui vita professionale non è cambiata sensibilmente negli ultimi dieci anni. Un bilancio disastroso.

L’articolo in questione si limitava ad ascoltare i pareri dei tre soggetti interpellati, indicando alcune visioni possibili, dal contributo di un management illuminato capace di organizzare strategie di comunicazione efficaci, passando per la costruzione di una rassegna stampa di rilievo, fino ad alcune considerazioni di passaggio sulla morfologia della rete e sul peso specifico che i contributi video stavano assumendo nello scambio tra media di settore / utenti / social network.

ormai la musica viene consumata principalmente sul web – diceva Alessandro Favilli di Promorama – e in buona parte attraverso i video che si prestano ad essere condivisi in rete e sui social network

Nell’articolo ci si guardava bene dal fare una qualsiasi analisi di mercato e dall’analizzare le strategie di marketing impiegate dalle agenzie di settore, evitando quindi di comparare numeri, misurabilità dei risultati, obiettivi del “cliente”,  incidenza sulle vendite, laddove per vendite si intende ovviamente qualcosa di diverso e di più complessivo rispetto alla semplice diffusione del supporto, o dal commercio della musica “liquida” attraverso piattaforme digitali e i servizi di streaming on demand. 

In uno scenario complesso, dove i soggetti che in Italia offrono servizi di promozione si sono moltiplicati a partire originariamente da un contesto endogeno come quello delle distribuzioni nazionali, fino all’esplosione della libera professione, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una rivoluzione disordinata e inquietante che ha confuso ruoli, appiattito competenze, distrutto un linguaggio e confuso metodologie, mettendo in un angolo l’identità del giornalista come soggetto prima di tutto informato del suo ruolo, dei suoi limiti e di una deontologia che dovrebbe impedirgli di organizzare un vero e proprio mercato delle pulci improvvisato.

Se passassimo al setaccio tutti gli uffici stampa che in Italia si occupano di musica, quelli gestiti da giornalisti di professione si ridurrebbero a pochi soggetti operativi

…mentre quelli che  comunicano senza cercare insistentemente di vendere prodotti un tanto al chilo, sarebbero probabilmente non pervenuti. Un segnale chiarissimo di quello che stiamo dicendo sono gli interlocutori scelti da questo tipo di agenzie, ovvero realtà editoriali inesistenti, senza alcuna registrazione al tribunale di riferimento, figuriamoci al registro operatori della comunicazione.

Nel far west della rete e in questo contesto eminentemente non-giornalistico gestito da fan mediamente organizzati, le prime ad alimentare una comunicazione di bassa qualità sostanzialmente orientata alla quantità dei contributi, sono le agenzie di settore

…tranne sempre più rare eccezioni, propongono un piano media che non garantisce attenzione nei confronti del prodotto, ma semplicemente una presenza “tecnica” in rete, il più delle volte caratterizzata dal copia e incolla di un comunicato stampa precotto. 

Uno dei promoter citati in questo articolo, per quanto riguarda la possibilità di ospitare anteprime video su indie-eye, la cui linea redazionale si basa su scelte e metodologie di linguaggio ben precise, ci ha risposto che sono le band a decidere, perché sanno già dove vogliono essere presenti e dove non vogliono andare. Il promoter è quindi ormai semplicemente un fornitore, non consiglia, non dialoga, non intesse più relazioni che si basino sulla qualità e sulla pertinenza di un prodotto con alcune diversità rispetto ad un barattolo di sottaceti, non comunica con media specifici, ma con presidi da occupare, poco importa se l’informazione veicolata è tutta uguale tanto da annullarsi in una forma indistinguibile e soprattutto, inefficace.

Secondo la tipica mentalità del rappresentante di prodotti è del tutto normale affidare il lancio di un videoclip ad una testata generalista che non è interessata alla differenza tra un gimbal e una steadycam o più semplicemente tra un regista e un musicista. Ad esser veicolati sono gli aspetti più superficiali della promozione, anche quando questa non è giustificata da un hype rilevante, aspetti che spesso tagliano fuori un intero team creativo o lo assimilano nel modo più rozzo all’identità del musicista, secondo parametri promozionali forse ancora credibili durante gli anni ottanta.

Facilmente troveremo in rete una saturazione delle stesse informazioni, senza alcun contributo giornalistico degno di questo nome,  perché chi scrive su alcuni “presidi”, raramente dimostra esperienza nella gestione di fonti e informazioni.

Un’attitudine quantitativa  che ha infettato morfologicamente anche la supposta qualità dei media più “nobili”, basta pensare ad alcune riviste cartacee di settore, che nel pubblicare in copertina la quantità di recensioni disponibile sul numero corrente, dichiarano tutto l’esistente in termini di uscite, con un numero di mini-articoli pubblicati pari ad alcune centinaia. Un numero esorbitante, inutile quanto l’iper mercato della critica e che non può destinare più di dieci righe per artista, nei casi più fortunati, con un linguaggio che spesso ricorda quello dei necrologi invece del consiglio di un ascoltatore esperto, non importa se si esprime felicità o raccapriccio, perché la funzione usa e getta per il lettore e lo “scrittore” distratto è la stessa dei coccodrilli. 

Questo tipo di “letteratura” critica non sopravvive certo grazie agli abbonamenti, ma ad un reposting continuo da parte dei musicisti oggetto di recensione sui propri social network di riferimento. La foto della mini recensione cartacea diventa specchio reputazionale, un “ci sono anch’io”, un corto circuito che non è certo sinonimo di qualità, come non lo sono le operazioni “vintage” dei media center che alimentano la vendita di giradischi di scarsa fattura in virtù della dotazione di una porta USB on board, un ritorno al passato indicato come “moderno”, ovvero già obsolescente proprio quando si pensava di definirlo come tale.

Chi suona sa benissimo che la strategia di alcune testate mensili è quella di non informare gli interessati su quale numero sarà pubblicata la recensione che riguarda il loro lavoro; considerate le centinaia di band destinate all’oblio che ogni mese possono occupare 500 schede da dieci righe ciascuna (di questo si tratta) i finanziatori di quella realtà editoriale saranno in buona parte gli amici e i parenti degli artisti recensiti.

Si tratta di una base di sopravvivenza per alcune piccole realtà editoriali, che viene garantita da questo crescente esercito di “addetti ai lavori”, i primi ad essere sostanzialmente truffati da questo circolo vizioso alimentato dalle agenzie, il cui costo oscilla all’incirca dalle 1.500 alle 6.000 euro per un compito di diffusione a mezzo stampa che non supera i tre mesi e che si limita quando va bene all’invio di copie CD-R con il metodo del “piego di libri”, per il resto tutto è appiattito dall’impermanenza del digital download e da un lavoro, spesso seriale, di mail marketing.

La richiesta lato media di formati Vinile per offrire servizi di promozione innovativa come i Video Unboxing, per quanto riguarda l’Italia è una battaglia difficilissima, segno dello stato comatoso in cui versano etichette ed agenzie.

Se pubblicassimo le risposte di alcune agenzie stampa italiane in relazione a questo tipo di proposta, potremmo offrire un quadro davvero terzomondista delle modalità con cui si lavora in alcuni contesti. Non vale la scusa che questo sia compito delle etichette o delle distribuzioni, perché nel momento in cui l’agenzia di promozione rappresenta il  tramite ufficiale per concordare un contenuto o un evento mediatico, non importa se di tipologia convenzionale o meno,  bypassare l’ufficio stampa per iniziative di questo tipo sarebbe comunque fermamente osteggiato. A subirne un danno sarebbe sempre e comunque il cliente che paga, ovvero il musicista.

Stiamo ovviamente parlando di agenzie che operano soprattutto nell’ambito della musica indipendente e di artisti che dopo aver speso tutto il denaro per prodursi, si sono affidati ai servizi delle prime per promuoversi.

Nel peggiore dei casi, ovvero quello tendenzialmente più diffuso, l’artista investe sulla produzione, sulla post produzione, regala una fetta considerevole delle proprie edizioni, moneta preziosa nel caso in cui il suo brano venga utilizzato in un film o in una pubblicità e paga altri soldi per una manciata di recensioni.

Attualmente viene pagato molto di più il lavoro di un ufficio stampa rispetto a quello di un videomaker indipendente, il cui valore è infinitamente più alto, almeno in termini di impegno, competenze, creatività, impiego di energie e spendibilità di un prodotto audiovisivo sulle piattaforme cross-mediali.

L’esperienza di indie-eye in tal senso si è rivelata come una missione emozionante sopratutto nel tentativo di offrire contenuti audiovisivi gratuiti e di qualità come quelli raccolti su questo canale, sperimentando formati e linguaggi e fornendo di fatto strumenti promozionali ben più articolati e ricchi di una semplice recensione.

Rich content media di valore che possono essere osservati da due lati della barricata, quello dell’informazione giornalistico-documentale “pura” e quello della promozione commerciale di un live, di un evento, di un prodotto.

Sono strumenti utilissimi per agenzie di promozione già pagate profumatamente, quasi mai in grado di immaginare qualcosa oltre il bombardamento di un comunicato stampa, buono per tutte le tipologie di media con cui hanno a che fare. Un danno incalcolabile per gli artisti che pagano, ma anche per i media. Le testate online che producono audiovisivi di qualità a fronte di costi considerevoli, al di là dalle possibilità offerte dall’advertising di Youtube, non possono associare pubblicità di rilievo se il contenuto trattato rimane nel contesto delle produzioni emergenti. La questione deve quindi essere analizzata da un altro punto di vista:  Chi è allora che si accolla costi e oneri? Chi si prende i meriti promozionali?  L’agenzia o il media che produce un audiovisivo destinato a girare?

I Video live, le video interviste, le session, i video trailer consentono di valorizzare al meglio alcune produzioni altrimenti destinate alla moltiplicazione delle recensioni istantanee

Video che dal nostro punto di vista e nella maggior parte dei casi, hanno richiesto spostamenti, impiego di competenze e un lungo processo di post produzione senza alcun tipo di contributo, neanche la questua attivata da alcune testate storiche, il cui ricorso ai finanziamenti statali non ci sembra abbia assolto la funzione per cui questi sono stati concepiti: creare posti di lavoro.

Alcune agenzie stampa sono diventate l’unico soggetto della filiera favorito dalla “gratuità” della rete, una gratuità che come ricorda Michele Partipilo, componente dell’ Osservatorio Deontologia del Consiglio Nazionale Dell’ordine dei Giornalisti, viene pagata a caro prezzo da tutti gli utenti, soprattutto nella relazione tra dati sensibili e nuovi media, social network e profilazione dell’utenza.

E i musicisti cosa sono se non utenti in relazione a quei servizi di comunicazione pagati a caro prezzo a favore di agenzie che non sono più in grado di offrire un servizio credibile ed efficace?

La sensazione e il sentimento che si fa sempre più strada tra chi produce musica in prima persona è quella di poter ottenere maggiori risultati senza l’intermediazione di uffici stampa, agenzie ed etichette inesistenti il cui “brand” non corrisponde alla presenza di una realtà imprenditoriale strutturata, capace di sostenere l’artista. Perché non fare da soli quando sotto un certo livello,  l’agenzia che ha curato la promozione di un artista non riesce a cambiare sensibilmente la sua posizione in cinque anni, adottando metodi e contratti talvolta vincolanti che in altri tempi e in altri mondi venivano imputati alle luciferine e leggendarie rappresentazioni del mondo major?

Simulare una filiera pachidermica quando questa non esiste equivale di fatto a rallentare l’affermazione di un artista, a frenare la possibilità che questo stabilisca relazioni con persone e con un contesto più produttivo, direzionando in modo scellerato i suoi investimenti, facendolo atterrare su un pianeta di possibilità fasulle, tutte identiche a se stesse e che oltretutto equivalgono alla desertificazione di quelle facoltà legate all’intelletto che consentirebbero di distinguere, selezionare, approfondire e attivare alcuni criteri analitici di qualità.

Nel 2016, quella simpatica volpe di Robin Good ha diffuso questo video, contestualmente ad un corso online di grande successo che salutava gli uffici stampa come un fenomeno negativo.

Ma di quali uffici stampa parlava Robin Good?

In questo esempio del noto comunicatore si esprimono alcuni concetti diventati vero e proprio cavallo di battaglia per chi spinge verso scelte alternative. Sono concetti ripresi da numerose attività di social marketing e promozione “non convenzionale” fiorite negli ultimi tre anni per convincere gli artisti a investire in modo più consapevole i propri soldi, attraverso nuove forme di comunicazione e bypassando quindi le agenzie tradizionali di settore.

Robin Good stigmatizza quelle agenzie che bombardano i media anonimizzando i contenuti, ovvero senza alcun interesse nei confronti del contenitore e dell’interlocutore, di fatto appiattendo il contenuto stesso che vorrebbero promuovere.

Per Good questo tipo di agenzia non lavora nell’interesse dei media e di conseguenza non comunica qualcosa di utile per i propri clienti.

Nella saturazione di questo tipo di comunicazione Good evidenzia alcuni aspetti “etici” o di cattiva “etica” della comunicazione a suo avviso preoccupanti, tra cui la replicabilità infinita di metodologie impersonali e al limite dello spam, veicolate con un linguaggio che costruisce una vera e propria distanza tra contenuto ed editore, basando quindi la costruzione di un rapporto di fiducia solo sul tentativo molesto e reiterato per ottenere uno spazio.

Per Good si tratta di un metodo passivo di “trasmissione” dei contenuti, totalmente a senso unico e senza alcuna strategia di marketing alle spalle, è una prassi che denuncia una manifesta ignoranza nell’utilizzo dei nuovi media e che tende a tener fuori proprio l’aspetto più importante nell’attività di un ufficio stampa: la costruzione di relazioni tra soggetti, in un reciproco rapporto di stima che consenta di capitalizzare spazi di qualità nel tempo e sulla base di proposte che non tendano ad ottenere uno spazio, subito e ad ogni costo.

Robin Good, intelligentemente, non si addentra nella descrizione delle diverse tipologie di uffici stampa presenti sul territorio italiano, non parla della professione giornalistica e probabilmente si riferisce a coloro che  la esercitano in modo scorretto, senza titoli e preparazione.

Rimanendo sul vago denuncia una tendenza difficilmente contestabile, cercando di dare corpo alla crescente insoddisfazione degli artisti e di chi fa musica in termini di risultati, soprattutto quando sono costretti a pagare cifre considerevoli.

Non siamo del tutto convinti che la “misurabilità” di alcune azioni di social marketing possano applicarsi con efficacia ad un mercato che non ha margini particolarmente ampi, per ragioni lunghe da dettagliare in questa sede, ma allo stesso tempo non ci sentiamo di ignorare completamente gli stimoli di chi, come Robin Good, ha avuto il coraggio di mettere il dito su una piaga purulenta, rilanciando di fatto alcune strategie DIY con mezzi più adeguati all’esistente e che in altri contesti, storici e mediatici, non sono certo state guardate con lo stesso sospetto.

Il ritorno ad un passato di qualità è una chimera?

Il ritorno al passato, dichiarato a più riprese e con intenzioni pragmaticamente polemiche da realtà come Fuori dall’Indie, la divisione di Pippola Music di Paolo Favati con la direzione artistica di David Drago, rientra a nostro avviso in quel tipo di rivendicazioni ideologiche che ostinatamente e con un certa presunzione, non vogliono o non possono fare i conti con un mercato che va da tutt’altra parte.

Era meglio quando si stava peggio?

La scena indipendente italiana per David Drago “aveva un tempo grande significato, mentre adesso è in confusione“. Ce lo ha raccontato in un’intervista che purtroppo non abbiamo potuto pubblicare integralmente per ragioni tecniche indipendenti dalla nostra volontà e legate alle repentine trasformazioni, anche contrattuali, in seno al roster Pippola ancora in via di definizione.

Un lavoro buttato al vento per scarsa professionalità, non nostra, e che vorremmo recuperare almeno a partire dai concetti base.

La qualità contro la serialità dei Talent?

In uno scenario dove, sempre per Drago, le major hanno puntato sui prodotti da bruciare buoni per i talent, non investendo più in modo oculato sulla qualità artistica e sul singolo nome da tirare su, la musica indipendente italiana per lungo tempo ha colmato una lacuna importante per lo meno sotto il profilo della produttività e della varietà creativa.

Il mercato della musica indipendente è in confusione

Drago ritiene che il mercato indipendente non sia più lo stesso perché progressivamente trasformato in un prodotto targhetizzato e omologato che dialoga perfettamente con le peggiori attitudini delle major. I referenti sono i giovani disegnati in un certo modo, le cui lamentatio generazionali, aggiungiamo noi, sono ben rappresentate dal percorso compiuto da “Lo Stato sociale” fino alla consacrazione sul palco del Teatro Ariston di Sanremo. Le keywords sono le stesse, i temi sono gli stessi, la musica è quella e spesso totalmente in secondo piano, le promozioni si occupano di artisti ormai tutti uguali e che rientrano in questa fetta di mercato.

Una musica più adulta

C’è un’altra musica, ci diceva Drago, più adulta e che ha bisogno di essere nuovamente coltivata dall’industria. La musica d’autore ha bisogno di trovare incentivi. Le intenzioni, nobilissime, di Pippola music sarebbero queste; ricondurre gli autori al loro pubblico di riferimento, che secondo Drago esiste ed è numeroso, almeno sopra il confine dei trent’anni. Un pubblico totalmente orfano di un certo tipo di musica, altrimenti destinata all’oblio creativo.

Il nuovo paradiso creativo per i musicisti. Quali sono i presupposti economici e di mercato?

Secondo Drago e le intenzioni di Pippola Music, l’artista verrebbe coccolato da questo paradiso artistico e produttivo, dove finalmente non pagherà niente, dalla stampa del disco al servizio affidato alle agenzie di comunicazione. Pochi nomi, selezionatissimi, e un team di lavoro presumibilmente affiatato, concentrato sullo sviluppo artistico del progetto preso in carico.

Anche nel caso descritto da Drago, come nel vecchio articolo della Galano, ci sembra manchi un’analisi credibile su quella filiera economica in grado di ripristinare figure certamente necessarie per garantire la validità artistica di un prodotto, figure con ruoli ben definiti ormai scomparse, dal produttore al direttore artistico, fino all’ufficio stampa interno o esternalizzato, concentrati sulla promozione di un prodotto della creatività, accompagnato in tutte le sue fasi.

Tutti quanti finalmente pagati sotto l’unico tetto di un’etichetta in grado di pensare a qualsiasi cosa senza che gli artisti siano costretti a spendere. Un bellissimo “miracolo italiano” legato ad alcune ipotesi di qualità che per ragioni socioeconomiche molto specifiche si era infranto da qualche lustro e che adesso, senza alcuna analisi di mercato credibile e sostenibile, viene improvvisamente ripristinato da un gruppo di sognatori che forse si immaginano di poter andare avanti con un “welfare state” completamente immaginato.

Sognare non è un peccato, ma ci si chiede, banalmente, da dove arrivino tutti questi soldi destinati a pagare le figure professionali coinvolte in questo progetto, inclusa la garanzia che il musicista possa ottenere ciò che gli spetta.

Soldi che provengono da un finanziatore esterno o dalla corretta analisi di un mercato che improvvisamente ha trovato nuove vie da praticare?

Dilettantismo vs. professionalità

Soprattutto ci chiediamo se sia finita davvero l’era in cui ci si rivolge all’amico dell’amico o allo scambio di visibilità per svolgere alcuni lavori a sconto che rappresentano ancora uno strumento necessario, dalle foto stampa ai video promozionali.

Ci chiediamo inoltre se sia finita la prassi degli uffici stampa improvvisati, spesso gestiti solo con una partita IVA da ex musicisti che hanno letto due volumi for dummies di comunicazione e che inviano mail come questa:

proposta anteprima video
ciao
ti potrebbe interessare mettere on line in anteprima il video in oggetto
ATTENZIONE
se non ti interessa ti pregherei di non mettere on line la notizia visto che al momento il link you tube è ancora segreto 

(ndr. youtube scritto esattamente you (spazio) tube. )

Ovvero testi impersonali, ai limiti dello spam, gestiti da software di mail marketing formattati e soprattutto utilizzati selvaggiamente, dove il rapporto con i media è totalmente dilettantesco e basato sulla quantità; un’attività pagata dalle 1.500 euro in su dagli artisti e che non stabilisce rapporti, connessioni e fiducia con l’interlocutore. Marketing pubblicitario al più basso livello.

Da questo punto di vista Robin Good ha ragione da vendere e potremmo fornirgli più di dieci anni di materiale utile e una selezione di case histories divertentissime. 

“Restaurazione” significherebbe capire quali siano i presupposti reali per sentirsi migliori, più bravi e credibili degli altri in termini semplicemente strategici e imprenditoriali.

In caso contrario si tratta di una rimasticazione dell’aria, quella stantia di un vecchio armadio.

Se i nostri dubbi si rivelassero esagerati, si tratterebbe di un bel cambio di paradigma per un contesto che nel settore della comunicazione ha prodotto dilettanti allo sbaraglio senza alcuna vergogna, al momento attiviamo la modalità “San Tommaso”, certi che la verità, se ci fosse davvero, occuperebbe comunque un punto medio. 

Perchè pagare per essere (in)felici?

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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