Rich Lee è uno dei registi più quotati del nuovo millennio e meriterebbe un approfondimento dettagliato. Con Lana Del Rey ha stabilito un sodalizio a partire dal 2017, girando il bellissimo video di Love, perfettamente ritagliato sulla mitologia iconica della cantante newyorchese e allo stesso tempo, piccolo saggio sull’immagine digitale, tra found footage vero, ricostruito, presunto e incredibili salti percettivi nella memoria delle immagini.
Doin’ Time è maggiormente fissato nella sua patina temporale e gioca con la cornice vintage in modo esplicito, recuperando un classico della fantascienza americana di serie B come “Attack of the 50 Foot Woman“, riletto attraverso lo spirito parodico di Fred Olen Ray, che negli anni novanta aveva diretto un delirante remake molto più sessualizzato, intitolato “Attack of the 60 Foot Centerfold“.
La Del Rey scende a patti con il proprio ego e si prende in giro, nel suo indolente girovagare per Los Angeles, mentre punta verso Venice Beach, per poi fuoriuscire dallo schermo di un drive-in e spaventare un’altra Lana vestita con panni comuni.
Fantasia metavisiva giocosa, disimpegnata, ma non per questo meno consapevole, si muove nel solco “fetish” che ha contribuito a costruire tutto l’immaginario della performer americana, basato sull’esaltazione di un modello fortemente sessualizzato in termini eterosessuali, dove la sottomissione desunta dalla passività femminile degli anni cinquanta, viene rilanciata secondo coordinate glamour. “You’re not good for me – cantava Lana in Diet Mountain Dew – but baby, i want you”. Dall’abuso elevato a bene consumabile alla Macrofilia come estremizzazione rovesciata di quello stesso modello. Le “Giantesses” nella fantasia maschile di sottomissione, dominano, schiacciano e divorano. Lana si appropria ancora una volta dei loro desideri e li calpesta, consentendo a Elizabeth Woolridge Grant di vivere oltre quel riflesso.